Quattro giorni fa gli account social ufficiali dello Stato di Israele hanno smesso di pubblicare post sugli ostaggi in mano ad Hamas, sui missili degli Houthi, sui tunnel di Gaza, sui civili palestinesi usati come scudi umani. Con la sola eccezione della testimonianza di Eli Sharabi, tenuto in ostaggio da Hamas per 491 giorni, a partire da giovedì 15 maggio tutti i post sono stati dedicati alla promozione di Yuval Raphael, la concorrente di Israele all’Eurovision Song Contest 2025.
Vedere sull’account Instagram di uno Stato in guerra 28 post di fila o quasi con la faccia d’una cantante pop, il video di New Day Will Rise e appelli al televoto ha qualcosa di surreale, ma è anche significativo dell’impegno profuso da Israele nella guerra pop dell’Eurovision. Lo si era capito dalla scelta della rappresentante nazionale. In un periodo di continui appelli al boicottaggio e di critiche mai così acute per le stragi impunite a Gaza, la cantante che si è esibita a Basilea è una sopravvissuta all’attacco del 7 ottobre 2023 di Hamas al Nova Festival. È stata selezionata tramite un concorso e quindi teoricamente non è stata scelta dall’alto, certo non può sfuggire la natura simbolica della sua presenza. Dal punto di vista israeliano è allo stesso tempo un promemoria delle responsabilità di Hamas e un modo per depotenziare gli attacchi, poi arrivati puntualmente, diretti alla propria concorrente: puoi davvero criticare una che si è salvata da una strage nascondendosi sotto i cadaveri dei suoi amici?
Come scrive Anat Kamm su Haaretz, Eurovision ha sempre rappresentato la vetrina in cui Israele presenta il modo in cui vuole vuole che il mondo lo veda, non come effettivamente è o è stato. È allora essenziale presentarsi in modo virtuoso e appellarsi alla mobilitazione. L’Operazione Eurovision non si è evidentemente limitata a una campagna su X e Instagram. Ci sono stati altri appelli a votare per Israele, come fanno intendere certi inviti via WhatsApp circolati sui social. Alla fine Raphael è stata la più votata dal pubblico sia nella semifinale a cui ha partecipato, sia nella finale. Sabato i 297 punti derivanti dai voti popolari che le sono stati assegnati sono andati a sommarsi ai 60 punti delle giurie nazionali, spingendola fino al secondo posto nella classifica generale. Israele ha ricevuto il massimo dei voti popolari (12 punti) da Australia, Azerbaijan, Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito e dal resto del mondo, che valeva come un singolo Paese. Nella finale il televoto degli italiani ha posizionato Israele al terzo posto, dietro a San Marino (prima) e Albania.
Molti si sono domandati come sia possibile che «il Paese più odiato al mondo», come scrive qualcuno, sia anche il più votato. Una ipotesi ha a che fare determinazione degli ebrei e delle loro comunità sparse per il mondo nel votare Israele, una dimostrazione di coesione, un’adesione all’idea di Patria degli ebrei anche da parte chi non la abita, una difesa del diritto a esistere di Israele. È assai probabile che nel tentativo di sostenere Israele abbia votato anche gente che non ha alcun interesse nell’Eurovision e magari non ha neppure ascoltato New Day Will Rise. Nelle elezioni politiche e nelle gare canore televisive i più organizzati e motivati sono avvantaggiati.
Chi difende Israele ha tirato in ballo la distanza tra élite e popolo, in questo caso la distanza tra i gruppi di pressione anti-Israele che hanno fatto un gran rumore e i reali sentimenti dei 100 milioni di telespettatori. Ad esempio, l’emittente spagnola ha introdotto la trasmissione con la scritta “Il silenzio non è un’opzione quando sono in gioco i diritti umani. Pace e giustizia per la Palestina” e il premier Sanchez ha detto che anche Israele come la Russia non dovrebbe partecipare, eppure il pubblico spagnolo ha dato il massimo dei voti proprio a New Day Will Rise. Chi attacca Israele parla invece di brogli come unica spiegazione possibile. Qualcuno ha detto di avere votato nella prima semifinale per la Croazia e di avere ricevuto una risposta automatica in cui lo si ringraziava per avere votato Israele. Quella sera però Raphael non era in gara e gli organizzatori assicurano che tutti i voti sono stati assegnati correttamente e che il problema è nato dal fatto che a Croazia e Israele è stato assegnato lo stesso numero, il 14, ma in due diverse semifinali. Un disguido tecnico senza conseguenze.
Alla mobilitazione digitale in difesa di Israele sul campo di battaglia pop s’è sommato con tutta probabilità un meccanismo piuttosto semplice: chi era molto determinato a votare Rapahel lo ha fatto, chi era molto determinato a non votarla o non si è espresso o ha disperso il voto tra vari concorrenti. E questo è avvenuto in un anno in cui il voto non si è come a volte accade concentrato su pochi cantanti, rendendo ancora più potenti dal punto di vista della posizione in classifica le concentrazioni di voto. Qualcosa di simile era accaduto l’anno scorso con Eden Golan e la sua Hurricane, molto votata dal pubblico a casa.
Il secondo posto di Raphael, per il quale molti hanno esultato da una parte («il mondo ci ama») e dell’altra («in fondo non ha vinto»), ha forse risparmiato alla rappresentanza di Israele una ondata di critiche ancora più feroci. Come nota Joshua Davidovich sul Times of Israel, la vittoria avrebbe scatenato altri conflitti e costretto a «fingere che tutto vada bene mentre gli ostaggi continuano a languire nei tunnel di Gaza. Ci sono molte vittorie che Israele potrebbe sfruttare in questo momento, ma l’Eurovision non è una di queste». Vincere a Basilea, per inciso la città dove nel 1897 si tenne il primo congresso dell’Organizzazione sionista mondiale di Theodor Herzl, sarebbe stato troppo, la dimostrazione della distanza tra quello che il governo di Israele sta facendo a Gaza e la rappresentazione che il Paese dà di sé all’estero.
Per molti è troppo anche la sola presenza di Israele all’Eurovision e come ogni anno ci sono stati appelli affinché fosse escluso. Alla manifestazione partecipano i Paesi che fanno parte dell’Unione Europea di Radiodiffusione (la sigla in inglese è EBU) e l’esclusione non riguarda solo il Paese di per sé, ma anche la relativa rete radiotelevisiva. Come nota il Guardian, la Russia è stata esclusa dopo l’invasione dell’Ucraina anche perché secondo EBU la tv di Stato non avrebbe fornito una copertura sufficientemente equilibrata degli eventi. È altrettanto vero che la mobilitazione di alcuni Stati membri come Islanda, Finlandia, Norvegia e Paesi Bassi ha contribuito all’esclusione della Russia.
Nulla di tutto ciò è successo con Israele e con Kan, la radiotelevsione di Stato. Potrebbe cambiare qualcosa per via del progetto di privatizzazione che è stato avanzato da Shlomo Karhi, Ministro delle comunicazioni. Ne sono state presentate varie versioni tutte volte a ridimensionare un broadcaster che viene considerato non sufficientemente allineato col governo. La più radicale prevede che Kan sia messa in vendita e che, nel caso non trovi un acquirente nel giro di due anni, venga chiusa. Se Israele si trovasse senza radiotelevisione di Stato, uscirebbe dall’EBU e quindi dalla competizione. Non succederà, ma che ironia: l’alleato inaspettato di chi vorrebbe l’esclusione di Israele da Eurovision potrebbe essere il governo Netanyahu.