“Tutti ci amano, tutti amano la nostra città, ecco perché sto pensando di andarmene”, canta Mark Arm dei Mudhoney. Grazie al clamoroso successo di Alice in Chains, Pearl Jam, Soundgarden e Nirvana la scena musicale del Nordovest è ormai un fenomeno conclamato, una storia di successo in un Paese affamato di successi. In verità, Seattle ha toccato l’apice nel 1989, quando le band che ne avrebbero costruito la reputazione erano ancora in città. «Sta accadendo di nuovo», dice Jack Endino, produttore, ma anche chitarrista degli Skin Yard, «e in modo bizzarro ed esagerato, è quasi una parodia». Secondo Bruce Pavitt, co-fondatore della Sub Pop, «a questo punto l’hype non ha più freni, sta schizzando alle stelle».
Quella di Seattle era una piccola ma vitale scena musicale. Nel giro di sei anni è diventata una mecca del rock celebrata da testate come Time, Entertainment Weekly e USA Today. In arrivo c’è anche Singles, il film di Cameron Crowe con Matt Dillon nei panni di un rocker locale che guida i Citizen Dick, band fittizia che include membri dei Pearl Jam, in cui appaiono anche altri protagonisti della scena.
Esagerato? Forse. Finito? Assolutamente no.
«Wow, stasera la gente è su di giri», dice Ron Nine dei Love Battery durante un concerto all’Off Ramp di Seattle. Lo dice mentre dalla folla di slam dancer euforici si stacca l’ennesima persona che plana sul palco. A Seattle la gente è davvero su di giri e le persone che incontri per strada potrebbero essere membri della tua band preferita. Girare per i club non è mai stato così piacevole: quasi tutti servono ottime birre artigianali locali ed è raro che il prezzo del biglietto superi i 6 dollari. All’Off Ramp distribuiscono tappi per le orecchie gratis e per 50 centesimi servono piatti del misterioso Hash After the Bash. Ah, le band sono formidabili. Benvenuti a Seattle, Rock City.
Per le major è iniziata la corsa all’oro. Ogni settimana una band del Pacific Nowrthwest firma un contratto. Fino a poco tempo fa la scena locale sembrava ruotare sempre attorno a una trentina di musicisti, sempre gli stessi. Ora decine di gruppi si trasferiscono in città in cerca d’attenzione e di club dove suonare. Arrivano da Los Angeles, da Boise, Idaho, da Tucson, Arizona, la città da cui i Supersuckers sono partiti tre anni fa. «A Tucson non c’era lavoro», racconta il batterista Dan Siegel. «Ci siamo trasferiti dove ce n’era». O, come dice il cantante Eddie Spaghetti, «siamo come muratori in cerca di un sindacato».
I Supersuckers puntano su ritmi forsennati, suoni sgraziati di chitarra e titoli come I Say Fuck e Retarded Bill. Dopo quattro 45 giri pubblicati per altrettante etichette, quest’estate daranno alle stampe un album per la Sub Pop, l’etichetta simbolo di Seattle. A un concerto al RKCNDY, Spaghetti ha sfidato il pubblico apatico a reagire… in qualunque modo. La risposta: una pioggia continua di bicchieri di plastica, molti pieni di birra. «È stato un concerto parecchio partecipato», dice con ironia. «Ero fradicio, non riuscivo manco ad aprire gli occhi. Pensavo: questo è l’inferno! Ero talmente bagnato che quando toccavo il microfono temevo di prendere la scossa». Però poi sorride: «Non è stato fantastico?».
Il fenomeno Seattle non sarebbe stato possibile senza la rete di radio universitarie, fanzine e distributori indipendenti emersi dopo l’avvento del punk-rock. Città come Minneapolis e Athens avevano già dimostrato la forza delle scene locali. A Seattle le severe leggi sugli alcolici nei locali frenavano i concerti, in compenso registrare era economico. A metà anni ’80 le radio KCMU e KJET sostenevano le band locali, recensite da Backlash e dal Rocket, che ancora oggi resta una voce autorevole.
Per Mark Arm tutto si riduce alle due i: «isolamento e incroci». Un po’ come Minneapolis, Seattle è una città relativamente isolata, piovosa e con poche alternative se non bere birra e suonare in cantina; con una popolazione di poco superiore al mezzo milione di abitanti, ci si conosce un po’ tutti. Mentre a metà anni ’80 molte band alternative cercavano di imitare i R.E.M. o i Replacements, racconta Arm, «da questa parte del Paese la gente preferiva mescolarsi e rubarsi le idee a vicenda».
Liberi dall’attenzione delle major, i musicisti facevano musica solo per divertirsi e per gli amici. «Non è un ambiente spietato», dice Scott McCaughey degli Young Fresh Fellows. «È più tipo: “I Love Battery hanno fatto un singolo fighissimo! Grande, andiamo a sentirli!”. Siamo tutti amici. Non c’è competizione». Nei primi anni ’80 qualunque band passasse da Seattle faceva colpo: per questo gruppi sempre in tour come Hüsker Dü, Minutemen e Black Flag – della californiana SST, etichetta post punk di riferimento – sono considerati dei pionieri. Persino il look trasandato, marchio di fabbrica delle band di Seattle, si ispira quei capelloni dei Black Flag.
Tutto ciò si è sviluppato in un contesto culturale vivace, con musei d’arte di primo piano, un teatro d’opera, una filarmonica e figure come Gus Van Sant, Matt Groening e Lynda Barry. Seattle è una città universitaria, spesso citata tra le più vivibili d’America e il basso costo della vita facilita la carriera dei musicisti. E naturalmente, buona parte del merito va alla Sub Pop.
«Jon Poneman e Bruce Pavitt sono stati i primi a dirmi che questa scena sarebbe diventata enorme», ricorda Chris Cornell dei Soundgarden. Trentenni, brillanti, capaci di usare parole come heretofore e détente quando parlano di musica, ma anche di pogare come matti, Poneman e Pavitt hanno avuto l’intuizione giusta. Il secondo, con un passato all’Evergreen State College, aveva lanciato nei primi anni ’80 una fanzine chiamata Sub Pop e poi cassette-compilation di artisti indipendenti. S’è accorto che qualcosa stava succedendo sotto i suoi occhi e ha pubblicato Dry As a Bone dei Green River. Nel 1987, grazie al tramite Kim Thayil dei Soundgarden, è entrato in gioco Jonathan Poneman, ex dj di KCMU e promoter locale, e i due hanno dato vita alla Sub Pop.
A rappresentare l’allora semisconosciuta scena di Seattle è stato Sub Pop 200, un cofanetto di tre EP con tanto di libretto di 20 pagine. La musica sarebbe bastata per un solo disco, ma Poneman e Pavitt volevano lanciare un messaggio. Come dice Pavitt, «era puro eccesso, eccesso assoluto, hype al massimo livello».
Ispirandosi alla Motown, alla SST e un po’ anche a Malcolm McLaren, i due hanno creato un universo alternativo in cui Mudhoney, Soundgarden e Screaming Trees erano delle star, senza dimenticare la stessa Sub Pop. «La loro strategia di marketing prevedeva di dare un’identità forte alla Sub Pop», spiega Grant Alden, managing editor del Rocket. «Creare fiducia, insomma: se un disco è su Sub Pop, allora val la pena comprarlo, anche se non hai mai sentito nominare la band».
La mossa costosa ma geniale di far arrivare in città un giornalista del Melody Maker nel 1989 si è rivelata vincente. La stampa inglese è impazzita e poco dopo sono arrivati in città gli A&R delle etichette americane, armati di libretti degli assegni. In un attimo Soundgarden, Screaming Trees, Posies, Alice in Chains e altri hanno firmato contratti discografici.
È stato il fotografo Charles Peterson a fissare l’estetica delle band Sub Pop – chiome, sudore e chitarre – mentre il produttore Jack Endino ne ha scolpito il suono grezzo ed essenziale. In una parola: grunge. Seattle è diventata Grunge City. La musica si rifaceva agli anni ’70 dei Black Sabbath e dei Kiss, ma anche a gruppi proto-punk tipo Stooges, MC5 e Blue Cheer. Endino lo definisce «punk rallentato e influenzato dai ’70», Kim Thayil ne parla come di una «musica scomposta, sporca, barcollante, ubriaca». Poneman lo chiama «lo stomp dello yeti dei boschi».

I Soundgarden nel 1989. Foto: Ebet Roberts/Redferns
«Seattle la devi capire», dice il bassista dei Guns N’ Roses Duff McKagan, che è originario di qui. «È grungy. La gente ama il rock e il rumore, si fabbricano aeroplani, e c’è rumore e pioggia e garage umidi. E i garage umidi creano un certo rumore».
In una città dove nessuno suona il clacson, far rumore significa fare una dichiarazione. «Qui la gente desidera cose graziose, amabili, rassicuranti», osserva Alden. «Se guardi il mondo in un altro modo diventi un ribelle e finisci per suonare come i Mudhoney» (forse c’è anche una spiegazione chimica: di giorno i Seattleites fanno incetta di caffè a ogni angolo, di notte tracannano fiumi di birra mischiata ai liquori e la musica suona proprio come una miscela di caffeina e alcol).
Il rumore è sempre stato parte integrante della musica del Nordovest. Basti pensare ai Sonics da Tacoma – amati un po’ da tutti, da Springsteen ai Sex Pistols – il cui nome derivava dai boati sonici degli aerei di una vicina base. Già nel 1964 tiravano fuori urla agghiaccianti, un suono primitivo di batteria e chitarre distorte che suonavano… be’, grungy. Mentre il resto d’America idolatrava Frankie e Fabian, i ragazzi del Nordovest ballavano i Sonics, i Wailers e i Galaxies nel circuito dei locali di queste zone. «Non abbiamo mai dimenticato quelle band», dice Scott McCaughey. «Ci sono sempre stati musicisti che le considerano la vera tradizione musicale del Nordovest».
Provenivano dal Pacific Northwest anche Paul Revere and the Raiders, Kingsmen, Ventures e il classicissimo Louie Louie (quasi adottato come inno ufficiale dello Stato nel 1985). E poi i Fleetwoods e naturalmente James Marshall Hendrix. Dopo un periodo psichedelico poco brillante a fine anni ’60, la scena si è inaridita fino all’esordio degli Heart. Poi qualche successo isolato, come Metal Church e Queensrÿche.
Un po’ come successo ovunque, dopo un concerto dei Ramones a fine anni ’70 sono nate decine di band punk, tra cui i Vainz, dove suonava un giovanissimo McKagan. È poi passato nei Fartz, divenuti poi gli influenti 10 Minute Warning, e in altre 28 band. «A quei tempi» ricorda «non c’erano etichette discografiche, non c’erano giornalisti di Rolling Stone. Era la nostra scena, ci andava bene, era cool, ci bastava».
La scena ha toccato il fondo attorno al 1983, poi sono arrivati U-Men, Malfunkshun e Melvins col loro miscuglio di punk e metal, entrambi linguaggi da outsider e spostati – è stato come pucciare una barretta di cioccolato nel burro d’arachidi di qualcun altro. I ragazzi dei sobborghi, fan del metal, hanno cominciato ad apprezzare lo strano fascino del punk e i punk di Downtown hanno cominciato ad apprezzare il metal per la teatralità, perché dava fastidio ai new waver, e perché era così… rock.
La miccia è stata accesa nel 1986 con la compilation Deep Six (oggi fuori catalogo) contenente pezzi di Soundgarden, U-Men, Melvins, Skin Yard, Malfunkshun e Green River. «Andavamo a New York, San Francisco, Los Angeles e non è che ci fosse granché», ricorda Chris Cornell. «Con Deep Six ci siamo detti: questa scena è molto più figa delle altre». Si è così creato un nucleo compatto: Melvins, Green River, Soundgarden, Malfunkshun. «Suonavamo un sacco assieme», ricorda Cornell. «Parlavamo delle rispettive band, cosa ci piaceva, cosa non ci piaceva. Parlavamo un sacco di musica, e bevevamo un sacco».
I sottovalutati Melvins hanno inventato di fatto il grunge passando dall’essere la band più veloce a quella più lenta. «Sono diventati parecchio heavy», ricorda Dan Peters dei Mudhoney, «e sono stati imitati da un sacco d’altre band». I Malfunkshun hanno invece fuso con un certo coraggio l’hardcore punk agli eccessi del glam anni ’70. Andy Wood, «una vera star» secondo Cornell, saliva anche sui palchi più piccoli col viso pittato di bianco, abiti scintillanti e stivali da motociclista con tacchi a zeppa e gridava: «Hellooooo, Seattle!». In quanto ai Green River, la tensione tra il punk e il metal li ha fatti implodere. «Era diventata una questione di restare punk contro firmare un contratto con una major», ricorda l’ex frontman Mark Arm. Si dice che Jeff Ament, membro della band, sia stato il primo musicista di Seattle a dichiarare di voler fare della musica il proprio mestiere.
Jeff Ament, Stone Gossard e Bruce Fairweather hanno poi formato i Mother Love Bone con Wood ottenendo un ricco contratto con una major, ma il cantante è morto d’overdose d’eroina nel 1990, poco prima dell’uscita dell’album di debutto. La tragedia ha ispiratola nascita dei Temple of the Dog con Chris Cornell, che era stato co-inquilino di Wood, e i futuri membri dei Pearl Jam. Nonostante il monito derivante dalla morte di Wood, l’eroina è rimasta una piaga. Molti musicisti ne sono stati travolti, spiega Spaghetti. «O riesci a uscirne o ci resti».
In privato, molti confermano che alcuni dei principali esponenti della scena, membri di band di fama internazionale, fanno uso d’eroina. L’opinione diffusa in città è che la droga sia un disastro annunciato.

I Nirvana nel 1989. Foto press
Un disastro in scala minore è successo la scorsa estate alla Sub Pop. Sul pavimento della reception c’è un cartello con la scritta: “Devi dei soldi ai Dwarves”. La scorsa estate, la band psychopunk non era l’unica a vantare un credito presso la Sub Pop: ad agosto l’etichetta discografica emetteva assegni scoperti da 100 dollari.
Nonostante la loro intelligenza, Pavitt e Poneman non erano dei contabili. Hanno speso una piccola fortuna per cercare di concludere un accordo fallito con un importante distributore (non lo dicono, ma era la Sony) e per affrontare due costose cause legali sul copyright. La loro neonata società di distribuzione è stata gestita in modo pessimo e hanno cercato invano di eguagliare gli enormi anticipi che le major stavano offrendo alle band locali. La Sub Pop ha iniziato a vendere una maglietta con il suo logo e la scritta “Quale parte di ‘Non abbiamo soldi’ non capisci?”. Grazie alla ristrutturazione della attività, al redditizio Single of the Month Club e al suo album più venduto di sempre, Every Good Boy Deserves Fudge dei Mudhoney, l’etichetta è tornata gradualmente in attivo.
Poi è arrivato il colpo di fortuna. La Sub Pop stipula raramente veri contratti con le band, ma Chris Novoselic dei Nirvana è andato una notte a casa di Pavitt, ha bussato alla finestra un po’ ubriaco e ne ha preteso uno, che è stato poi redatto da Poneman. Quando i Nirvana hanno formato con la DGC, l’etichetta ha dovuto riscattare dalla Sub Pop il contratto per due album. La Sub Pop ha incassato 75 mila dollari e il 3% su ogni copia venduta. Con le vendite di Nevermind che hanno superato i tre milioni di copie solo negli Stati Uniti, si tratta finora di 720 mila dollari. La Sub Pop guadagna circa 2,50 dollari su ogni copia del primo album dei Nirvana, Bleach, che entro la fine dell’anno dovrebbe diventare disco d’oro (500 mila copie). Ma la parte migliore dell’accordo potrebbe essere il logo della Sub Pop che va apposto su ogni disco dei Nirvana.
Sub Pop era ancora nel pieno della crisi finanziaria quando la band indie più forte d’America ha deciso di cercare un’etichetta discografica importante, trovandola nella Warner. «Eravamo stufi», racconta Dan Peters, batterista dei Mudhoney. «Ci incontravamo con quelli della Sub Pop e ci dicevano: “Venite domani e vi firmeremo un assegno”. Ci presentavamo il giorno dopo e ci dicevano: “Non l’abbiamo detto, ci avete frainteso”».
Dietro al micidiale garage-punk dei Mudhoney ci sono il senso dell’umorismo e l’intelligenza che rendono la band qualcosa di più. Nonostante il canto ringhioso di Mark Arm e il lavoro chitarristico distort-o-matic di Steve Turner (l’Eric Clapton del grunge), si tratta di una band senza grandi pretese. Nessuno pensava che sarebbero passati a una major, ma erano diventati troppo grandi. L’hanno fatto a modo loro, strappando un accordo con la Warner che permette al gruppo di mantenere il controllo su tutto, dalle copertine ai video. Fedeli alle proprie radici indie, i Mudhoney sono probabilmente uno dei pochi gruppi che potrebbero battersi per ottenere di registrare con un budget più basso e non con uno più alto.
I Mudhoney sono stati anche gli ultimi della scena originale di Seattle a passare a una major. La comunità ha cominciato a sfaldarsi quando le band hanno iniziato a fare lunghi tour nazionali. «Tornavi e l’altra band non c’era più, e non era più la stessa cosa», dice Cornell. Sono iniziate le frecciatine: Mark Arm ha scritto la corrosiva Overblown dopo aver visto il video bombastico di Outshined dei Soundgarden, Nirvana e Pearl Jam sono ai ferri corti dopo che Kurt Cobain ha accusato in un’intervista i secondi di essersi venduti.
«Le band che hanno creato la scena sono quelle che ora raccolgono i frutti di ciò che hanno creato», dice Cornell. «Quelle che sono venute dopo non hanno mai costituito una scena. Di base, questa scena era destinata a finire in un modo o nell’altro, ed è un lieto fine, perché le band che l’hanno fatta nascere stanno avendo successo».
«Non stiamo firmando molte band di Seattle, di questi tempi» dice Jonathan Poneman «semplicemente perché molte delle band qui hanno iniziato a fare schifo. Troppe cercano di conformarsi a quel che pensano debba essere il tipico suono di una band di Seattle». Ma la Sub Pop ha ancora qualche grande nuova band nel cassetto, come gli Afghan Whigs, i Seaweed e i Love Battery. Altre buoni gruppi di Seattle come Flop, Treepeople, Gas Huffer e Stumpy Joe dimostrano che in città c’è ancora vita.
Per qualcuno quel che è accaduto a Seattle è stata solo una botta di fortuna. «Ma la cosa belle delle botte di fortuna è che si ripetono», dice Poneman. «In questo momento, da qualche altra parte, sta nascendo una nuova scena».
Da Rolling Stone US del 16 aprile 1992.













