Rolling Stone Italia

Ode a Christine McVie, l’adulta nella stanza

In quella miscela di sangue e alcol che erano i Fleetwood Mac, lei rappresentava un punto fermo. E che canzoni scriveva, un misto di serenità e tormento. Profilo d'una rocker defilata, ma fondamentale

Foto: Fin Costello/Redferns/Getty Images

Christine McVie era l’unica adulta nella stanza. D’accordo, forse non era un’impresa essendo quella stanza i Fleetwood Mac, ma lei rappresentava il collante d’un gruppo di musicisti che negli ultimi cinquant’anni si sono presi e lasciati più volte. Era una presenza stabile, sensibile, coi piedi per terra in una band instabile, insensata, con la testa fra le nuvole. Era anche la tastierista che ha scritto una bella canzone dietro l’altra, la musicista a cui andavano dietro tutti quanti. Cantava come un usignolo ed era quella che sapeva come gira il mondo.

Ecco perché tutti la piangono dopo avere appreso la notizia della sua morte improvvisa. L’ha detto lei qualche mese fa Andy Greene di Rolling Stone: «Ero una specie di Madre Teresa che cercava di andare d’accordo con tutti e provava a mantenere un’atmosfera armoniosa e rilassata». E ammetteva che, «pur essendo una persona piuttosto pacifica, quella turbolenza mi piaceva. Si dice che litigassimo tantissimo, in realtà passavamo un sacco di tempo a ridere».

È lo spirito che emerge anche dalle sue canzoni, che sono pacate e allo stesso tempo tormentate. E ne ha scritti di classici dei Mac basati sulla sua voce roca e sul suo pianoforte: Say You Love Me, Over My Head, Oh Daddy, Little Lies, Why. Cantava come un’adulta romantica e disillusa, una donna che si è scottata e che sa bene che cosa deve fare, eppure non riesce a evitare di cadere e ricadere. Sentire queste canzoni alla radio era scioccante e col tempo sono cresciute.

Il demo della sua ballata tratta da Tusk del 1979 Never Make Me Cry è uno dei suoi grandi pezzi spaccacuore ed è la prima canzone che ho messo su dopo aver saputo della sua morte. “Vai pure e fa’ quel che vuoi”, dice a un amante. Però promette: “Non riuscirai mai a farmi piangere”. La prima volta che lo dice sembra sprezzante e vincente. Una volta giunti alla fine, la fa sembrare la parte più triste della faccenda.

McVie era parte integrante del drammone dei Mac, specialmente all’epoca di Rumours. Aveva lasciato il marito, nonché bassista del gruppo John McVie. S’era messa col direttore delle luci, spostando l’anello nuziale su un altro dito. Non s’era limitata a scrivere You Make Lovin’ Fun su quant’era bello fare sesso col nuovo partner. No, ha fatto sì che a suonarla per i successivi 45 anni fosse proprio il suo ex – quando si dice una tosta (e lui l’ha suonata sempre brillantemente, altra mossa tosta). Il verso più spassoso fa “Yooo-hoo-hoo, hai reso l’amore divertente e non devo dirtelo, ma ci sei solo tu”. Come no, Christine: fedeltà, amore vero, certo, che lo diciamo a fare. Come ha detto John qualche anno dopo, «le uniche due persone di questa band che non hanno scopato assieme siamo io e Lindsey».

La sezione tutta per Stevie Nicks e Lindsey Buckingham era fra i momenti migliori degli ultimi tour della formazione a cinque dei Fleetwood Mac. Ogni sera, quando arrivava quel momento Christine si sedeva al piano al fianco di John, lontana dalle luci dei riflettori, e con lui chiacchierava e ridacchiava. Si stringevano come vecchi amici, ridevano di cose loro. Ed era commovente da vedere, una cosa dolce e pacata in mezzo a tutto quello sturm und drang. Lei aveva il potere di tirar fuori quel tipo di calore dalle persone. Sì, anche in quelle persone. 

Con Stevie aveva un’alchimia tutta loro: erano due autrici e cantanti nel mondo incredibilmente maschile del rock nella Los Angeles degli anni ’70. Secondo Nicks, era stata Christine a renderlo possibile. Me l’ha detto nel 2019: «Il giorno in cui sono entrata nei Fleetwood Mac ho fatto un patto con Christine. Ci siamo dette: “Non ci faremo trattare da cittadine di serie B, non ci faremo escludere dai circoli frequentati da rockstar folli e geniali”. Ci siamo ripromesse che avremmo fatto di tutto per le donne. Che avremmo lottato per avere che quel volevamo. Che le nostre canzoni sarebbero state buone tanto quanto quelle degli uomini. E così è stato».

Il loro era un rapporto di sorellanza, con Christine nella parte della maggiore che sorride con indulgenza pensando alla minore più impulsiva e svagata. Christine McVie stava a Stevie Nicks come Jane Russell stava a Marilyn Monroe. Ed è questa sorellanza che ha reso i Mac diversi dai loro pari che bazzicavano l’Hotel California. «Sarebbe stata tutt’altra storia se fossi stata l’unica donna del gruppo», ha detto Nicks. «All’inizio la gente diceva: ma siamo sicuri che Christine voglia un’altra ragazza nella band? E io: lo spero proprio, mi auguro di piacerle. E quando ci siamo incontrate le sono piaciuta. Siamo uscite a mangiare messicano, abbiamo riso, ci siamo guardate e ci siamo dette: vedrai che sarà grandioso».

Potrebbe essere l’ultima occasione in cui qualcuno del gruppo ha detto una cosa simile. I Mac erano costantemente travolti da un uragano di emozioni, di tradimenti, di eccessi. Un misto di sangue e alcol, come ha detto McVie. «Il rider di quand’eravamo in studio pareva l’elenco del telefono. Cibo esotico, casse di champagne. E doveva essere il meglio del meglio, indipendentemente del costo. Che stupidaggine, ma davvero. Qualcuno ha detto che coi soldi che abbiamo speso noi per lo champagne in una sera, altri ci avrebbero fatto un album intero. E probabilmente è vero».

Nei primi anni ’60 era Christine Perfect, raro caso di strumentista donna nella scena blues inglese. Ha trovato la sua voce suonando il piano coi Chicken Shack. Nel 1970 s’è sposata con McVie diventando l’autrice principale dei Fleetwood Mac e una superstar quando nel gruppo è entrato tizio di nome Lindsey Buckingham, che ha insistito per portare dentro anche la sua ragazza. Alla prima prova hanno fatto Say You Love Me. «Quand’ho sentito il suono incredibile delle nostre tre voci mi sono detta: ma sono davvero io che canto? Non potevo credere all’effetto creato dalle armonie vocali. Da pelle d’oca».

All’epoca di Tusk ha stretto una relazione con il batterista dei Beach Boys, Dennis Wilson, che ha portato la sua vita a un livello ancora più alto di caos. Pochi giorni dopo averla incontrata s’è trasferito nella villa di lei spendendo i suoi soldi, bevendo la sua vodka. Wilson ha poi sposato (e abbandonato) la figlia diciannovenne di Mike Love. Christine l’ha cantato nel pezzo che chiude Mirage, Wish You Were Here. Un anno dopo lui è affogato. «Era un matto», ha detto quest’anno a Rolling.

È riuscita a trasformare le scorie sessuali e narcotiche in classici. Think About Me di fine anni ’70 è la sua hit più rock e l’ha fatta entrare con quell’aria soul e allo stesso tempo cinica nel decennio dell’individualismo: “Non ti tengo fermo, forse è per questo che sei in giro”. Riusciva a farla sembrare una cosa romantica. Nel 1984 ha fatto un disco solista modesto i cui pezzi migliori sono contenuti nell’antologia Songbird (A Solo Collection). Ma non ha sbagliato nulla nell’ultimo grande disco dei Mac, Tango in the Night dell’87. Everywhere non ha avuto grandissimo successo all’epoca, ma ha goduto di un revival grazie ai Millennial. In Little Lies, che è il suo successo col gruppo più limpido di sempre, sembra rassegnata a venire tradita, a subire menzogne, a essere trattata come spazzatura. Poi però arriva quel ritornello dove si possono sentire tutti i cantanti della band, con la sua voce che si scontra con l’amaro “Tell me, tell me liiiies” di Lindsey. 

La vita da rockstar l’ha consumata. Come ha detto Nicks, «la reunion di The Dance del 1997 è durata appena un anno. Poi Christine è sbroccata: “Non ce la faccio più a fare questa vita”, ha detto, “mi vengono gli attacchi di panico”. Ha venduto la casa, l’auto, il pianoforte ed è tornata in Inghilterra. Non s’è fatta più sentire». Gli era venuta paura di volare ed è comprensibile considerato il numero di ore passate su velivoli noleggiati da Mick Fleetwood. «La vita nomade m’aveva stufata», ha detto nel 2014. «M’era venuto il desiderio illusorio di fare la vita della signora di campagna, in sostanza starmene lì con la mia Range Rover e i miei cani a cucinare biscotti o qualcosa del genere. Non so cosa mi passasse per la testa. Desideravo una vita ordinaria, casalinga, con delle radici».

Quand’è tornata nel tour del 2015 l’ha fatto in modo trionfante. E nel 2017 lei e Lindsey hanno pubblicato uno strano disco assieme, Bucklingham McVie, dentro cui c’erano quattro quinti dei Mac. Doveva essere la grande reunion della band, Nicks l’ha fatta saltare. Conteneva On with the Show, tema del tour della reunion chiamato appunto On with the Show pubblicato due anni dopo la fine della tournée, il tipico atto di autosabotaggio dei Mac. Lindsey è stato cacciato platealmente, lei ha continuato a splendere nel tour estivo negli stadi del 2019, il suo ultimo con la band.

Non stupisce che McVie sia stata tanto riservata sulla malattia che l’ha portata alla morte. Parlando con Rolling aveva rivelato di non essere più in contatto con gli altri e che in buona sostanza il gruppo s’era di nuovo separato e di avere problemi con la schiena. In quanto ai suoi progetti, ne rivelava uno: «Restare viva: l’anno prossimo compirò 80 anni. Spero di avere ancora qualche anno davanti a me, vedremo cosa succede».

Non sapremo mai quel che sarebbe accaduto. Ma Christine McVie ha lasciato dietro di sé tante di quelle grandi canzoni – alcune baciate da un successo strepitoso, altre rimaste oscure – che ci vogliono anni di ascolti per apprezzarne la grandezza. Sono canzoni che le persone non smetteranno mai di cantare quando sono sole, a notte fonda, immalinconite. Christine McVie sapeva come fotografare quei momenti.

Tradotto da Rolling Stone US.

Iscriviti