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“Parklife” è il livello di Tetris perfetto dei Blur

Damon Albarn e i suoi, freschi della release di un 10'' con quattro brani inediti registrati allora alla BBC, 25 anni fa hanno firmato l'opera britpop definitiva, in cui si incastrano elementi di ogni angolo della cultura popolare

I Blur del 1994 me li immagino un po’ come dei geek sbarbatelli e fighetti, impegnati a fare record su record a Tetris prendendosi ovazioni, stima e ammirazione da parte dei loro compagni di scuola – in un mondo utopistico in cui essere fenomeni di Tetris apre le porte della realizzazione personale, s’intende. Insomma, alla stregua del ragazzino-prodigio campione di videogame di The Wizard, film sgangherato del 1989 in realtà product placement di Nintendo – e quindi, a suo modo, abbastanza utopistico. Perlomeno, comunque, così mi immagino i Blur di 25 anni fa, quelli che danno vita all’album Parklife. Per celebrarne l’anniversario (che in realtà è il 25 aprile) la band ha pubblicato qualche giorno fa un 10” con quattro brani live registrati durante una session di allora alla BBC, ricominciando anche a vendere magliette dell’epoca, gadget vintage e tutto il resto che immaginate. Ci sta, ma torniamo al momento dell’uscita.

E chiariamo: i Blur del 1994 – quelli, insomma, che “giocano a Tetris” – non sono le falene in cerca di luce degli album precedenti – dove anche il bel Modern life is rubbish (1993) aveva comunque un sapore acerbo – e nemmeno i fanti esploratori di 13 (1999). Sono un gruppo maturo e con un’identità (percepita, ed effettiva) definita, ma ancora su binari canonici: alfieri de facto del britpop, un genere che di suo ha inventato poco, almeno prima che loro stessi ne distruggessero a picconate l’estetica nel 1997. Ecco, diciamo che Parklife è uno dei dischi britpop per eccellenza, probabilmente il primo, vero motore del movimento, oltre che un lavoro pop in senso lato: un Tetris, appunto, in cui finiscono a incastrarsi elementi appartenenti a ogni angolo della cultura popolare del ’94, da MTV ai sentimentalismi di fine millennio, dai riff iconici ai motivetti divora-classifiche. Questa è la sua natura, e la sua forza iconica.

Per comprendere davvero a cosa ci riferivamo prima con “identità percepita”, però, bisogna contestualizzare. E quindi, se parliamo di britpop, citare gli Oasis, essenziali negli schieramenti (nel 1994 non del tutto definiti, in realtà) della scena: le due band – che presto avrebbero monopolizzato il tutto – erano agli antipodi, là dove i Gallagher rappresentavano la faccia più street, proletaria e inizialmente alternative del Regno Unito, mentre i Blur quella borghese, cool e aggraziata – nell’estetica e non nel pubblico di riferimento, modaiolo in entrambi i casi. La battaglia del 1995 non era neanche ai vagiti, ma l’aria intorno ai Nostri era la stessa dell’anno dopo: un po’ saccenti, vagamente colti ma comunque popolari, con un Damon Albarn bellissimo e di buona famiglia e un Graham Coxon (lui sì) parecchio geek. Il primo stava coi piedi piantati nel pop, il secondo guardava oltre quei confini. E fino al 1997 l’avrebbe avuta vinta Albarn.

Ma dietro la sua faccia pulita si nascondeva, comunque, una trappola: Parklife prende, sì, brandelli di cultura mainstream e li mette insieme come un Tetris, ma per distruggerli o – dove non è proprio possibile – almeno per riderne. Le sue melodie danzereccie e gli arrangiamenti eccentrici (fra chitarroni e fiati) chiamano una spensieratezza di plastica: la stessa che la band ravvisava nel Regno Unito di allora, nei Girls and boys dalle vacanze al mare pilotate, a cui dedicheranno un ballo da spiaggia che sarà il primo grande successo del disco, ma anche una presa in giro degli stessi che lo porteranno così in alto. E vale lo stesso – alla fine – anche per la miseria televisiva di End of the century (con un testo che è un gioiello d’ironia), per il pop incallito e saputello di Tracy Jacks e, soprattutto, per la title-track, un attacco scorrettissimo al salutismo spinto forte di uno dei riff più iconici degli anni Novanta.

Insomma l’idea di fondo è semplice: distruggere, sintetizzare e assemblare angoli lontani (i riferimenti in ballo sono tantissimi, e diversi) della cultura mainstream dell’epoca per scoprirne limiti e paradossi, mantenendo sempre la faccia pulita da popstar. E i pezzi del Tetris, in questo senso, cadono dal cielo in maniera proporzionale alla voglia di afferrarli: la schizofrenia alt-rock di Bank Holiday, il vago country lungo una domenica pomeriggio di Badhead, il giocattolo frivolo di London Loves, quella To the end che è una ballata con tutti i crismi e la faccia da schiaffi, The debt collector e la sua fanfara svuotata di significato. Il re è nudo, insomma.

Parklife – dicevamo – fu il primo, grande successo dei Blur: grazie alla sua natura sfacciatamente mainstream, è vero, ma per l’intelligenza e l’ironia con cui venne composto rimane tutt’ora una sorta di contro-manifesto degli anni Novanta dei rotocalchi. E tutt’ora rappresenta nella maniera più nitida l’anima geek, giovanile e solo apparentemente spensierata della band, traino di tutto il brit-pop al pari del coetaneo-classicone Definitely maybe, di natura però ben diversa (e autoreferenziale) di questo Tetris burlone.

E come un Tetris vero e proprio, continueranno a piovere pezzi fino alla fine: il disco si chiude con la ballata colossal di This is a low, che imbeccherà la summa voluta e cercata per tutto l’album, fra tradizione ingessata e freschezza geek. Il brano sarà l’ultima barra di questo puzzle, quella lunga da quattro, che lo risolverà e ne volatilizzerà gli elementi. Game, set, match: l’inganno del pop è smascherato, e siamo già nel Duemila.

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