Quando i Daft Punk si chiamavano Darlin’ e disfacevano canzoni | Rolling Stone Italia
Demenza artificiale

Quando i Daft Punk si chiamavano Darlin’ e disfacevano canzoni

Prima di cominciare a imitare il passato, Bangalter e De Homem-Christo (e Laurent Brancowitz, poi nei Phoenix) lo ripensavano producendo pezzi che sembravano usciti da un floppy disk danneggiato. È il suono dell’uomo che, superato dalla macchina, non riesce più a far musica

Quando i Daft Punk si chiamavano Darlin’ e disfacevano canzoni

Daft Punk

Foto: Spencer Weiner/Los Angeles Times via Getty Images

Tempo di anniversari, di recuperi, di revisioni critiche. Un paio di settimane fa è uscita, in occasione del decennale, la versione deluxe del canto del cigno di uno dei gruppi pop più influenti di sempre, ovvero i Daft Punk. Si tratta di Random Access Memories, quello che potremmo definire il disco classico della band tanto è intriso di nostalgia dei favolosi anni ’70/80 e di una presunta età dell’innocenza musicale. Thomas Bangalter ha finalmente confessato, dopo anni di mistero, che il disco nasce come rifiuto della tecnologia, come rigetto di quella che stava diventando una produzione in serie senz’anima e sulla quale oggi aleggia lo spauracchio dell’intelligenza artificiale e della possibilità tangibile se non certa che l’uomo non serva più neanche per produrre musica.

Alla luce di queste affermazioni potremmo considerare Random Access Memories la previsione di un mondo che collassa su se stesso e giocoforza torna agli strumenti suonati, alle sonorità a misura d’uomo, a una lentezza che non ha più a che vedere coi bpm di una macchina, ma con il battito cardiaco. Ecco, sulla carta ci potrebbe stare ma nonostante questo e dopo tutto questo tempo non si capisce perché i Daft Punk abbiano fatto la copia della copia della copia con un sound patinato che è l’opposto di un approccio analogico, ma anzi è tutto dichiaratamente trattato digitalmente in postproduzione. Insomma, Random Access Memories è un disco per anziani del futuro che si sono rotti di fingere giovinezza (cosa che un po’ oggi fanno tutti, c’è gente che inizia a drogarsi a 50 anni, per dire) e mi pare giusto. Ma il problema è che ostentano anzianità e questo non dà al disco la caratura del classico, anzi.

Poco prima dell’anniversario di Random Access Memories ce n’è stato un altro che praticamente nessuno ha ricordato, ovvero il quarantennale dell’uscita dei primi due brani dei Darlin’, il gruppo in cui Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter militarono prima di cambiare ragione sociale e mettersi in testa i caschi da robot. La ricorrenza capita a fagiolo per mettere a confronto i brani dei Darlin’ e quelli di Random Access Memories: nonostante i primi siano stati registrati nel 1993, suonano più freschi dei secondi e soprattutto sono dei classici moderni, accolti tra l’altro da recensioni negative. Su Melody Maker la loro musica venne descritta come “dafty punk”, punk scemo, e la band cambiò ragione sociale proprio in Daft Punk perdendo un elemento, quel Laurent Brancowitz che andrà a finire – chitarra in braccio – nei Phoenix, che hanno avuto un successo fenomenale e meno crisi esistenziali dei Daft Punk.

I Darlin’ erano partiti da una rivisitazione del passato musicale più remoto, in questo senso anticipando le paranoie di Random Access Memories. La differenza è che il punto di riferimento sono gli anni ’60, i Beach Boys e in particolare la canzone Darlin’ da cui prendono il nome. Ne fanno una cover sbalorditiva per sporcizia e approccio quasi noise, con assoli di chitarra che sembrano suonati da uno con l’artrite deformante. Prendono solo il giro di accordi della canzone, lo reiterano, ne sviscerano il cuore “adolescente” e assolato mettendo in evidenza le rughe, lo fanno sembrare un mp3 disintegrato dal tempo in un hard disk che non ha più memoria (anzi, un floppy disk con il peggior bitrate possibile).

L’altro brano, Cindy So Loud, è semplicemente una cellula melodica vocale sempre uguale, intorno alla quale una chitarra piena di fuzz grattugia un giro di quattro accordi in croce (e qui Get Lucky, spiace dirlo, resta proprio a guardare) con una durata ridicola quanto sconcertante. Le due gemme uscirono nella compilation Shimmies in Super 8 pubblicata non a caso dall’etichetta degli Stereolab, la Duophonic. Anche questi ultimi non erano avvezzi al contemporaneo, ma più che altro a un retrofuturo rigoroso, usato come atto tutto sommato politico, e mettono i Darlin’ sotto contratto con grandissimo intuito, apprezzandone la follia e il coraggio quando altri li avrebbero presi a pedate. Ovviamente la critica rimase spiazzata e, priva di strumenti, non poté fare altro che giudicare i due brani come ciarpame.

Quello che invece i Darlin’ fanno è sintetizzare il futuro della mente umana, che non è in grado di incamerare più di un tot di informazioni, che addirittura non ha più voglia di sviluppare la musica perché lo fa la macchina, che anche nei ricordi – la cover dei Beach Boys – prende quello che può e il resto ciao. È la descrizione di una DA, una demenza artificiale, che ha ripudiato la tecnologia digitale per la tradizione, ma anche riprendendo la chitarra in mano il suono che ne esce è giustamente quello di uno che non sa più come si usa, come un PC in mano a un australopiteco (altro che la comfort zone di passato “perfettivo”, da calvizie robotica di Random Access Memories). È roba da suonare in loop, da risentire e risentire fino a diventare scemi, non è pensata per un solo ascolto e in questo, probabilmente, si trovano anche i semi di quello che a tutt’oggi è il capolavoro dei Daft Punk, ovvero Human After All, di cui si può dire tutto, ma che è l’unico che ancora continua a dare fastidio.

Darlin' (Full Discography)

I Darlin’ non sono un gruppo indie, come erroneamente vengono catalogati, ma un gruppo elettronico a tutti gli effetti: non solo per l’insieme che ricorda la minimal synth più estrema (ricordate i Magits di Nick Blinko, poi Rudimentary Peni?), ma anche per la mentalità distopica. E c’è la assurda ambizione di arrivare alle masse in maniera scientifica, con il logo che sfoggia ironicamente la “c” del copyright disegnato proprio da de Homem-Christo, un’attenzione alla zona marketing che poi sarà la cifra dei Daft Punk in larga scala.

Ma attenzione, la storia dei Darlin’ non finisce qui, perché nel 1995 escono altri due brani per un’altra compilation, De la Viande pour le Disco?. Si tocca l’apice del paradosso. Adesso chi ascolta può dire senza remore che la musica è elettronica, come se il trio avesse deciso di essere un po’ più esplicito in modo da farsi capire meglio. Ma i campioni usati in Untitled 18 sono ad esempio chiaramente anni ’70 e tra l’altro li riascolteremo – risuonati – pure in Random Access Memories. L’occhio è rivolto indietro, ma un indietro che trascina con sé anche il presente prossimo, polverizzandolo. Ci si sente la – a loro contemporanea – acid house e campioni truzzi da Pump Up the Volume, il cassone dritto che piace ai raveroli, ma tutto ha sapore di già sentito. Anche qui l’impressione è di aver fatto un viaggio nel tempo, avanti e indietro in un’epoca nella quale la musica si è ridotta a un recupero da qualche hard disk rottamato. Si sentono in nuce i Daft Punk che verranno, abili sarti nell’arte del plagio e dell’editing, ma soprattutto nel creare dei mantra che fluiscono come dati in un gigante database.

Con Untitled 33 si torna alla sei corde, sempre distorta in maniera “domestica”, solo la voce a sostenerla e una chitarra solista ancora una volta storta e “ormonale”. Si sentono i futuri Phoenix, anche se il punto di riferimento sembrano dei Velvet Underground mutilati di se stessi (arriva proprio verso il finale un pianino stile Waiting for My Man, suonato praticamente con un dito). Il pezzo sfuma sostanzialmente appena inizia, è la musica del XX secolo che se ne va affanculo per sempre. Riarrangiata per Random Access Memories a colpi di groove, piano elettrico e vocoder, avrebbe potuto essere una nuova Lose Yourself to Dance.

La cosa che più sorprende nei Darlin’ è questo nichilismo verso il concetto di pezzo. Sembra inutile non solo svilupparlo, ma anche e soprattutto ascoltarlo. Quasi che l’essere umano non riesca più a concentrarsi su nient’altro se non sul proprio disfacimento. Tra l’altro, le recenti applicazioni IA per creare musica dal nulla con le caratteristiche di una canzone di Lennon-McCartney o di qualsiasi artista pop suonano letteralmente di merda, proprio come un brano dei Darlin’. E come un brano dei Darlin’, però, riscrivono il passato in maniera egregia: non lo imitano come invece succede in Random Access Memories, che se è una ribellione a un futuro di silicio è fondamentalmente pantofolaia. Perché se vuoi conservare il passato, devi accettare che possa superarti: non ha bisogno della tua nostalgia. Per questo, mai quanto oggi, i frammenti temporali dei Darlin’ indicano una via che – forse – i Daft Punk hanno solo sfiorato. Infinity repeating? Sì, ma dipende come: ai posteri l’ardua sentenza.

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