«Se penso a un ragazzino che non è mai stato un musicista, che a 19 anni ha cominciato a fare la seconda voce in una band e adesso ne ha 57 e sta in un gruppo che è rispettato, che piace alla gente che piace a me, ma io che cazzo voglio di più?».
È una chiacchierata libera quella che Alioscia fa con Rolling in occasione dell’uscita di Fumo, il nuovo album dei Casino Royale. Coprodotto da Clap! Clap!, il disco vede il gruppo sempre più collettivo aperto: ci sono DeeMo a fare l’art director, Marta Del Grandi e Aida, giovanissima rapper di origine albanese, oltre allo stesso Alioscia e a Patrick Benifei, la storia dei Casino Royale. Le radici sono nere: la Giamaica da sempre nel dna della band, il soul urbano e la cultura dei sound system filtrate attraverso il passaggio per la Gran Bretagna.
«Settès giò» dice Alioscia in milanese invitandomi ad accomodarmi sulle panchine della sua edicola a Lambrate. Passano i bimbi dell’asilo con le maestre e le anziane signore che, Dio le benedica, ancora comprano il giornale. Lui conosce tutti. «L’edicola è un progetto di mia moglie e mio. Io volevo aprire una gelateria, ma abbiamo preso l’edicola. Noi abitiamo qua e questo posto è diventato un po’ un presidio. Se vuoi sopravvivere a quella che è la principessa della paranoia, la Milano double standard, la Milano che ho sempre raccontato, alla fine vivere dimensioni come queste è fondamentale. E poi è un gesto di resistenza gentile, un luogo di incontro, di approfondimento, dove da un lato incroci l’uomo della strada che compra Libero e vota Vannacci, e magari ci scambi due parole e cerchi di capire come cazzo è possibile. Dall’altra parte viene un botto di gente a presentare testi, libri interessanti, e ti ritrovi con un sacco di persone che ascoltano all’angolo di una strada, magari con l’ombrello aperto. In questo momento è tanta roba».
Alioscia inizia a parlare e non si ferma più, facendo il giro tra presente e passato di un gruppo che è la sua vita, pur avendo lui una vita che va ed è andata anche in tante altre direzioni (l’edicola, l’Elita Bar, la casa occupata di via Garigliano, il lavoro in televisione e in radio…). Si comincia dall’album nuovo, sempre che di album si possa parlare. «Quando l’abbiamo preparato, nella nostra testa era una traccia unica. Infatti quando siamo andati a bussare alle prime case discografiche ci hanno detto: vabbè, una traccia unica, come facciamo a mettere dei soldi su una traccia unica? Però nella nostra testa era già qualcosa di molto denso, mezz’ora abbondante. Penso che abbia l’intensità di un album, ma la definizione più corretta è quella di suite: una serie di brani composti e preparati in modo da essere ascoltati in una determinata sequenza. Sono temi che si ripetono, brani che iniziano, poi vanno da un’altra parte e poi c’è una chiusura. È strutturato per essere ascoltato tutto d’un fiato ed è quello che è successo. Quando ho cominciato a darlo in giro, alcuni amici mi dicevano: “Cazzo, sono sceso tre fermate dopo perché ho guardato fuori solo quando è finito il disco”. Diciamo che secondo me funziona ed è la prima fruizione che mi interessa, quella per cui è nato. Poi ci sono canzoni, ma è una formula da cui ora cerchiamo un po’ di fuggire. Abbiamo sempre fatto canzoni incasinandoci la vita. In questo momento credo che a volte sia la musica, più della canzone, a parlare all’anima».
«Anche i testi sono una serie di frasi, come una serie di claim che poi trovano senso nel respiro musicale, dopo che sono stati metabolizzati, dopo che chi li ha ascoltati ha avuto il tempo di poter fare delle riflessioni. Questo è il tipo di racconto musicale che in questo momento mi interessa e ci interessa fare. Non dico che sia migliore o peggiore di altri. Sicuramente è in controtendenza rispetto alla maniera di fare dischi adesso, dove se ci sono 12 tracce sono 12 potenziali hit con 12 potenziali guest. La formula è sempre quella, che palle».
Nel comunicato stampa si legge che Fumo va ascoltato in sequenza, «in direzione contraria all’ascolto superficiale che caratterizza la fruizione di oggi». Ma Alioscia è ben lontano dal dire che ai suoi tempi si stava meglio. Anche perché in tutta evidenza i suoi tempi sono anche questi. «Quando diciamo “superficiale” non intendiamo dire che tutti ascoltano con superficialità. Però i dettami di piattaforme come Spotify dicono che deve arrivare subito il ritornello e che deve essere catchy. Una volta questa cosa era un’intuizione, penso ai Black Eyed Peas che in un pezzo mettevano cinque o sei hook, ed è una cosa che non disdegno, perché forse è stato anche un nostro limite. Mi ricordo quando scazzavamo con Michelino che mi diceva: “Tu tiri fuori troppe cose che rimangono in testa e alla fine non rimane in testa un cazzo!”. Ma piuttosto che buttare via delle cose… Noi non facciamo musica d’intrattenimento: la facciamo per urgenza, perché abbiamo voglia di fare qualcosa che interessa a noi, che ci coinvolga e che piaccia a noi in primis. Dei dettami di Spotify ce ne siamo abbastanza fottuti».
«Siamo qui fuori da un’edicola, ma la gente non è abituata a prestare attenzione. Siamo tutti in mano a questo oggetto, a scrollare, a leggere in maniera veloce. Questi sono i tempi. Fumo racconta di questo: sì/no, mi piace/non mi piace. Soglia di attenzione brevissima, perché poi devo vedere che cosa arriva dopo. A volte ti prende quasi un senso di nausea, come quando leggi e sei in macchina. Noi diciamo: fermi tutti, c’è bisogno di ascolti un po’ più immersivi. Poi comunque dura poco più di mezz’ora, non è che abbiamo fatto un colossal di Bollywood da sei ore sulla storia di Shiva. Si può essere leggeri ma intensi, e cercare di essere un po’ più profondi. In questo periodo contano i numeri, i like, le views: non so quanta qualità porti. Certo chi investe guarda a questi aspetti, ma anche a me interessa vendere dei dischi, per la Asian Fake e per fare dei concerti».
Ne sono in programma diversi, a partire da quello di sabato al MiAmi, dove i Casino Royale 2025 faranno il loro debutto. Come ogni volta che escono con qualcosa di nuovo, la prima cosa da fare è capire stavolta chi è della partita. Si rimane sempre un po’ disorientati, anche piacevolmente. «Ho sempre complicato la vita al progetto, però è anche vero che nessuno si annoia mai quando arriva ai Casino Royale. Un altro giornalista mi ha detto: ci vuoi complicare la vita, è come se non ci fosse mai un punto di riferimento. Siamo un’entità aperta, a questo giro Clap! Clap! è stato a tutti gli effetti un Casino Royale e assieme a lui è salito a bordo un gruppo di creativi. I ragazzi di Asian Fake sono stati a tutti gli effetti membri di questo progetto. Io faccio la supervisione, più che essere un bravo musicista penso di essere un project leader che questa cosa è riuscito a tenerla bene o male sempre sul pezzo, magari delle volte sbagliando anche i tempi, il momento, anticipando troppo le cose. Questa volta ho la sensazione che una parte del mondo dica: cazzo, c’era anche bisogno di una roba del genere. Per cui forse abbiamo fatto il giro, siamo tornati a dove eravamo partiti con Dainamaita. Quello è il nostro background, la nostra attitudine, però non siamo insensibili a quello che succede qui e ora. Polaris è un disco che mi è piaciuto tantissimo, come emozionalità, come carica, come suono. Un disco apparentemente molto europeo, secondo alcuni il più bianco che abbiamo mai fatto, ma se vai a scavarci dentro secondo me è anche black. Fumo invece, con tutto il dub che c’è, è molto più in linea con la scena UK da cui in fondo veniamo, un po’ Gorillaz se si vuole».
In effetti se Damon Albarn è «the blackest man in London», come da scherzosa definizione del suo compare Alex James, Alioscia è l’uomo più nero di Milano, o perlomeno di Lambrate. Il suo ruolo nei Casino Royale ricorda quello di Albarn per i Gorillaz. «Faccio l’art director di questa cosa, lo sono sempre stato da quando ero il cantante scarso in confronto a quello bravo. Avevo 19 anni, però poi succedeva che il nome del gruppo era il mio, che la copertina era la mia, che i titoli erano miei eccetera. Poi a un certo punto anche ‘sto ragazzo s’era pure rotto il cazzo».

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L’accenno a Giuliano Palma apre il capitolo degli anni ’90 dei Casino Royale, pieni di soddisfazioni ma anche di momenti non facili dal punto di vista umano. E, per restare alla musica, dell’uscita di tre album classici. «Adesso per esempio sono i 30 anni di Sempre più vicini e tutti ci chiedono: perché non lo fate dal vivo? Diciamo che non ci sono i presupposti di relazione per poter fare questa roba. C’è stata una parte di storia dei Casino Royale che è stata tutto sommato rinnegata da chi ha fatto altre scelte. Io vorrei fare una sorta di talk show con delle parti live, magari suonate in acustico, a parte l’elettronica, in cui raccontare quel periodo degli anni ’90. Il contesto in cui è nato quel lavoro, che cosa si ascoltava, come siamo arrivati a fare quel disco. Anche per raccontare che noi non volevamo fare un disco così, ma ci siamo arrivati, come dire, per caso. Perché io ho scelto Ben Young grazie alle dritte che mi aveva dato Rino degli Alma. Penso che potrebbe essere più interessante rispetto all’effetto nostalgia di vederci tutti assieme sul palco. Raccontare e contestualizzare, io quella roba lì la so far bene e vorrei fare un paio di appuntamenti così».
Non si parla di reunion, non c’è da aspettarsi Alioscia e Palma di nuovo insieme su un palco. «Giuliano in quel disco ha cantato tre cose, non è che abbia dato questo grande contributo artistico. C’è da dire che è stato un album molto suonato dalle macchine. Quello che ha suonato di più in quell’album è stato Patrick, perché chiaramente è un album che nasce in studio, fatto di pianoforti, di tastiere, di bassi suonati con le tastiere, non ci sono batterie. Poi dal vivo lo suonavamo veramente ed era un po’ più rock. Eravamo un gruppo con un’attitudine da band e difatti le session sono state dure, perché il disco è stato fatto con una maniera di produrre che non era nostra: il nostro ego di musicisti è stato totalmente piallato. Vorrei raccontare anche questo, e far ascoltare i Portishead. Siamo andati in studio prima che uscisse il loro debutto, prima anche di Maxinquaye di Tricky».
Facile citare gli stessi Casino Royale dicendo che ogni stop è solo un altro start, ma anche i momenti difficili vengono riletti oggi da Alioscia alla luce dell’orgoglio per quello che ancora riesce a fare come musicista. «Se guardo il qui e ora, l’uscita di questo disco, i feedback che ci sono stati, il fatto di esserci ancora… tutto è frutto di momenti e disavventure, quindi ogni lutto, ogni scazzo, ogni divisione, ogni sofferenza alla fine ci ha portati qua. Ci sono cicatrici, ma non saprei dire quale cicatrice vorrei levarmi. Perché tutto è servito a farmi arrivare qua e sentirmi fucking proud di avere dei ventenni che lavorano a questo progetto e mi dicono: “Oh, grazie mille zio, veramente sono proprio orgoglioso”. Mi piace un casino, ne sono fiero, ma più di così io che cazzo devo chiedere alla musica?».
«Sicuramente quello dopo CRX è stato un momento doloroso. Giuliano e Patrick sono andati a comprare le sigarette. Io avevo investito tutto su quella cosa, stavo nella casa occupata in Garigliano, si cominciava a parlare dello sgombero, aspettavo un figlio. Mi è mancata la terra sotto i piedi. È stato un momento veramente difficile. Però la storia di questo progetto è una bellissima storia, e questa cosa qua pialla tutti i momenti di difficoltà e di dolore che ci sono stati, le amicizie compromesse, i legami forti che non ci sono più. Ci si molla tra marito e moglie quando si hanno anche dei figli, ci si può mollare anche con la band. Poi c’è sempre questa cosa: fino a un certo punto della vita siamo tutti parte di una gang, di una banda, di un flusso, apparteniamo a qualcosa. Poi si diventa grandi, ognuno sposa qualcuno che lo influenza in un certo modo, tutti rivendicano le proprie origini: chi è più borghese, chi è più intellettuale, chi non ha voglia di rompersi il cazzo ma vuole fare dei soldi. È un po’ la storia di tutte le band, capito? È anche vero che… non dico che chi la dura la vince, però penso di essere stato la persona più devota a questo progetto. Per cui io non è che ho fatto fuori gli altri, sono gli altri che hanno mollato, magari non avevano più voglia di, come dire, di mettersi in gioco in questa maniera anche un po’ autolesionista».
I Casino Royale però sono una band in cui si può anche tornare, Patrick Benifei ne è un esempio. «Perché alla fine lo zio Alioscia apparecchia la tavola per tutti» scherza prima di mettere in chiaro, se mai ce ne fosse bisogno, che è lui che comanda ma è anche lui che si sbatte più di tutti: «I am the fucking chief commander, yes I am. Se la macchina è abbandonata, sono io che rigonfio le ruote, metto la benza e riaccendo tutto, però devo guidare io. Devo dire che a questo giro ho delegato tantissimo e sono contento: mi sono reso conto che non è vero che ho la mania del controllo. Io do una direzione».