Perché la vittoria di Taylor Swift riguarda anche l’ultimo dei musicisti | Rolling Stone Italia
Music biz (Taylor’s Version)

Perché la vittoria di Taylor Swift riguarda anche l’ultimo dei musicisti

La popstar ricompra i suoi master e offre lo spunto per ripassare le regole del gioco della discografia. Come dice David Byrne, «il musicista che non si dedica ai propri affari presto se ne ritrova privo»

Perché la vittoria di Taylor Swift riguarda anche l’ultimo dei musicisti

Taylor Swift durante le prove dell’Eras Tour

Foto press

Quella di Taylor Swift non è solo la storia di una popstar milionaria e dei suoi dischi d’oro, ma un manuale di sopravvivenza per chiunque crei, ascolti o semplicemente ami la musica. Dietro ogni hit che sentiamo, dietro ogni emozione condivisa da milioni di persone si gioca una partita silenziosa fatta di diritti, contratti, proprietà, potere. Una partita che determina chi comanda davvero, chi guadagna, chi può scegliere il destino di una canzone. La guerra di Taylor Swift per il riacquisto dei diritti sulla sua musica non è solo gossip da popstar: è un caso di scuola su come funziona davvero la musica oggi, su chi decide cosa ascoltiamo e su come il valore di un’opera spesso scivoli via dalle mani di chi l’ha creata.

Quando parliamo di musica, parliamo anche di music industry, di music business fatto di vincoli contrattuali, di asset, di proprietà spesso invisibili, ma decisive. Quando una canzone nasce, porta con sé almeno tre tipi di diritti. Il primo è il diritto d’autore, quello dell’autore-compositore: riguarda la scrittura del testo, la melodia, l’arrangiamento. Resta in capo a chi ha scritto la canzone che ne cede una parte all’editore o publisher – di frequente facente parte dello stesso gruppo della label – in cambio di un anticipo sui guadagni.

Il secondo è il diritto connesso, che spetta all’interprete e soprattutto al produttore discografico; e qui si apre il vero terreno di battaglia. L’interprete riceve una quota modesta, mentre la label, grazie a contratti work for hire piuttosto sbilanciati a suo favore, commissiona letteralmente la creazione di un’opera artistica, si prende la proprietà della registrazione vera e propria – il cosiddetto master – e ne controlla il destino.

Terzo: il master, appunto. È la registrazione materiale della canzone, da cui derivano tutte le copie, tutti gli stream, tutte le sincronizzazioni in pubblicità, cinema, tv. Chi possiede i master – che è anche chi normalmente si accolla il rischio imprenditoriale di una produzione musicale – decide dove e come la canzone verrà utilizzata e incassa le royalty più significative di tutto il sistema. Possedere il master rappresenta, dunque, il cuore del potere nella musica, come dimostra la vicenda di Taylor Swift ma anche quella di tanti altri artisti leggendari.

I Beatles, ad esempio, non hanno mai posseduto i master delle loro canzoni: il loro catalogo è passato da EMI a Michael Jackson e poi a Sony, mentre Paul McCartney ha dovuto attendere decenni per riacquisire parte dei diritti sulle sue stesse canzoni. Prince arrivò a scriversi “Slave” sulla guancia per protestare contro la Warner, che deteneva i suoi master. George Michael portò Sony in tribunale per ottenere maggiore libertà artistica ma perse perché venne stabilito che il contratto era stato validamente stipulato, per quanto estremamente vincolante.

Più recenti, i casi in cui, per reazione a tali vincoli, gli artisti che se lo possono permettere assumono anche il ruolo di imprenditori, così mantenendo la proprietà (o comproprietà a volte) dei loro master. Ne è un esempio Beyoncé, che oggi pubblica con la sua etichetta Parkwood Entertainment, che è co-titolare dei master insieme a Columbia Records, mantenendo così un maggior controllo sulle sue registrazioni e sulle sue scelte creative.

Con l’avvento del digitale cambia un po’ tutto. Oggi un artista con una fanbase forte può negoziare accordi di sola distribuzione, fondare una propria label, oppure usare TikTok, SoundCloud e YouTube per lanciare la propria musica e trattare successivamente, con una maggiore forza contrattuale, data dall’ampia fanbase “certificata”, con le etichette tradizionali.

Salvo queste eccezioni, restano comunque moltissimi i casi di musicisti che, pur di uscire dall’anonimato, firmano ancora contratti molto spesso squilibrati, cedendo il destino delle proprie canzoni a qualcun altro, dietro la giustificazione che il rischio imprenditoriale sarebbe tutto sulle spalle della label.

Kanye West e Taylor Swift agli MTV Video Music Awards del 2009. Foto: FilmMagic/Getty Images

La storia di Taylor Swift e della riconquista della sua musica inizia nel 2016. Taylor è all’apice della popolarità, ma dietro le luci dei riflettori si consuma una guerra silenziosa, che esplode quando Kanye West pubblica il brano Famous, in cui rappa la celebre (e infamante) frase: “I feel like me and Taylor might still have sex / Why? I made that bitch famous” (il riferimento è quando agli MTV Video Music Awards del 2009 West ha interrotto il discorso di accettazione del premio ricevuto dalla popstar per You Belong to Me, ndr). Taylor nega di essere stata avvisata della frase. Kanye sostiene invece di averle chiesto il permesso.

A luglio 2016, Kim Kardashian (all’epoca moglie di Kanye) pubblica su Snapchat una serie di brevi video – clip registrate con il cellulare – in cui Kanye sembra informare Taylor di una battuta su di lei in un suo nuovo brano; Taylor, cordialmente, sembra accettare la cosa e ringraziare per essere stata interpellata. Ma c’è un dettaglio fondamentale: nella clip non si sente mai Kanye citare la frase “I made that bitch famous”. La pop star denuncia subito il montaggio manipolato e sottolinea di non essere mai stata informata della parte realmente offensiva. Sui social, la narrazione si ribalta: Taylor viene accusata di essere falsa, manipolatrice, bugiarda.

Inizia la stagione degli insulti con l’emoji del serpente, l’isolamento mediatico, la sensazione – per Taylor – di essere circondata da alleati potenti (Kanye, Kim, e dietro le quinte, Scooter Braun come manager, stratega e amico di Kanye). Per Swift è un punto di rottura: non solo si sente bullizzata pubblicamente, ma anche vittima di un sistema che la vuole controllare e zittire. Anni dopo, nel 2020, la versione integrale della telefonata emerge online e conferma la versione di Taylor: Kanye non la informò mai della frase offensiva e la registrazione era stata selettivamente montata per alimentare la narrazione contraria.

In questa partita di potere c’è un altro nome fondamentale: Scott Borchetta. È il fondatore e CEO di Big Machine Label Group, la persona che a metà anni 2000 ha creduto in una giovane Taylor, facendole firmare il suo primo contratto discografico. Per anni, il rapporto tra Swift e Borchetta è stato personale, quasi familiare: lui l’ha guidata, sostenuta e lanciata. Ma il legame si incrina proprio quando si tratta del controllo sui master: Borchetta resta sempre il titolare di quei diritti, anche quando la relazione di fiducia sembra ormai svanita.

Quello che Swift ancora non sa è che, qualche anno dopo, tutto questo conflitto prenderà una forma ancora più tangibile e dolorosa: non più solo scontro di parole, ma una questione di proprietà. Nel giugno 2019, attraverso la sua società Ithaca Holdings, Scooter Braun acquisisce l’etichetta di Borchetta, la Big Machine Label Group, e con essa i master dei primi sei album della popstar. Le sue canzoni, la sua voce, la sua storia, ora sono nelle mani della persona con cui si sente in guerra da anni. Per la cantante la notizia è un trauma. Il passaggio di proprietà avviene senza che lei venga informata, consultata, o possa in alcun modo opporsi. Scopre tutto dai media, come una qualunque spettatrice. E la ferita è ancora più profonda perché, negli anni precedenti, aveva tentato di trattare per riacquistare i master, ma le condizioni offerte da Borchetta (ottenere un master alla volta per ogni nuovo album inciso con loro) erano state considerate umilianti.

Taylor non resta a guardare. Pubblica una lettera durissima contro Scooter Braun e Big Machine, accusandoli di averle “rubato” la voce e di rappresentare un sistema in cui chi crea non ha mai davvero il controllo sulla propria opera. La lettera diventa virale: il caso Swift non è più solo una questione da popstar, ma un manifesto globale per i diritti degli artisti. Taylor promette: «Ri-registrerò tutti i miei vecchi album». E comincia davvero a farlo, sfruttando una possibilità consentita dal diritto statunitense: registrare nuove versioni delle proprie canzoni.

Dal 2021 in poi, arrivano Fearless (Taylor’s Version), Red (Taylor’s Version), Speak Now (Taylor’s Version), 1989 (Taylor’s Version), nuove registrazioni pressoché identiche agli originali che Taylor possiede e controlla al 100%. Il risultato? I fan e le piattaforme di streaming si spostano sulle nuove versioni, ridimensionando il valore commerciale dei vecchi master. Anche i produttori di film, serie e spot pubblicitari, su richiesta esplicita di Swift e della sua community, scelgono di sincronizzare solo le Taylor’s Version.

Travolto dalla pressione mediatica e dalla reazione dei fan, Scooter Braun decide di cedere la proprietà dei master. Nel novembre 2020, la sua società Ithaca Holdings vende i master di Taylor Swift (e altri asset) al fondo d’investimento Shamrock Capital per una cifra di 405 milioni di dollari. Ma Swift non accetta di collaborare: scopre che Braun continuerà a incassare percentuali sui suoi brani per anni. Pubblica la sua risposta, spiegando ai fan perché non vuole lavorare con chi, anche solo indirettamente, continua a trarre profitto dalla sua storia personale e artistica.

Foto: profilo Instagram @taylorswift

Dopo anni di battaglie, lettere aperte, ri-registrazioni e boicottaggi, pochi giorni fa Taylor Swift ha annunciato di aver finalmente riacquistato da Shamrock Capital i master dei suoi primi sei album. Non si conosce la cifra esatta, ma il senso è chiaro: il controllo, il diritto di scelta e la soddisfazione personale – dopo una lunga guerra – sono tornati a chi crea la musica, non solo a chi la finanzia.

Tutto questo cosa ci insegna? Come scrive David Byrne in Come funziona la musica, «il musicista che non si dedica ai propri affari presto se ne ritrova privo». E ancora: «La condotta più saggia consiste solitamente nel tenersi stretti i diritti in cambio di una minor quantità di denaro».

Come abbiamo visto, la musica nell’industria moderna non è solo arte. È un business fatto di asset, di proprietà spesso invisibili, ma decisive. Per chi fa musica oggi, la vera sfida non è solo trovare il successo, ma capire il valore – giuridico, economico, simbolico – di ciò che si firma e di ciò che si lascia sul tavolo in cambio della fama, conoscendo e magari facendo tesoro delle battaglie, a volte e più spesso perse, di chi è venuto prima di loro.

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