Per certe cose c’era solo il Leoncavallo | Rolling Stone Italia
Creare valore

Per certe cose c’era solo il Leoncavallo

E speriamo ci sia ancora in futuro. È stato il punto d’incontro di artisti, nomadi, intellettuali, disperati in cerca di vita. Ci andavi senza manco sapere che concerti avresti visto. I ricordi del chitarrista dei Ritmo Tribale, che sono praticamente nati lì negli anni ’80

Per certe cose c’era solo il Leoncavallo

Il Leoncavallo nel 1989

Foto: un particolare della copertina di ‘Kriminale’ dei Ritmo Tribale

Yvonne Ducksworth era una furia, quella sera. Ed era bellissima, roba da innamorarsi sul colpo. Sul palco coi Jingo de Lunch, per noi era il massimo. Era la fine degli anni ’80 ed eravamo estasiati da Axe to Grind che ascoltavamo all’ossessione: chitarre aggressive, perfette, una base al galoppo sfrenato e Yvonne che ti strappava l’anima urlando di alzarti immediatamente.

Il concerto era ovviamente in via Leoncavallo 23 a Milano: il Leonka. Noi Ritmo Tribale siamo nati lì. Il nostro primo concerto è stato nell’85 coi gruppi delle sale autogestite di Via Amantea (uno spazio del Comune del quale ci eravamo di fatto impadroniti) e da lì ci siamo praticamente trasferiti al Leo. I sabati sera (TUTTI i sabati sera) passavano o finivano in via Leoncavallo. Non ci rendevamo nemmeno conto di quante correnti, tendenze, note nuove e meravigliose stavamo vivendo: il Leo era semplicemente IL posto dove si andava.

In una Milano che negli anni ’80 imparava a monetizzare i sentimenti, i centri sociali erano l’ultima spiaggia per artisti, nomadi, intellettuali e disperati. Non c’erano posti per la musica dal vivo, se non il Magia Music Meeting e pochi altri (ma soprattutto per il jazz, di cui Milano era una capitale). Così, lì siamo nati noi, i Casino, i Tiratura Limitata, gli Afterhours. Ci si andava senza avere idea di chi sarebbe stato sul palco: i D.O.A., i Jingo, i Sonic Youth, un festival hardcore, i Mano Negra (il loro concerto più incredibile che io ricordi). E poi Wretched, Subsonica, oltre agli spettacoli di Dario Fo e mille altri.

E questo nella sala grande da 4000 persone perché, se attraversarvi il cortile zeppo di gente che chiacchierava, scendevi le scale ed entravi all’Helter Skelter, il regno del punk milanese: uno spazio più piccolo ma altrettanto spalancato sulla qualunque. Lì ho visto Henry Rollins (che prima del concerto faceva stretching a torso nudo su una stuoietta sul marciapiede), i Sigillum S che aprivano le danze al rumorismo e molto altro.

Noi ci crescevamo, lì dentro. In ogni senso. Negli anni ’80 non c’erano altri posti per la nostra musica. Certo, il Leo come tutti i centri sociali aveva un’assemblea anche per comprare le sigarette, ma era anche un asilo d’infanzia, centro di supporto, base delle Mamme del Leonkavallo, ospitalità per chiunque, pure per i Comunisti Padani capitanati da Matteo Salvini. Ché questo era il punto: il Leonka era nato sotto il segno della falce e martello, ma accoglieva chiunque. Nei sabati di cui parlo nessuno si è mai chiesto se quello accanto avesse una tessera: bastava un’offerta libera e si era dentro a una realtà nata politica, ma cresciuta come centro di aggregazione a tutto campo.

Al Leo la cultura era di casa e lì nascevano case editrici, progetti fotografici o video e molto altro. Molti spazi ne hanno seguito l’esempio, ma il Centro rimaneva quello. Noi ci abbiamo fatto tutti i concerti più importanti mentre salivamo nella considerazione dei milanesi: fu durante uno di questi che si presentò l’establishment della PolyGram per decidere se metterci sotto contratto. Per dire il periodo: ricordo che i discografici si preoccuparono di spegnere i cellulari prima di entrare perché temevano che averne uno li marchiasse come capitalisti. Capito che epoca?

Poi venne il ’94 e l’annuncio dello sgombero, e lì successe quello che credo rimanga un episodio unico, per lo meno in Italia: le forze dell’ordine furono respinte. Dentro al Leo e sul tetto c’erano ragazzi che rispondevano con pietre ai lacrimogeni e in una strada del centro di Milano fu guerriglia per una giornata. Per il secondo tentativo fu schierato un mezzo esercito e il Centro fu “liberato”. Milano si paralizzò: un momento storico nel quale la parola reazione aveva ancora un significato. Alla manifestazione c’erano, se non sbaglio, qualcosa come 25 mila persone venute da tutta Italia. Il flusso era ininterrotto da via Leoncavallo a piazzale Loreto e oltre. Di quella manifestazione ero uno dei pochi fotografi autorizzati e, davanti e dietro le fila dei celerini, ne ho viste di ogni.

Il Leonka non è morto, per un periodo si è trasferito in via Salomone, verso i Tre ponti, un altro spazio industriale con una sala enorme. Noi avevamo appena pubblicato Mantra e suonammo con Doctor and the Medics. Ricordo il mio imbarazzo reverenziale all’idea che gli headliner fossimo noi, ma a Milano era esplosa la scena locale all’inizio dei ’90. Da lì, credo dopo una specie di trattativa, il Leonkavallo ha trovato sede in via Watteau, dove hanno suonato D.O.D., Roni Size, Jello Biafra e un milione di altri, sempre a prezzi più che accessibili per entrare e per bere una birra.

Conosco un sacco di gente che potrebbe parlare più approfonditamente di tutto quello che è nato al Leonacavallo, dai collettivi punk alle case editrici, passando per gli spettacoli dei Mutoid e dei loro draghi sputafuoco (uno dei quali peraltro incendiò una tribunetta in legno nell’indifferenza del pubblico in visibilio). Io ne ricordo il cuore enorme e il fatto che quelle mura, pur nei vari traslochi, mi hanno ospitato mentre crescevo, quando e come volevo. E come me migliaia di altri ragazzi e persone che ci andavano a colpo sicuro, certi di trovare vita. Altro che social.

Lo sgombero (di quella che spero con l’anima non sia stata l’ultima sede) si è svolto con un rumore quasi solo mediatico, con tanti post scritti da persone certamente furibonde ma anestetizzate e, soprattutto (ed è questo il segno), da ultracinquantenni, ché per gli altri la rivolta è al concerto di Simba. Perché quel posto, che ci teneva così tanto a fare rete, dalla Rete è rimasto fuori e, forse, anche per questo Milano ha bisogno di un Leonkavallo, perché tra un po’ questa città stritolata dai citylifers di catalizzatori veri non ne avrà più.

Non sarà quello spazio a frenare la corsa verso una città-vetrina, dedicata a chi passa e non a chi la abita. Non avrà mai la coroncina dei grattacieli intitolati a chi muove numeri da un computer all’altro banfando di creare valore. Ma sarà la tana di chi ne ha bisogno, per una sera o di più, anche senza aprire account o prendere tessere. Almeno una lochescion lasciatela a noi.