Pete Townshend non è morto prima di diventare vecchio e oggi compie 80 anni: un omaggio | Rolling Stone Italia
L’infinito dentro tre accordi

Pete Townshend non è morto prima di diventare vecchio e oggi compie 80 anni: un omaggio

Chitarrista, autore, scrittore, pensatore, polemista tormentato e geniale, non ha mai smesso di trasformarsi. E di trasformarci

Pete Townshend non è morto prima di diventare vecchio e oggi compie 80 anni: un omaggio

Pete Townshend nel 1972

Foto: Jack Kay/Daily Express/Hulton Archive/Getty Images

Nel 1965 Pete Townshend aveva 20 anni, una giacca di velluto consumata, una chitarra Rickenbacker che usava come un fucile e una frase destinata a diventare un marchio generazionale: “Hope I die before I get old”. Era il verso cardine di My Generation, canzone-manifesto degli Who e urlo di battaglia di una gioventù post bellica che non voleva invecchiare, non voleva arrendersi, non voleva ripetere gli errori dei propri padri.

Oggi Pete compie 80 anni. È vivo. È invecchiato. E quella frase rimbomba ancora, con l’ironia amara di chi ha superato da tempo il limite che si era posto. Ma se c’è una lezione nella carriera di Townshend – chitarrista, compositore, scrittore, pensatore, polemista, tormentato e geniale – è che invecchiare non è una resa, è solo una trasformazione. E in questi 80 anni Townshend non ha mai smesso di trasformarsi. E di trasformarci.

La chitarra come linguaggio, non come virtuosismo

Pete Townshend non è mai stato il chitarrista più veloce o più pulito. Non era Eric Clapton, né Jimmy Page, né Jeff Beck, tutti peraltro suoi coetanei e rivali negli Swinging Sixties londinesi. Nessuno, però, ha suonato la chitarra come lui. Townshend ha inventato un modo di essere chitarrista ritmico che era al tempo stesso batteria, basso, orchestrazione. Ogni sua pennata era un’esplosione, ogni accordo un martello che batteva idee. Il suo gesto più iconico – il windmill, il mulinello del braccio teso – era teatro, certo, ma era anche necessità fisica: suonare con quella forza, con quell’energia significava essere parte del suono stesso. Niente virtuosismi fini a sé stessi: solo veri e propri atti sonori. Townshend ha usato la distorsione, il feedback, i power chords (che non ha inventato, ma ha canonizzato), come estensioni espressive. I riff di I Can’t Explain, Baba O’Riley, Substitute o Won’t Get Fooled Again sono costruzioni architettoniche, ponti tra blues, pop e sinfonia. E già nel 1969, con Tommy, portava la chitarra rock dentro un’opera totale, dimostrando che tre accordi potevano contenere l’infinito.

Una bomba filosofica in giacca di tweed

Dietro l’aggressività scenica c’è sempre stato un pensatore complesso, influenzato da Meher Baba, dal misticismo orientale, dal teatro di Brecht, dal modernismo britannico e dall’arte concettuale. Uno che infatti non ha scritto canzoni, ma narrazioni sull’identità, la frustrazione, l’alienazione, la spiritualità, la ribellione giovanile e la disperazione urbana. Quadrophenia è un’opera rock psicogeografica, un romanzo sonoro ambientato nei sobborghi e sulle coste inglesi, dove il protagonista ha quattro personalità (come i quattro Who) e lotta per definire chi sia. È esistenzialismo pop e ancora oggi è uno dei manifesti più intensi mai scritti sull’adolescenza. Con Lifehouse, mai compiuto come progetto e confluito in parte in Who’s Next, Townshend ha anticipato in qualche modo Internet, la musica digitale personalizzata e l’intelligenza artificiale applicata al suono. Era il 1971 e lui dichiarava: «La musica sarà una forma di connessione spirituale universale, tra identità digitali e coscienze collettive». Aveva quasi previsto anche Spotify quarant’anni prima.

Il sociologo mod

Townshend è cresciuto in un’Inghilterra grigia, di case popolari e sogni compressi. Era figlio di musicisti itineranti, non benestanti, e sapeva cosa significasse vivere in una nazione di classi represse, ma pronte all’esplosione. Gli Who non erano i Beatles, né i Rolling Stones. Erano qualcosa di più caotico, più spigoloso, più reale. Con Pete Townshend alla guida, la band ha dato voce a una generazione alienata, arrabbiata, impaziente di distruggere tutto – inclusa sé stessa. Townshend ha saputo leggere la crisi identitaria del dopoguerra, l’ambiguità sessuale, la confusione mentale, la frattura tra giovani e adulti. Non era solo un rocker: era un intellettuale con la chitarra, un uomo tormentato che trasformava le sue nevrosi in inni. È riuscito a rendere la confusione un linguaggio comune. E ci ha mostrato che il rock non era solo ribellione, ma anche vulnerabilità. La sua musica è stata un’arma culturale, che parlava ai giovani delle periferie, agli irrequieti, agli arrabbiati. Si è fatto portavoce della sottocultura Mod, fatta di scooter e parka, ma è andato oltre: la sua arte era sì rivolta ai working class heroes, ma senza l’intento populista di mitizzarli oltremodo. In My Generation c’erano l’orgoglio e la paura, in I’m One la fragilità maschile, in Behind Blue Eyes il lato oscuro dell’eroe. E poi c’erano le esplosioni, letterali. Chitarre distrutte, amplificatori incendiati. Era arte distruttiva, ma anche simbolo di un mondo che stava finendo, per far spazio a uno nuovo.

L’incoerenza autentica

Pete Townshend non è mai stato un artista facile. Dove altri rocker della sua epoca hanno costruito mitologie coese, con simboli riconoscibili e pose cristallizzate, Townshend ha sempre scelto la strada più impervia: quella dell’incoerenza autentica. È una figura che sfugge a ogni tentativo di classificazione. Intellettuale e impulsivo. Ascetico e distruttivo. Visionario e disperato. Una tensione continua tra desiderio di ordine e bisogno di caos. Chi lo conosce sa che dietro ogni amplificatore fracassato, dietro ogni chitarra ridotta in schegge c’era una sete di significato, un gesto quasi rituale, più spirituale che punk. Townshend ha spesso dichiarato di essere afflitto da una sensibilità estrema, al punto da non reggere le vibrazioni emotive della vita normale. «Non ho mai distrutto le chitarre per rabbia», ha detto più volte. «Le ho distrutte per paura. Perché la musica era troppo forte per me, troppo vera». In lui, la violenza scenica era una forma di esorcismo. Eppure era anche spettacolo. Il pubblico voleva la distruzione e lui gliela dava, ma odiava essere ridotto a quella performance. Il suo rapporto con la spiritualità è altrettanto emblematico. Ha cercato per tutta la vita una forma di elevazione che potesse conciliare la carne e lo spirito, la musica e il silenzio interiore. Ma proprio mentre scriveva inni alla trascendenza, Townshend combatteva dipendenze pesanti da alcol e droghe, crisi depressive, pulsioni autodistruttive. Diceva di voler essere puro, ma viveva come un dannato. Nel 1980, dopo un periodo oscuro culminato in un’overdose quasi fatale, dichiarò: «Non posso continuare a predicare la luce se ogni notte affondo nel buio. O smetto di suonare, o smetto di mentire». Non ha fatto né l’uno né l’altro. Ha scelto di raccontare la contraddizione, come sempre.

«Non ho mai distrutto le chitarre per rabbia, le ho distrutte per paura»

Forse la contraddizione più profonda di Townshend è però quella tra il suo bisogno di autenticità e la sua paura di essere compreso. Nelle interviste è spesso tagliente, brillante, autocritico. Ma non sempre coerente. A volte rinnega le sue opere più amate (Tommy, definita una volta una «sciocchezza borghese»), altre volte le difende con furore. Ha avuto una relazione d’amore/odio con la band stessa che ha fondato. Gli Who sono stati, a tratti, la sua più grande creazione e la sua prigione. Negli anni ’80 si è allontanato da loro, criticando le reunion e le derive nostalgiche. Eppure è tornato mille volte sul palco con Daltrey: era stanco di essere Pete Townshend degli Who, ma allo stesso tempo non riusciva a smettere di esserlo. Eppure proprio in queste contraddizioni sta la sua verità. Townshend è un artista che ha vissuto ogni tensione e ogni dubbio senza maschere. Ha passato la vita a cercare qualcosa di puro in un mondo sporco e a volte ha sporcato lui stesso le sue stesse creazioni. La sua autobiografia Who I Am è un testo onesto, spesso doloroso in cui racconta traumi infantili, complessi d’identità, dipendenze e ossessioni, in cui però non cerca mai giustificazioni. Solo una forma di salvezza.

L’inquietudine che salva

Nel bilancio dei suoi 80 anni, Pete Townshend non è solo un sopravvissuto. È uno dei pochi che ha inventato un linguaggio. Senza di lui, il rock non avrebbe mai avuto l’ambizione narrativa di Tommy, né la complessità urbana di Quadrophenia, né la catarsi live distruttiva dei concerti degli Who. La sua influenza va oltre quelle più sbandierate di Sex Pistols, Pearl Jam o Oasis: è anche nei Green Day che fanno American Idiot, nei Radiohead che fondono opera e angoscia e in tutti coloro che cercano un senso tra rabbia e silenzio. Townshend è stato il primo a credere che il rock potesse contenere il teatro, la filosofia, la spiritualità e il caos. E anche ora, a 80 anni, resta inquieto. «Mi interessa più il futuro che il passato», ha detto in un’intervista recente. «L’arte non è mai finita. O si evolve, o muore».

“Hope I die before I get old” era una provocazione. Forse anche un augurio fatto nel momento in cui il mondo sembrava finire a trent’anni. Ma invecchiare, per Townshend, non ha significato perdere fuoco. Ha significato affrontare il proprio spettro – la generazione, le scelte, le responsabilità – e continuare a creare. Oggi Pete Townshend è vecchio. Ma è ancora rilevante. Perché ci ha insegnato che crescere è il vero atto rivoluzionario. Che la rabbia, la bellezza, il suono e la parola sono ancora armi. E che nel rumore bianco della nostra epoca, la sua chitarra – graffiante, spirituale, in cerca di verità – è ancora una voce fondamentale. Buon compleanno, Pete. Chissenefrega se da quarant’anni ti prendono per il culo per quella frase e grazie per aver scelto di restare.

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