Ozzy ci ha insegnato anche a dire addio | Rolling Stone Italia
Back to the Beginning

Ozzy ci ha insegnato anche a dire addio

Pensieri ex post di uno che era al concerto di Birmingham: l’assenza di retorica, la fragilità che non chiede compassione ma ascolto, la capacità di aggregazione. Che bello finire non con un assolo, ma con un coro

Ozzy ci ha insegnato anche a dire addio

Ozzy Osbourne

Foto: Dia Dipasupil/Getty Images

Poco meno di tre settimane fa Ozzy Osbourne saliva su un palco per l’ultima volta. Lo sapevo, era stato annunciato come il concerto d’addio, ma non potevo immaginare cosa avrebbe significato oggi. Ero lì, tra il pubblico, ma il punto non è questo. Il punto è che da qualunque distanza lo si è vissuto quell’evento ha parlato a tutti con la stessa intensità. Ora che Ozzy non c’è più, Back to the Beginning non rappresenta più “solo” l’ultima apparizione pubblica di una delle figure più importanti del rock, ma una sorta di documento definitivo. Un testamento in musica messo in scena con lucidità e una certa dose di disarmo, quasi intimo, in contrasto con tutto ciò che la carriera di Osbourne ha rappresentato a livello iconico.

Back to the Beginning nasceva come celebrazione: della storia, dei Black Sabbath, dell’estetica che Ozzy ha incarnato per mezzo secolo. Ripensare a quella giornata oggi restituisce anche un altro senso. Quello che abbiamo vissuto – dal vivo, in streaming o tramite spezzoni sui social – non è stato un semplice omaggio, ma una chiusura pensata con consapevolezza. A partire da come Ozzy è entrato in scena: su una sedia addobbata a trono, senza fingere di avere la forza che non aveva. Nessun bisogno di mostrarsi come un eroe. Solo la verità del corpo, della voce che c’era ancora, graffiata e solida, e di un uomo malato che a 76 anni ha scelto di esporsi così com’era.

Ha aperto il set con alcuni brani della carriera solista. Cinque canzoni, tra cui Mama, I’m Coming Home. È stato quello, forse, il momento più emotivo della serata. Tutto lo stadio ha capito, trattenere le lacrime è stato difficile. Quel “ritorno a casa” risuonava come un commiato pieno di quiete, e con il senno di poi, carico un significato che oggi è difficile ignorare. Poi il silenzio. Una pausa lunga, colma di incertezza. Fino al ritorno sul palco con i Sabbath: War Pigs, N.I.B., Iron Man, Paranoid. Quattro brani, la struttura portante di un genere intero. Essenziali, misurati, senza sovrastrutture. E anche qui, nessun bisogno di retorica: solo il ritorno a un’origine condivisa, al suono che ha cambiato tutto.

Quello che oggi colpisce è il modo in cui Ozzy ha scelto di chiudere. Non con un assolo, non con un addio urlato, ma con un evento corale, quasi orizzontale: artisti di epoche diverse che si alternavano sul palco, si mischiavano, come mai successo prima d’ora. Nessun ego al centro.
 Era un rituale collettivo. Non un monumento.

È un aspetto forse meno raccontato della figura di Ozzy: la sua capacità di essere punto di connessione. Negli anni ’70 è stato il volto inquieto dei Sabbath, cantava di tenebre e apocalisse con lo spirito di chi stava ancora cercando un equilibrio. Negli anni ’80 si è reinventato, costruendo una carriera solista capace di reggere il confronto con il passato e lanciando talenti leggendari. Negli anni ’90 e 2000 ha messo in piedi con la moglie l’Ozzfest, un festival che ha saputo mescolare generazioni, accogliendo il nu metal senza pregiudizi, portando Slipknot, System of a Down, Korn su palchi condivisi con leggende storiche. E poi negli anni Duemila quando è riuscito a fare qualcosa di unico: ha messo in connessione due mondi che sembravano non parlarsi, quello patinato, iper-televisivo dell’era MTV e l’universo ruvido e identitario del metal. Ha fatto da ponte tra chi era cresciuto nei moshpit e chi passava i pomeriggi con la tv accesa su MTV. E lo ha fatto senza chiedere a nessuno di cambiare linguaggio.

Con Back to the Beginning ha fatto qualcosa di simile: ha rimesso tutti sullo stesso piano, ha chiuso il cerchio. A completare il gesto c’è una scelta concreta: tutti i proventi dell’evento sono stati devoluti in beneficenza, un dettaglio che oggi appare significativo non tanto come atto di filantropia, quanto come estensione del tratto umano che Ozzy ha sempre tenuto sullo sfondo. Dietro la maschera, spesso iper-caricaturale, quasi da cartone animato, c’era un uomo sopravvissuto a sé stesso. E quel gesto, così poco spettacolare, è forse il suo modo più autentico di salutarci.

Rivedere ora le immagini del backstage – abbracci con Sharon, con i figli, le foto con musicisti di tutte le generazioni – restituisce la misura di un’eredità. Non solo musicale, ma culturale. Ozzy è stato un personaggio, ma anche una figura di riferimento. Una specie di fratello maggiore del rock: vulnerabile, fuori controllo, eppure sempre capace di rientrare nella stanza e farsi ascoltare. «Grazie per una vita che mai avrei pensato di fare» ha detto verso fine concerto, quasi sottovoce. Ora suona come una sintesi perfetta. Gratitudine, lucidità e la volontà di non mitizzarsi troppo.

In quell’ultimo concerto è emersa con una chiarezza mai vista prima la parte più umana di Ozzy. Una parte fragile, ironica, generosa che ha sempre convissuto con il personaggio, ma che stavolta è venuta a galla senza filtri, senza bisogno di spettacolo. Non era più solo l’icona sopra le righe o il Madman indomabile, ma un uomo che cantava per chi aveva amato e lo aveva amato. Per la famiglia, gli amici, i fan. La voce graffiata, la postura spezzata, i sorrisi sinceri: ogni dettaglio parlava di una fragilità che non chiedeva compassione, ma ascolto.

Ozzy ha sempre avuto un dono: quello di tenere le persone insieme, di farsi collante, di rendere inclusivo anche un genere nato per essere di rottura. E quella sera, con lucidità e tenerezza, ha usato quel dono per celebrare la vita. Non la sua, ma quella di tutti noi che, per un’ora o per cinquant’anni, abbiamo cantato con lui. Ozzy non ha semplicemente detto addio: ha riscritto il modo in cui una rockstar può congedarsi. E oggi, più che mancarci, ci accompagna. Come fa una leggenda quando smette di essere presente e diventa parte della storia.

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