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Quant’è jolie il musicarello parigino di Billie Eilish (pure troppo)

Nel Prime Day Show la popstar si muove in una Parigi fuori dal tempo, omaggio a una delle città-set per eccellenza. Non è la porta d’ingresso al mondo di ‘Happier Than Ever’, è una fiaba ipercarina

Foto: un fermo immagine dal 'Prime Day Show'

Una giornata di pioggia a Parigi, regia di Woody Allen, anzi di Billie Eilish e Sam Wrench. I passanti sfiorano i banchetti all’aperto delle librerie dove volumi che immaginiamo belli e rari sono protetti dal cellophane. Le coppie nei caffè stanno sotto gli ombrelloni e sorseggiano di sicuro pastis. I camerieri scrutano il cielo col naso all’insù. E tutto è avvolto da una romanticissima luce del tramonto che colora gli edifici di tinte fiabesche. Al primo piano d’una casa, dietro a una fioriera e una ringhiera in ferro battuto, c’è lei, Billie Eilish. S’affaccia di sotto e canta My Future, il suo invito a ballare con la nostra solitudine. Ha il timbro limpido e struggente che può avere una pop star di 19 anni che evoca lo spirito delle leggendarie vocalist jazz.

C’è questa atmosfera qui, fatata e lievemente irreale, nel Prime Day Show di Billie Eilish visibile su Amazon con quelli di H.E.R. e Kid Cudi, trinità d’estrema figaggine al servizio della filosofia «prenota entro tre ore e ricevi il pacco domani». Non è un concerto, ma un musicarello senza trama che serve per mettere in fila sei canzoni, 30 minuti di musica sullo sfondo di una Parigi ipercinematografica reimmaginata in un’epoca indefinita, ma certamente perfetta e felice. Ci sono parcheggiate le Smart, siamo contemporanei alla storia, ma non sembra.

Si scopre poi che in casa Eilish ci sono il fratello Finneas e un batterista che l’accompagneranno nelle sue esibizioni. Lei gira la città e li ritrova sempre lì pronti a suonare, come per magia. Si comincia a ballare, con misura: lei con camicia da mercatino vintage un po’ spiegazzata (assistente costumista, dove sei?), gonna a pieghe, scarpe con gettata di calzettoni quasi fino al ginocchio, orologio da signorina bene; l’appartamento avvolto da una luce bronzea e irreale. Squilla il telefono, c’è un appuntamento al parco. «See you there». Ha smesso di piovere, Billie esce, compra un vecchio libro a una bancarella – tutti gli americani a Parigi nei film comprano libri alle bancarelle. È The Doll House Caper di Jean. S. O’Connell, storia d’una casa di bambole che prende vita ogni Natale, ci si aspetta un +400% su Amazon, altroché effetto Ferragni agli Uffizi.

È tutto très jolie, pure troppo. Seguono: déjeuner sur l’herbe al parchetto, con Billie che acchiappa il microfono e canta Therefore I Am in un gazebo nell’indifferenza generale; corsa in Vespa con amichetto non meglio identificato causa casco; All the Good Girls Go to Hell e Lost Cause intonate in un caffè (la seconda fa un effetto diverso senza l’incasinata compagnia di amiche pigiamate del video ufficiale); Everything I Wanted cantata in auto, microfono in mano, gocce di pioggia sul vetro. E naturalmente c’è il resto del pacchetto vacanze: il pittore di strada, il fisarmonicista, la Tour Eiffel illuminata e così finta che al confronto Ratatouille era nouvelle vague.

Più della storia, che è un pretesto per rendere omaggio a una delle città-set per eccellenza, colpisce la definizione della musica, qualcosa di simile a quello che si è ascoltato ai tempi dello spettacolone in streaming Where Do We Go?, il modo in cui il mix di esibizioni (presumibilmente) dal vivo e basi arriva alle orecchie, il canto così vicino, quasi palpabile, la sensazione di calore assimilabile a quella dell’ASMR che è uno dei motivi, spesso sottovalutati, del fascino della musica di Eilish. Persino in una Parigi ricostruita lei riesce a ricreare una sensazione d’intimità.

Più che un incubo, questo musicarello è un sogno. L’artista che un tempo c’invitava dentro la testa dove s’agitavano pensieri che lambivano il suicidio, la tipetta impertinente di Bad Guy, la ragazza che piangeva lacrime nere ha apparecchiato una grande fantasia escapista in cui le sue canzoni belle e malinconiche stanno bene, ma non troppo. Perché la narrazione sembra staccata da quella dell’album di debutto When We All Fall Asleep, Where Do We Go? e a quanto pare anche dal secondo Happier Than Ever. C’è un surplus di carineria che non s’addice a Eilish, anche se un po’ di lieve malinconia affiora nel finale.

L’auto su cui Eilish ha cantato la porta infine all’appuntamento al cinema per vedere un film titolato, guarda un po’, Happier Than Ever. Lei attende, lui non arriva. Non serve una lampada Osram per misurare il tempo che passa, basta l’orologino da parigina chic. Quando compare in un angolo il fratello Finneas con la chitarra capiamo che l’attesa sarà vana. Tanto vale cantare Your Power lì sul marciapiede e andare vedere il film senza di lui. «Uno per Happier Than Ever», chiede Billie alla cassiera. Si può essere felici anche da soli.

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