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Quando gli Strokes hanno portato la figaggine newyorkese nel mondo

«Sono più fighi e più bravi di te, e ti ruberanno la ragazza». La storia orale del boom della band di Julian Casablancas in un estratto dal libro di Lizzy Goodman ‘Meet Me in the Bathroom’, che esce oggi in Italia

Foto: Kevin Winter/ImageDirect

L’ascesa repentina e la vita rock’n’roll degli Strokes nei primi anni 2000 raccontata da chi l’ha vissuta, in un estratto dal libro Meet Me in the Bathroom che esce oggi per Odoya. Il racconto di Mark Spitz (giornalista), April Long (giornalista), Jim Merlis (addetto stampa degli Strokes), Nick Valensi (Strokes), Ben Blackwell (manager della Third Man Records), Karen O (Yeah Yeah Yeahs), Albert Hammond Jr. (Strokes), Jesse Malin (cantautore), Jaleel Bunton (TV on the Radio), Fabrizio Moretti (Strokes), Matt Romano (tecnico della batteria degli Strokes), Paul Banks (Interpol), Kimya Dawson (Moldy Peaches), Gideon Yago (giornalista), Mark Ronson (produttore), Ryan Gentles (manager degli Strokes), David Cross (comico), Steven Trachtenbroit (addetto stampa), Catherine Pierce (Pierces), Jenny Eliscu (produttrice e giornalista di Rolling Stone), Ryan Adams (cantautore).

Marc Spitz: Sapete, no, che dicono che i Black Flag sono saliti su un furgone e hanno portato il punk rock nel mondo? Gli Strokes sono saliti su un autobus e hanno portato nel mondo il “downtown cool”, la figaggine newyorkese: insieme a Internet, stavano cambiando tutto, non solo la musica. Stavano cambiando la mentalità. Stavano portando New York in viaggio con loro. Ho visto ragazzi nel Connecticut, nel Maine, a Philadelphia e a Washington con l’aria di chi ha bevuto tutta la notte sulla Avenue A, ragazzini di sedici anni con cinture bianche e Converse Chuck Taylors con i capelli unti – capelli lavati una settimana prima. Quei ragazzi probabilmente non avevano mai sentito l’odore che c’è in un negozio dell’usato, prima di Is This It. Avevano trovato una band a cui volevano assomigliare. Hanno trovato la loro band.

April Long: Gli Strokes hanno davvero inventato il look hipster internazionale degli anni Zero: jeans skinny, giacca di pelle. Magari ci aggiungi un paio di baffi o una camicia di flanella, ma la base è sempre quella, anche adesso.

Marc Spitz: Avete presente quella scena in 24 Hour Party People in cui si vedono i Sex Pistols al Free Trade Hall, e poi l’ultima cosa che vedi sono loro che strappano i propri vecchi poster? Nell’autunno del 2001 è successo lo stesso. I poster di altre band sono diventati immediatamente irrilevanti.

Jim Merlis: Abbiamo evitato di apparire in tv fino al Saturday Night Live. È stata un’idea di Jack Rovner: «Facciamo la prima apparizione al Saturday Night Live». Ricordo che chiamò me e Ryan nel suo ufficio per parlarne, pensando che avrebbe dovuto faticare a convincerci, e noi eravamo tipo «No, è fantastico». I ragazzi erano davvero nervosi ed eccitati, era tenero vederli così.

Nick Valensi: Eravamo così entusiasti di suonare al Saturday Night Live. Per noi è stata una cosa molto importante. Non ricordo di aver ricevuto quella telefonata, però: ogni giorno, in quel periodo, ci si presentavano nuove ed esaltanti opportunità. Il mio cervello si era come intorpidito, perché se ti agiti e ti esalti ogni volta finisci per impazzire.

Ben Blackwell: È stato divertente vedere gli Strokes al Saturday Night Live. Albert indossava una spilla degli Yeah Yeah Yeahs: era una roba nuova.

Karen O: All’epoca, se mi fossi imbattuta in una delle boy band, mi avrebbero tutti ignorata! Giuro su Dio, non riuscivo a farmi guardare negli occhi da nessuno.

Albert Hammond Jr.: Non è vero! Io le parlavo! Ho indossato una spilla degli Yeah Yeah Yeahs sulla giacca, la prima volta che abbiamo suonato al Saturday Night Live! Dev’essere difficile, con tutti quei ragazzi. Era difficile già per loro.

Jim Merlis: Come addetto stampa tutte queste cose, queste opportunità… non avevamo nessuna guida, non c’era mai stato nessun fenomeno come questo prima. Inoltre cominciavano a esserci le prime reazioni negative, perché stavano diventando molto popolari.

Jesse Malin: La gente era gelosa e arrabbiata.

Jaleel Bunton: Quando qualcosa esplode, ne senti parlare prima a New York – la cultura di solito è proprio davanti ai tuoi occhi: vedi una band che ha ottenuto un successo incredibile, ed è proprio accanto a te. Non è che lo hai letto su una rivista, no, sono seduti al bar, a vivere la stessa vita che vivi tu, solo che la loro vita è fantastica e la tua fa davvero schifo. È difficile essere così vicini.

Fabrizio Moretti: Non mi sono mai sentito a mio agio. Mai. Mi sentivo stressato la maggior parte del tempo.

Nick Valensi: Era tutto molto esaltante, ma sembrava quasi che dovessi reagire facendo qualcosa di normale. Io prendevo solo un sacco di droghe.

Marc Spitz: Parlavano in codice di droga, ma era un codice piuttosto velato. Come in Una vita al massimo, chiamavano la cocaina “dottor Zivago”. Io non avevo mai visto Una vita al massimo e non sapevo di cosa stessero parlando: pensavo che parlassero di un cazzo di film con Julie Christie. «Oh be’, noi torniamo al tour bus e guardiamo Omar Sharif, sai?».

Matt Romano: All’epoca erano oggetto di un sacco di idiozie della stampa perché, sai, «lui è il figlio di John Casablancas e non hanno alcun talento, sono ragazzi ricchi delle scuole private che ricevono un sacco di attenzione dai media».

Paul Banks: La gente delle altre band aveva davvero bisogno di dire: «È qualcun altro a scrivere le loro canzoni», o «Sono solo dei ragazzini viziati». Dovevi trovare un modo per non accettare il fatto che in realtà là fuori esistono cinque tizi maledettamente fighi che scrivono musica dannatamente bella. E lo facevano da soli. Sono più fighi e più bravi di te, e ti ruberanno la ragazza: è stata una pillola davvero difficile da mandar giù per molte persone, me compreso.

Kimya Dawson: A quel punto gli Strokes stavano diventando immensi, quindi io e Adam venivamo invitati alle feste di New York dove entri e le persone sono, diciamo… stravaganti. Modelle ovunque. Ricordo di aver pensato: “Com’è possibile?”. Io ci andavo con il mio costume da coniglio perché ero spaventata a morte, del tipo: “Non mi ambienterò mai, se provo a vestirmi bene”.

Gideon Yago: Gli Strokes si erano guadagnati un gruppo di comici e membri del cast di SNL tra i fan, come David Cross, Horatio Sanz e Jimmy Fallon. Giravano tutti intorno agli Strokes. Jimmy ha solo un paio d’anni più di me: non era onnipresente, ma quando hanno iniziato ad andare forte era uno che vedevi spesso dietro le quinte.

Albert Hammond Jr.: Siamo grandi fan di Mr. Show: il 99 percento delle nostre battute vengono da Ace Ventura o Mr. Show o Tommy Boy. Mr. Show era tipo la nostra bibbia della comunicazione.

Mark Ronson: David Cross aveva – a quel tempo di sicuro – un po’ più di fascino indie rispetto a Jimmy Fallon. Jimmy Fallon: le ragazze lo adoravano, i ragazzi del college lo adoravano, ma era facile essere un po’ sprezzanti nei suoi confronti, perché lavorava per SNL ed era bello.

Ryan Gentles: Jimmy ha aperto per gli Strokes, in pratica.

Mark Ronson: All’epoca suonavo nella sua band. E ricordo la prima notte di quel tour: era a Boca Raton, ed era un centro commerciale all’aperto. Dovevano aver distribuito dei cioccolatini incartati uno a uno, perché ci stavano bersagliando con quelli. E Jimmy veniva preso in giro da questo tizio in prima fila. I pass di quel tour avevano scritto su “The Wicked Scepter Tour”.

Marc Spitz: I Wicked Scepter sono un gruppo gay metal proveniente da uno sketch di Mr. Show. Non si rendono conto di essere gay anche se si fanno sesso anale e orale a vicenda.

Albert Hammond Jr.: Conoscere David Cross è stato strano. L’abbiamo incontrato al 7B: era al bar e siamo andati da lui.

Julian Casablancas: Mi pare che lo abbiamo invitato a un concerto o qualcosa del genere.

David Cross: Era il mio locale, il 7B. Ero lì da solo, a cazzeggiare, perché ero amico di tutti i baristi. Ero al bar, e loro erano a un tavolo: erano dei ragazzini. Mi guardavano, poi guardavano altrove, guardavano me, guardavano altrove. Non ci badavo molto. Penso che sia stata Juliet a venire da me, perché era la ragazza del gruppo. Erano grandi fan eccetera eccetera. Probabilmente avevo sentito parlare degli Strokes, perché quando mi sono trasferito qui la ragazza con cui uscivo aveva avuto una copia in anticipo del loro album, e ricordo di averlo ascoltato più e più volte mentre imbiancavo il mio appartamento nel caldo afoso di New York.

Albert Hammond Jr.: Dopo che l’abbiamo incontrato è stato come… ci siamo tolti un peso.

David Cross: Erano incredibilmente gentili e rispettosi, educati, qualità che non sempre si applicano ai musicisti. Un gruppetto di noi ha attraversato la strada e saltato la recinzione del parco dove ci si sballava, quello tra la Settima e Avenue B. Ricordo che Nick non è riuscito a saltare la recinzione con agilità, e ho pensato: «È adorabile. Quale ragazzo cresce in città e non impara a saltare una staccionata?». È una recinzione bassa! E sì, erano fan di Mr. Show, ma non è mai venuto fuori un discorso tipo: «Ehi, devo andarmene, le cose si stanno facendo strane» – e giuro, con certe persone succede. Erano davvero tranquilli, e poi siamo diventati amici. Stavamo tutti nello stesso quartiere, stessi giri di gente.

Steven Trachtenbroit: C’era qualcosa nell’East Village: si incontravano tutti negli stessi bar. Ricordo che quei ragazzi giocavano tutti insieme a softball a Central Park – David Cross e James Iha e Ryan Adams e Macauley Culkin. Così, random.

David Cross: Julian fece un paio di fuoricampo, e io ero tipo: «Gesù, quello lì? E chi se lo immaginava?». L’altra cosa di quei ragazzi è che limonavano un sacco, ma non in senso sessuale, ma tipo delle pomiciate.

Albert Hammond Jr.: Ho sempre trovato divertente baciare gli uomini.

David Cross: Ricordo che eravamo in quel bar al piano di sopra dell’Irving Plaza e Julian mi baciò, e io feci: «Woah, ma che cazzo». Però provavo anche questa folle ondata di emozioni, perché so che lui non è gay, e pensavo: «Oh, è stato assurdo, è stato strano, ma credo che non sia stato del tutto sgradevole. Non è qualcosa che rifarei, non credo. Uh, è stato interessante». È stato il mio momento alla Bowie/Mick Jagger.

Albert Hammond Jr.: Mi piace come la gente diventa strana. Mi diverto a veder venire fuori la loro stranezza.

David Cross: Julian è un buon baciatore! Pelle completamente rasata, morbida ed elastica. Penso che abbia a disposizione creme e lozioni davvero ottime.

Catherine Pierce: Prima che io e Albert ci mettessimo insieme, siamo andati tutti a un qualche concerto. C’era Moby, e c’era Andy Dick. C’era anche Albert, e credo che in qualche modo sia finito allo strip club. Andy e Albert stavano pomiciando.

Albert Hammond Jr.: È stato lì che ho baciato Andy Dick? Catherine ha detto: «Cosa state facendo?», e io: «A chi importa?». Credo fosse prima che cominciassimo con la coca, quindi dovevo essere completamente sbronzo. Ho corteggiato Catherine per un anno. Ci siamo conosciuti quando gli Strokes stavano finendo Is This It. Ero andato al Mercury Lounge: stavo prendendo una birra quando l’ho vista sul palco, e ho pensato: «Sarà mia». Le avevo lasciato un fiore con il mio nome e numero, dicendo: «Se mai tornerai a New York…». Sei mesi dopo è venuta a New York: era estate, mentre eravamo al Reading Festival. Sono tornato dal Reading e abbiamo iniziato a vederci, ma lei non voleva stare con me.

Catherine Pierce: Sì, mi ha corteggiata. Sono cresciuta a Birmingham, in Alabama, che è una città culturalmente molto chiusa. Ero così ingenua. Sono andata a New York quando avevo sedici anni: era la prima volta che incontravo persone con idee diverse, persone che credevano in cose diverse, ed era così esaltante, e pensavo: «Oh mio Dio, questa sì che è vita». La maggior parte della gente a Birmingham si sposa a vent’anni e fa figli molto presto, e io avevo appena capito che volevo vivere la mia vita, e New York sembrava il posto perfetto per farlo. Ma è stato solo quando Albert ha iniziato a uscire con Jaime King che ho cominciato a dirmi: «Aspetta un attimo…».

Albert Hammond Jr.: Ho conosciuto Jaime alla première di Spider-Man. Le ho chiesto il numero quella sera, quando l’ho vista, e poi l’ho chiamata. Ma io volevo Catherine.

David Cross: Ho vissuto un paio di momenti davvero imbarazzanti, con quei ragazzi.

Catherine Pierce: Adoro David. Ho fatto cose assurde con quei ragazzi, ho fumato metanfetamina con loro. Non sapevo che fosse metanfetamina! Ero una tale idiota. David li invitava dappertutto, dicendo tipo: «Ho questa roba chiamata Glass», e io: «Cos’è questo “glass”? Sembra una cosa carina».

David Cross: Julian una volta è collassato a casa mia. Voleva una coperta, ma io non ne avevo una, così gli ho dato un coprimaterasso, e me lo ricordo mentre dorme e dice: «Sto sudando, questo piumone è davvero pesante». Probabilmente ha perso due chili, quella notte. Poco più avanti, forse sei o sette settimane dopo, io e la mia ex ragazza siamo stati invitati da Julian e dalla sua ragazza dell’epoca, Coleen. Abbiamo fatto una cena molto bella, con il vino, e io me ne sono uscito con «Ehi, ho questo video che mi hanno mandato dei miei amici». Sono amico dei ragazzi dei Nashville Pussy, e loro mi mandavano videocassette e DVD di tutte queste stronzate assurde che collezionavano, cose che ora troveresti su YouTube, ma questo è pre-YouTube. Non avevo idea di cosa fosse, ho solo pensato che sarebbe stato divertente. Abbiamo messo su la cassetta, ed era un pessimo porno tedesco di gente che faceva sesso con gli animali. E io: «Uh… woah, non sapevo…» – e ovviamente più dici «non ne avevo idea!» e più sembra una scusa. È stato davvero imbarazzante.

Jenny Eliscu: L’ultimo dell’anno del 2001 c’è stato quel concerto all’Apollo.

Gideon Yago: Sì, a quel punto si era aperto il vaso di Pandora.

Catherine Pierce: Quel concerto con i Guided by Voices e David come gruppi spalla è un ricordo confuso. So che era fantastico, e che ballavamo, ci divertivamo, cantavamo ogni canzone, li guardavamo sul palco, pensavamo che erano come una boy band nel senso che hanno tutti la loro personalità e sono così dinamici, ma sono fighi e sanno anche suonare degli strumenti, cazzo.

Ryan Adams: Quel concerto all’Apollo è stato uno dei migliori che io abbia mai visto. Avevano un’illuminazione che non avevo mai visto prima, tutti in controluce con lo sfondo che cambiava colore, e il pubblico stava impazzendo. Ricordo che Ryan Gentles ha rischiato di svenire diverse volte, perché Julian continuava a saltare giù dal palco e Ryan diceva: «Oddio!! Si ucciderà, cazzo!». E io: «Ma no, è agile, se cade rimbalza». Finivano una canzone e Albert sollevava entrambe le braccia in aria, come a dire “Ce l’ho fatta!”: erano semplicemente puri. Erano tra le persone più pure che io abbia mai incontrato.

David Cross: È stata una delle cinque peggiori esperienze che ho avuto in vita mia. È stata brutale. E sapevo che era una cattiva idea: ho cercato di convincerli a non farlo, ma loro sono stati irremovibili nel volerlo fare. La gente era scortese. A un certo punto ho voltato le spalle al pubblico, ho parlato al microfono e ho detto: «Ragazzi, sono obbligato per contratto a stare quassù per quarantacinque minuti». Era la vigilia di Capodanno e io non ero in cartellone, se non indicato come “special guest”, quindi nessuno sapeva davvero che ci sarei stato anch’io. Tutti si erano programmati la serata – «Oh, mi sballerò, verrò al concerto, poi andrò a vedere gli Strokes e i Guided by Voices»: no, scusatemi, prima dovete sorbirvi quarantacinque minuti di un tizio che pensa di essere divertente. Un anno dopo ero a un concerto al Maxwell’s a Hoboken, e ho finito per litigare con un ragazzo che era tra il pubblico all’Apollo: era ancora arrabbiato perché gli avevo rovinato il trip, così mi ha pisciato addosso. Lo chiamavano Talebano Jim, soprannome che si era guadagnato perché il 9/11 era in strada a urlare che la rivoluzione era iniziata.

Gideon Yago: Quando sono andati al Coachella, quella primavera, era piena Strokes-mania.

Ryan Gentles: C’era anche Drew [Barrymore], al Coachella.

Jim Merlis: Ricevo una chiamata dall’agente o manager di Drew Barrymore, che mi dice: «Drew e Cameron Diaz vogliono andare nel backstage del Coachella. Puoi aiutarmi, tramite gli Strokes, a farlo?», e io: «Aspetta un attimo, ti serve il mio aiuto per portarle nel backstage?».

Ryan Gentles: Sono stato il primo a darle il benvenuto. Voleva venire a salutare la band, così il manager dice: «La riporto alla roulotte», e nessuno di loro era lì a parte Fab. E io: «Ah, non so dove siano; ehi, Fab, questa è la tua amica Drew Barrymore», e lei: «Oh, piacere di conoscerti», e io: «Vado a chiamare il resto del gruppo, tu resta qui, prenditi una birra», e Fab: «Figo». Era venuta da sola. Siamo stati via per tipo venti minuti, gli Strokes hanno suonato il loro set, e quando gli Oasis sono saliti sul palco Fab stava pomiciando con Drew Barrymore da una parte. Poi sono usciti insieme per cinque anni.

Jim Merlis: Io non ero andato al Coachella. Due giorni dopo, in ufficio, mi hanno mandato un enorme mazzo di fiori, con un biglietto che diceva tipo «Da qualcuno che ti ringrazia molto», e io non riuscivo a capire chi lo avesse mandato. Poi all’improvviso ricevo chiamate dai vari People di tutto il mondo che mi chiedono: «Cosa c’è tra Fab e Drew Barrymore?», e io: «Oh mio Dio, i fiori li ha mandati Drew!».

David Cross: Fab aveva una sfilza di ragazze, e ce n’era una per cui ho pensato: «Oh, non finirà bene, non può proprio finir bene…». Perché sapevi che tipo era l’altra persona coinvolta, e pensavi: «Non funzionerà, il ragazzo finirà con il cuore spezzato».

Jim Merlis: Il Coachella era una cosa tipo «Ma sì, vai dove ti pare». Non avevano bisogno del mio aiuto per andare nel backstage, avevano bisogno del mio aiuto per incontrare la band.

David Cross: Considero Drew una rubacuori? Be’, guardate la sua storia. E lei è super dolce. L’ho incontrata un paio di volte ed è della stessa pasta di Fab, una persona dolce e genuina, ma credo anche molto onesta con se stessa nel senso di «se mi piace, mi piace… no, non mi piace, addio!».

Catherine Pierce: Drew è famosa da quando aveva cinque anni e tutti nel mondo sanno chi è, più o meno. C’era una forza tutto intorno che era più grande di loro, ed è stato davvero interessante vedere quella dinamica. Tutti volevano sapere cosa avrebbe detto, tutti volevano sapere cosa le interessasse. Era roba pesa. Alla fine è diventata una cosa normale: lei è una persona molto alla mano, sotto molti aspetti, ma all’inizio era come se fosse successo chissà cosa.

Tratto da Meet Me in the Bathroom. Rinascita e rock’n’roll a New York (2001-2011) di Lizzy Goodman (Odoya Edizioni, traduzione Irene Micheli Amedeo)

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