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Perché sentiremo ancora parlare di Raye

Il mix di vecchio soul e nuovo pop, le tematiche complesse e dolorose, i conflitti con l’industria discografica, il talento: profilo della cantante che ha vinto sei Brit Awards, imponendosi come emergente inglese dell’anno

Foto: Callum Walker Hutchinson

Con un po’ di populismo e altrettanta malafede si potrebbe essere tentati di raccontare la marcia trionfale di Raye, al secolo Rachel Agatha Keen, ai Brit Awards ponendo l’accento sulla sua terza via al successo: è infatti un’artista indipendente nella maniera più eclatante, dato che nel 2021 si era resa protagonista di un polemico strappo con Polydor, la major che la teneva sotto contratto e che – raccontò lei al tempo – non la riteneva all’altezza di pubblicare un disco «tutto suo» reindirizzando i suoi pezzi migliori ad «artisti di serie A» e costringendola a pubblicare singoli su singoli, la maggior parte dei quali come vocalist di brani dance. La mappa concettuale a quel punto condurrebbe alle dichiarazioni di James Blake rispetto al rapporto tra artisti e industria, e il racconto si concluderebbe con una domanda retorica su quanto forse il sistema delle major sia incancrenito e con un paternalistico invito agli artisti a non sottostare a certe dinamiche.

Tutto questo sarebbe ingiusto per almeno due motivi: il primo è che tanto le premesse, quanto le conclusioni sarebbero false e infondate, perché Raye rappresenta un’eccezione, come ce ne sono state nella storia e come sempre ce ne saranno, da non confondere con una falla nel sistema o la miccia di una rivoluzione. Raye è un’artista talentuosa, che anche grazie alla sua esperienza con Polydor ha saputo creare una base importante (nel suo periodo di contratto con la major ha avuto modo di lavorare con artisti internazionali come David Guetta, di aprire i concerti di Halsey e di ottenere posizionamenti importanti nelle classifiche britanniche e internazionali), e che ha saputo fare all-in al momento giusto, ottenendo un successo che probabilmente si rivelerà mondiale e duraturo, potendo al contempo godere sia del dividendo di immagine che la comunità musicale riserva a chi riesce nell’impresa di svincolarsi dai Mangiafuoco dell’industria senza perdere posizioni, sia della assoluta libertà artistica che le ha consentito, tra le altre cose, di pubblicare il suo ottimo My 21st Century Blues dopo sette anni di attesa (così dice lei nella traccia conclusiva del disco). In ogni caso, l’unica lezione di fondo è che forse le etichette dovrebbero fidarsi un po’ di più delle scelte artistiche dei loro cantanti, ma è un dibattito antico che dalla vicenda di Raye subirà al massimo una spintarella bonaria.

Il secondo motivo è che la musica di Raye merita una considerazione un pochino più approfondita, perché sotto alla patina di super popstar che guarda indubbiamente al mondo delle classifiche e dei premi, ci sono stratificazioni notevoli che vanno di pari passo con ciò che la cantante stessa rappresenta all’interno del panorama musicale. Raye è una ragazza della generazione Z che è cresciuta ascoltando sia la trap, sia i classici americani e assomigliando, soprattutto nell’aspetto, a Amy Winehouse. Dalla trap e dalla sua appartenenza anagrafica ha ereditato le tematiche e il flow; dagli American classics e da Amy Winehouse l’approccio allo spettacolo, i tratti più soul della sua voce e degli arrangiamenti dei suoi brani e la fascinazione per la rappresentazione.

Il disco stesso – album of the year dei Brit Awards – è ambientato in un immaginario blues club di Londra, con un presentatore che annuncia l’ingresso in scena della «wonderful Raye», la quale si presenta a sua volta nel brano successivo, prima di iniziare con i brani veri e propri. Una cornice diegetica e concettuale molto semplice e che ha di certo molti precedenti simili, ma che serve a contestualizzare la cantante nelle vesti di personaggio del suo stesso disco e, allo stesso tempo, a dichiarare il suo background artistico, ovvero quel soul/R&B che affonda le radici nei club notturni. Da lì in poi, il patto narrativo dovrebbe fare sì che chi ascolta l’album se lo immagini in un certo senso eseguito da questa Raye “personaggio”, ovvero la cantante ingaggiata a una serata del fittizio 21st Century Blues Club, un po’ come si faceva con la Lonely Hearts Club Band del sergente Pepper.

Ad andare in scena sono quindi le due anime di Raye: la cantante, da un lato, sciorina tutto il vocabolario della generazione Z e della trap era americana (codeina, alcool, psicofarmaci, armi, ansia “generica” e ansia ambientale, dismorfismo corporeo e oltre che testimonianze di femminismo empirico), dall’altro si concede momenti più “antichi”, pieni di “my man”, dolci Mary Jane e sentenze gnomiche che rimandano, di nuovo, al mondo degli classici americani e delle ballad anonime diventate standard negli anni d’oro del jazz. In altre parole, il blues e il ventunesimo secolo.

Detto questo, nel complesso l’obiettivo del disco non sembra essere del tutto a fuoco: c’è un centro di gravità sonoro abbastanza riconoscibile, esposto in brani come Oscar Winning Tears o Hard Out Here, ma anche nella canzone dell’anno Escapism, che vede la collaborazione di 070 Shake, e ci sono dei brani che invece sfuggono completamente alla originale commistione di post trap e R&B soul, vero lascito musicale di questo disco. In altre parole: ci sono dei brani che non c’entrano niente. In alcuni casi, come in Mary Jane e The Thrill Is Gone, lo si dice in senso buono, nella misura in cui entrambi i brani sembrano poter far parte del discorso complessivo in modo quasi filologico (sono il primo una blues ballad che omaggia esplicitamente i classici parlando però di codeina, vino rosso e altre droghe, mentre il secondo è un disco funk/R&B vecchio stile che riecheggia le atmosfere di James Brown). In altri casi, come nella boutade house di Black Mascara, l’impressione è più quella di uno scivolone.

Nel complesso, il concept alla fine si sgretola, e anche a causa di alcuni brani eccessivamente derivativi. Due esempi su tutti: Ice Cream Man per quanto bella e sentita, dato che è un racconto a cuore aperto dell’artista di una vicenda di violenze subite da parte di un produttore, che fornisce il pretesto per una riflessione più profonda sull’essere donna, sembra musicata per assomigliare a un brano di Frank Ocean, e Enviromental Anxiety è davvero tanto simile a 22 (OVER S∞∞N) di Bon Iver. L’impressione complessiva è che tra i candidati all’album dell’anno dei Brit Awards ci fossero lavori più pronti.

Sul fatto che Raye sia l’artista dell’anno, invece, non ci sono dubbi. Rispetto agli altri candidati (Arlo Parks, Central Cee, Dave, Dua Lipa, Fred Again, J Hus, Jessie Ware, Little Simz e Olivia Dean) non solo è quella che ha avuto l’impatto musicale più importante (tolti gli scivoloni citati, ha portato qualcosa di tutto sommato inedito raggiungendo al contempo un pubblico vastissimo), ma anche quella che incarna con maggior naturalezza la tipologia di artista capace di rappresentare la generazione a cui appartiene, requisito che piace molto quando si tratta di assegnare riconoscimenti di questo tipo. Classe 1997, nata a Tooting, nel sud di Londra, da padre inglese e madre svizzero-ghanese, era stata ammessa alla prestigiosissima Brit School, ma aveva abbandonato gli studi dopo due anni. Da lì in poi ha avuto inizio la sua vicenda di cantante, fatta di grandi hit di poco valore fino alla rottura con Polydor e il 21st Century Blues Club (il 14 luglio si esibirà per la prima volta in Italia, a Umbria Jazz).

Le sue tendenze all’insubordinazione, la sua capacità di dare voce a tematiche complesse e dolorose, la sua incarnazione dell’idea di redenzione attraverso la musica e il suo carisma naturale, oltre ovviamente al talento, la rendono una role model nel suo genere, che merita di ricevere un riconoscimento del genere. In ogni caso, con sei premi ricevuti in una sola edizione, Raye ha fatto la storia dei Brit Awards, superando i Blur e Harry Styles: di lei si parlerà per un bel po’.

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