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Quanta storia, quante storie dietro a ‘Vamos a la playa’

La canzone da spiaggia nuclearizzata dei Righeira come oggetto pop fra cialtronaggine e situazionismo. Elogio della musica senza quarti di nobiltà e di un libro che racconta il 1983 senza nostalgie, né santini

Foto: Angelo DeligioMondadori via Getty Images

Quando ho letto per la prima volta Post punk 1978-1984 di Simon Reynolds avevo vent’anni e, da ascoltatore giovane e intransigente com’è giusto essere a quell’età, ero rimasto sorpreso e anche un po’ scandalizzato dalle centinaia (e centinaia) di pagine dedicate a gruppi synth pop, artisti elettronici e gentaglia new romantic che ai tempi si vedeva nella migliore delle ipotesi come inutile e nella peggiore commerciali. Va detto che il legame quasi ideologico tra “alternativa” e “controcultura” con chitarra elettrica è – o forse era? – duro a morire. In effetti il problema è vedere l’etichetta post punk come notazione di genere e non come descrizione di un momento, di un ethos, per così dire, di uno spirito che innerva la cultura a 360 gradi per far progredire un discorso facendolo andare, appunto, oltre.

È in quell’oltre che, spostandoci dal centro di produzione imperiale musicale e tornati nelle comode lande della periferia italiana, troviamo i Righeira. Che sono a tutti gli effetti una delle esperienze più post punk del nostro pop. Siamo nel 1983 e nello stesso periodo in cui i New Order cambiano la storia del mondo con Blue Monday, il duo torinese composto da Johnson (Stefano Righi) e Michael Righeira (Stefano Rota) sconvolge una parte di mondo, non solo italiano, con quella che sarà una delle canzoni pop più celebri e autenticamente post punk della musica italiana di quegli anni: Vamos a la playa. Una canzone da spiaggia nuclearizzata, creata con lo spirito dell’innovatore-bricoleur che sta alla radice di tutte le creazioni pop più interessanti del nostro paese, a metà tra dadaismo e avanguardia, cialtronaggine e situazionismo, con quell’urgenza creativa di chi si approccia alla musica senza preconcetti e senza quarti di nobiltà. Non una semplice canzone, ma una miccia esplosiva capace di proiettare l’Italia nel futuro, che al tempo coincideva col presente.

Questa miccia — questo futuro presente che parte dai tre minuti e trentasette secondi in spagnolo maccheronico che si traducono in tre milioni di copie vendute in tutto il mondo — è indagato da Fabio De Luca, giornalista già vicedirettore di Rolling Stone, nel suo ultimo libro Oh, oh, oh, oh, oh. I Righeira, la playa e l’estate 1983 (Nottetempo). Non un libro di musica. O meglio, non solo. Un po’ l’indagine sul campo per capire meglio il contesto in cui nel 1983 Johnson Righeira, arrivato dal quartiere periferico di Barriera di Milano senza saper suonare uno strumento ma con tante idee per costruire una performance, riesce con una canzone a raccontare un momento di cambiamento e di passaggio; un po’ analisi sociale che dalla musica e dal suo sistema produttivo si cerca di trovare i punti centrali di un discorso effettivamente post punk che ha contribuito a proiettare l’Italia fuori dagli anni di piombo, Fabio De Luca pone l’accento sulla complessità di un periodo e del suo mainstream che riusciva a raccontare in diretta molte più cose di quanto si potesse aspettare a un livello superficiale.

Personalmente, quello che da torinese mi ha sempre colpito di Vamos a la playa e dell’esperienza dei Righeira è come riuscisse a tenere insieme tutte le dimensioni che chi vive la città percepisce costantemente: la spinta al futuro rassegnata, la rabbia repressa da chi ha ancora nella memoria muscolare la fabbrica, l’inventività assoluta unita a una patologica mancanza di capacità strategico-commerciale, la capacità di parlare di cose profondissime quasi senza volerlo, buttandole lì come se fossero casuali. E a conti fatti c’è da essere un po’ orgogliosi di una città che è stata motore di tanti cambiamenti culturali anche nella musica — dal punk all’elettronica — proprio come reazione a un periodo come gli anni di piombo (e su questo vi consiglio di leggere Anni spietati. Torino racconta violenza e terrorismo di Davide Valentini e Stefano Caselli e guardare il documentario dedicato al musicista torinese Gigi Restagno e alla scena underground di quegli anni The Beautiful Loser di Diego Amodio) e in grado di incidere così tanto sul nostro costume.

Fabio De Luca la prende anche piuttosto da lontano e non si limita a Johnson Righeira o qualche sua amica e amico del giro più stretto. Perché Vamos a la playa è un punto di partenza. In mezzo ci sono anche interviste a veri e propri interpreti dello Zeitgeist nella forma più pura come Claudio Cecchetto e Roberto D’Agostino e a musicisti capaci di fare grandissimi pezzi di successo ma proiettandosi nel futuro come i Matia Bazar di Antonella Ruggero; ma anche reperti storici di quella grande tradizione recentemente riportata in auge dai Nu Genea che è l’Italo disco con i fratelli La Bionda (produttori e deus ex machina dietro Vamos a la playa e tantissimi altri singoli di successo fatti apposta per essere ballati), e soprattutto una quantità di aneddoti che più di una volta mi hanno fatto pensare alla completa assurdità della faccenda (ad esempio l’impossibilità di promuovere la canzone quanto si poteva e voleva perché mentre il pezzo esplodeva in tutto il mondo Johnson Righeira stava facendo il militare… tutto vero) ma anche alle possibilità stranissime che un periodo storico davvero frastagliato poteva offrire.

La nostalgia degli anni ’80 e degli anni ’90 sta iniziando a diventare una brutta bestia essendo una delle più proficue categorie merceologiche che il tardo capitalismo ha trovato per proporci una sorta di presente permanente. Ma libri come Oh, oh, oh, oh, oh. I Righeira, la playa e l’estate 1983 riescono nell’impresa di raccontare e analizzare un periodo ad alto rischio di santino alla Anima mia (del resto se mentre leggete queste righe non state ascoltando Vamos a la playa, il Gioca Jouer o anche Self Control di Raf o perché no I.C. Love Affair dei Gaznevada) e al tempo stesso far realizzare anche a chi ancora pensa che siano solo canzonette che nel 1980, a Torino, c’è stata una band che per qualche stagione, unendo Devo, Sparks, sintetizzatori, Johnny Rotten, la lotta di classe e i tram della GTT torinese, è riuscita a raccontare il futuro, fare un successo internazionale e aver anche un po’ alzato il livello. Mica poco. In questo sì, una stagione davvero oltre.

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