Se c’è un disco di cui alla gente piace discutere, quello è Nebraska di Bruce Springsteen. E quindi ha senso che se ne stia discutendo ancora, nel 2025. Springsteen – Liberami dal nulla non ha fatto sfracelli al botteghino e ha incassato 16,1 milioni di dollari nel weekend d’apertura. Potrebbe sembrare una cifra stratosferica, se non fosse che questo film su un album inciso con un registratore a cassette da 400 dollari è stato realizzato con un budget di 55 milioni. Come se non bastasse, le recensioni sono contrastanti. Nel frattempo Electric Nebraska ha dato ai fan un punto di vista nuovo sul disco acustico del 1982 e su come avrebbe potuto essere se solo Springsteen lo avesse inciso e pubblicato con l’accompagnamento della E Street Band.
Un po’ come accaduto Kid A dei Radiohead, che hanno fatto una mossa simile 18 anni dopo, su Nebraska è sempre stato divertente discutere, che tu lo amassi o lo odiassi. Nella scena più divertente del film c’è Jimmy Iovine al telefono col manager Jon Landau e urla dicendogli quant’è assurdo il disco (Iovine interpreta se stesso, il che è geniale). C’è anche un momento in cui Landau dice che lo farà ascoltare a Iovine e Stevie Nicks, peccato che il film non ci faccia vedere la reazione della rocker.
Ci sono interpretazioni da Oscar, Jeremy Allen White nei panni di Springsteen e Jeremy Strong in quelli di Landau, ma è un film divisivo come s’addice a un album divisivo, e anche chi ha amato Liberami dal nulla ha parecchio da ridire. È un film di uomini che parlano dei problemi di Bruce Springsteen, e uno di questi uomini è Bruce, col contorno di un paio di donne. Il tipo che si occupa del mastering dell’album ha più battute nel copione di tutta la E Street Band messa assieme. Il messaggio è che pur di non andare in terapia gli uomini sono capaci di mettersi lì a fare dischi acustici sulle vicende di un serial killer.
Al centro della storia di Nebraska c’è un melodramma in stile vecchio showbiz: i cattivissimi dirigenti d’azienda che sbraitano che il disco non venderà una copia mentre il rocker ribelle risponde che un artista deve fare ciò che vuole. Ed è proprio questo che l’ha reso leggendario. È per questo che esiste un film su Nebraska e non sull’album che quello stesso anno ha vinto il Grammy, ovvero Toto IV (detto questo, io guarderei volentieri la scena in cui dicono «Ma sai cosa manca a ’sto pezzo? Cani selvatici che ululano»).
Il film offre solo piccoli flash su cos’era la cultura rock del 1982 e su quanto Nebraska era fuori da ogni standard della programmazione radiofonica. Nel film, Springsteen guida ascoltando Urgent dei Foreigner e Winning di Santana, grandi hit negli Stati Uniti nel 1981. E del resto il suo album è pieno da uomini che guidano da soli nella notte, pregando affinché la salvezza rock’n’roll esca dalla radio. E Nebraska è esattamente ciò che non stanno ascoltando.
Il nuovo grande rocker del 1982, almeno secondo i programmatori radiofonici, era John Cougar che con American Fool offriva la musica “alla Springsteen” in grado di far presa sul pubblico, ovvero la musica che Springsteen si rifiutava di fare. Hurts So Good e Jack and Diane erano ovvi (ed efficaci) successi in stile Boss firmati dal Coug (mancava ancora un anno perché si riprendesse il cognome Mellencamp) e brani simili stavano per arrivare da Bryan Adams e John Cafferty. American Fool era fuori da sei mesi quand’è uscito Nebraska, ma era ancora nel pieno delle sue nove settimane consecutive al numero uno in classifica. Per gente come Mellencamp e Adams, ascoltare Nebraska dev’essere stato uno dei momenti più felici della loro vita.
Ma è stato Billy Joel più di ogni altro musicista a trarre vantaggio da Nebraska. Una settimana prima aveva pubblicato per la stessa etichetta e probabilmente accolto con le stesse urla dagli stessi dirigenti il suo disco più “artistico” e meno commerciale, The Nylon Curtain. Ironia della sorte, l’album di Joel ha avuto comunque successo perché ha colmato il vuoto lasciato da Springsteen. Se Pressure e Allentown sono diventate delle hit è perché erano la cosa più vicina a quel rock radiofonico “alla Springsteen” che il Boss non stava più facendo.
In una pagina pubblicitaria pubblicata su Rolling Stone alla fine del 1982 compaiono solo il nome di Billy Joel, un pugno che stringe una chiave inglese e il testo completo di Allentown. Mai avrebbe potuto permettersi una pubblicità del genere se Springsteen avesse concesso ai fan anche solo un contentino al posto di Nebraska. Pressure era poco commerciale per gli standard di Billy, un’ode alle difficoltà delle rockstar nel riuscire a contattare i propri spacciatori, col cantante che digrigna i denti manco fosse intrappolato nell’ultima mezz’ora di Quei bravi ragazzi (il bel documentario And So It Goes non menziona mai la cocaina, si vede che Billy s’è documentato facendo domande ai pezzi grossi che frequentavano Elaine’s). E comunque rispetto a Nebraska quella canzone era, tipo, Just the Way You Are.
Le radio rock non hanno passato Nebraska, uno shock all’epoca considerando che era pur sempre il nuovo album di Springsteen. «Penso che succederà una di queste due cose», diceva a Rolling Stone un esperto di programmazione radiofonica, «o darà il via a una tendenza verso musica più soft e personale accettata dalle radio o sarà un completo disastro». La mia stazione locale WBCN, in quella roccaforte springsteeniana che è Boston, passò Open All Night per circa una settimana e poi stop. Il pezzo aveva una chitarra elettrica e un riff alla Chuck Berry, oltre a un tono insolitamente vivace (è il gemello di State Trooper, una specie di versione alternativa della vita dello stesso personaggio), ma non aveva un ritornello e in radio suonava piatto. Si fermò al numero 22 della classifica rock di Billboard Top Tracks, un vero flop, e Atlantic City e Johnny 99 andarono anche peggio. In quella settimana, gli album più trasmessi dalle radio rock erano Signals dei Rush (la loro controversa svolta sintetica), Billy Squier, gli Who (con il loro terribile addio It’s Hard), Don Henley (il primo album solista), Bad Company, Kenny Loggins, Steve Winwood e Men at Work.
Quando un musicista diventa una superstar, come successo a Springsteen con The River, si usa dire che potrebbe centrare una hit anche solo scoreggiando nel microfono. Nebraska è la prova definitiva che questa teoria non sempre regge. Se le radio non lo passavano, la gente lo comprava. Dopo essere entrato in classifica al numero 29, balzò al quarto posto la settimana dopo, un’ascesa rapidissima per gli standard del 1982 (è l’album salito più velocemente in quell’anno dopo Tug of War di Paul McCartney). È arrivato fino al numero 3 dietro Cougar, Fleetwood Mac e Steve Miller, appena davanti a Michael McDonald. Ma niente radio.
Nel film c’è un veloce accenno ironico a MTV quando Springsteen fa zapping tra repliche di La rabbia giovane. Ma è stata proprio MTV a spingere Nebraska puntando su Atlantic City e al suo video in cui (saggiamente) Springsteen non appariva. MTV lo passava manco si trattasse di una mega hit, ma solo perché era felice di avere qualsiasi prodotto marchiato Bruce da mandare in onda. Eppure stava sorprendentemente bene tra gli artisti synth-pop britannici del 1982/83, che le radio rock ignoravano allo stesso modo. Sentire Atlantic City tra un pezzo dei Soft Cell e uno degli Human League aveva molto più senso che sentirla tra i Rush e i Journey. Ciò che rendeva Nebraska inadatto alla radio lo rendeva perfetto per MTV, ed è giusto che siano stati i ragazzi new wave ad affezionarsi ad Atlantic City, soprattutto considerando che Springsteen si era ispirato all’elettronica dei Suicide e della loro Frankie Teardrop.
Ma il vero motivo per cui Nebraska alla fine ha avuto successo ed è rimasto è che la gente si riconosceva nelle canzoni. Stranamente, Ronald Reagan non viene mai nominato nel film, nemmeno in un tg di sottofondo tra le repliche di La rabbia giovane. Praticamente tutto ciò che si è detto e scritto su Nebraska negli anni ’80, compreso quello che ha detto e scritto Springsteen, ha a che fare col lato oscuro dell’America di Reagan. Alla fine del 1982, la disoccupazione era al 10,8 per cento, la più alta dai tempi della Depressione. Springsteen aveva già scritto una canzone di protesta sull’argomento, Out of Work, per Gary U.S. Bonds, che (incredibilmente) era entrata nella Top 40 quell’estate, con una terza strofa rivolta direttamente Mr. President: “Magari ha un lavoro per me, anche solo come suo autista?”.
Non che, allora come oggi, al presidente importasse granché. Come ha detto Reagan nel marzo 1982, «è forse una notizia che un tizio in qualche posto come South Succotash sia stato licenziato e quindi debba essere intervistato a livello nazionale?». Nebraska ritrae i perdenti di South Succotash e ce li fa vedere come persone reali. Come ha detto Springsteen, quel disco «parlava del senso di isolamento americano, di ciò che succede alle persone quando sono alienate dagli amici, dalla comunità, dal governo, dal lavoro. Perché sono queste le cose che ti tengono sano, che danno un senso alla vita. E se svaniscono, e inizi a vivere in un vuoto dove le regole basilari della società non valgono più niente, allora la vita stessa non vale più niente. E può succedere di tutto».
Oggi nessuno vuole ammettere di aver deriso Nebraska all’epoca, così come nessuno ammette di aver fischiato Bob Dylan al Newport Folk Festival, come si vede nell’altro grande biopic rock dell’anno, A Complete Unknown. Ma lo hanno fatto, eccome. Come scriveva all’epoca un lettore alla rubrica delle lettere di Rolling, «mi piaceva molto di più quando scimmiottava gli anni ’50». Non era il Broooce che la gente voleva, quello già trasformato in caricatura affettuosa nella cultura pop, come nelle imitazioni di Robin Williams (“Elmer Fudd canta Springsteen”) o nella parodia del Dr. Demento Show in cui Bruce Springstone canta la sigla dei Flintstones.
Ecco perché quest’album ha aperto la strada a tutti i cloni da bar band “alla Bruce” degli anni ’80. Voglio dire, a Hollywood si stava girando La banda di Eddie, un film ispirato alla E Street Band che è stato molto visto in tv in America durante la lunga attesa tra Nebraska e Born in the U.S.A. (il film ha persino una sottotrama in stile Nebraska, in cui Eddie si ribella ai discografici con un album artistico e poco commerciale intitolato A Season in Hell).
Oggi come allora, la gente ama l’anima da outsider dell’album: l’artista che prende posizione, sfida le regole, resta affamato. Come si diceva spesso nel 1982, Bruce aveva di nuovo l’occhio della tigre. Ecco perché l’album è entrato nella storia: è l’esempio definitivo della superstar che distrugge tutto per ricominciare, come successo poi con Kid A o Achtung Baby, come Bowie a Berlino o la Ditch Trilogy di Neil Young. Quando nel 2007 Kelly Clarkson ha dovuto dare un seguito a Since U Been Gone, ha fatto infuriare la sua etichetta pubblicando My December, che ha definito il suo Nebraska. È un segno che quel mito culturale era uscito dai confini del rock. Ed è proprio questo che rende Nebraska uno dei più grandi argomenti da discussione nella storia della musica popolare.












