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Non è vero che non ci sono più le copertine dei dischi di una volta

Dal vinile al CD allo streaming. Compressioni, dilatazioni e nuove strategie per conquistare un’attenzione sempre più labile. Perché le dimensioni contano, ma fino a un certo punto

Foto: Ryan Howerter/Unsplash

Quanto tempo occorre per un colpo di fulmine? A leggere il Journal of Neuroscience sarebbe questione di 0,2 secondi: uno sguardo e via, una scintilla accesa da poche informazioni spiccatamente fisiche. Scegliere un libro o un album a partire dalla copertina, in fondo, non è un processo tanto diverso. Nonostante l’evoluzione di supporti e dimensioni, nelle strategie dell’attenzione che governano la seduzione discografica l’immagine di copertina ambisce tuttora a una triplice funzione: pubblicizzare il prodotto, come fa la sovraccoperta di un libro o la locandina di un film; accompagnarne la fruizione, fornendo dati che integrano ed espandono l’esperienza di ascolto; diventare, infine, un oggetto culturale a sé.

«Eh, ma non ci sono più le copertine di una volta», borbotta il nostalgico. Tutta colpa dello streaming, aggiunge, biasimando una successione ancor più rapida e irreversibile di quella tra vinile e compact disc. Certo, gli effetti della musica liquida sulla componente grafica sono inconfutabili, e qui le dimensioni contano eccome. Ma valutare gli artwork musicali contemporanei come mero frutto di compressioni, pixel e velocità di connessione sarebbe come dire che i dipinti olandesi del Seicento erano di taglia ridotta solo per spostarsi tra i canali sulle piccole vlieboot.

Parlando di compressioni, in realtà, sono altrettanto rilevanti quelle che hanno colpito le etichette – il cui ruolo nella distribuzione è fortemente ridimensionato dal web – e soprattutto le royalties dei musicisti, sempre meno inclini a investire nel packaging e sempre più dipendenti da concerti e merchandising. Il che impone a sua volta una politica dell’immagine di massima coerenza ed efficacia, perché in un’epoca affetta da disturbo dell’attenzione endemico anche il tempo a disposizione per il colpo di fulmine si comprime.

Al contrario della concorrenza, aumentata a dismisura: se il vecchio 33 giri duellava solo con i suoi pari, l’avatar visivo della musica contemporanea deve competere con pubblicità, meme, gif, video di gattini. È tempo di invertire il trend quindi, dilatando nuovamente le spese per l’immagine. Al centro di tutto c’è pur sempre la musica, si dirà; ma una copertina scialba dissuade ancor prima dell’ascolto.

Sarà davvero perché «non ci sono più le copertine di una volta»? E se così è, cosa le rendeva diverse da quelle di oggi? E come saranno quelle di domani?

Mentre scorro i 100 migliori album del 2022 selezionati da Rolling Stone US, provo a soffermarmi sulle immagini, annotando alcune caratteristiche strutturali. Poi faccio lo stesso rileggendo la classifica di 25 anni fa, 1997, piena epoca d’oro del CD. Infine, ancor più a ritroso, fino al 1972. Un semplice confronto, per andare oltre gli 0,2 secondi del colpo di fulmine e bypassare la retorica nostalgico-vinilica, misurando empiricamente alcune differenze basilari occorse nell’ultimo mezzo secolo.

Una prima idea è contare le copertine con i ritratti degli interpreti. Una soluzione standard, che unisce da sempre identità e identificazione, tanto da influenzare l’ascolto attraverso l’umore espresso dallo sguardo dell’artista. È quanto ci ricordano i volti plurimi del Bill Withers di Still Bill, l’intenso primo piano di Paul Simon per il suo album eponimo, lo Stevie Wonder meditabondo di Talking Book e quello granitico di Music of My Mind. Esempi del 1972, esiti fortunati di una scelta ricorrente nel 54% dei dischi selezionati. Se 25 anni dopo si poteva registrare una leggera flessione al 47% – che non basta a cancellare dalla nostra retina le monocromatiche fisionomie di Nick Cave e Ben Harper, né il variopinto Bowie di spalle su Earthling – l’anno appena concluso attesta una decisa risalita: il 60% dei best 100 affida la front cover ai ritratti dei performer. Già iconici quelli di FKA twigs e The Weeknd, la Beyoncé preraffaellita ispirata dalla Lady Godiva di John Collier e la sacra famiglia di Kendrick Lamar. Con un bel bianco e nero l’effetto è ancor più netto: ne è convinto un artista su dieci, percentuale costante nel corso del tempo.

E quando il volto diventa icona a che serve scrivere il nome in copertina? I Beatles di Abbey Road l’avevano già constatato, ma il loro test di brand consciousness era rimasto piuttosto isolato, se nel 1972 il 100% dei dischi migliori recava impresso nome e titolo. Nel 1997 l’esperimento sarebbe stato ripetuto da James Taylor, Janet Jackson e Björk, il cui Homogenic, a rivederlo oggi, sembra un prologo dell’ultimo Fossora.

Da qualche parte bisognerà pur risparmiare pixel, in vista del posizionamento su Spotify. Ci penserà la piattaforma a fornire le informazioni mancanti. Non stupisce, quindi, che le recenti copertine si concentrino sempre più spesso sul primo piano dell’artista. Oppure su immagini altrettanto sintetiche, come quelle di NewJeans, Daddy Yankee e Willow, capaci di reggere alla prova del thumbnail: alternativa cui oggi si indirizza il 45% dei casi, contro il 35% circa del 1972 e del 1997. Non è tempo di nuovi Sgt. Pepper, insomma.

Né sorprende il ricorso alla manipolazione fotografica, cresciuto fino al 1997, quando imperversava su un terzo delle copertine, proprio come oggi. Al contrario, i dati sembrerebbero smentire – almeno da un punto di vista quantitativo – il tanto decantato ritorno dell’illustrazione grafica: siamo ancora al 25% del campione, stessa quota del 1997, mentre cinquant’anni fa si raggiungeva un lusinghiero 38%.

Ora, non è che questi numeri possano dirci tutto: ci sarebbero infinite altre variabili qualitative e stilistiche, dall’uso dei font alle dominanti cromatiche, spesso declinabili per generi: country, rap, hip hop e metal sarebbero case studies da manuale. Soprattutto, bisogna reintrodurre all’interno dell’equazione l’incognita del redivivo vinile, che porta in dote un corposo aumento della risoluzione. E degli incassi: Midnights di Taylor Swift è il primo album degli ultimi 35 anni a vendere più in formato 33 giri che in CD — l’ultimo era stato Bad di Michael Jackson — anche per merito di quelle quattro copertine differenti, le cui back cover si riuniscono a formare un orologio. «Collezionatele tutte!», aveva esortato Taylor. E chi siamo noi per deluderla?

La visualità torna a essere centrale, quindi; del resto, se un’immagine risalta sull’unghia di un pollice, figuriamoci sull’ampio involucro del disco. Nel più ci sta il meno, dice il saggio. La rinascita del vinile ci dice che, lungi dall’essere un processo necessariamente lineare, l’innovazione tecnologica permette innumerevoli ritorni. Non è solo nostalgia, né feticismo, piuttosto un paradosso dell’ereditarietà: quando il figlio rimpiazza il padre, il nonno riconquista autorità. Se ciò che manca allo streaming è la fisicità, tanto vale tornare al vinile scavalcando il CD. Lo stesso accade per la fotografia, che vive un rinascimento analogico dopo anni di macchine digitali e telefonini.

In conclusione, ciò che rende parzialmente diverse le copertine attuali non è tanto l’iconografia quanto l’iconologia, una macchina simbolica concepita non più come invito all’acquisto, ma come autentico investimento nel marchio visivo dell’artista. A essa si dovranno inesorabilmente adeguare i video, il merchandise, i concerti stessi, in breve tutto ciò che è visivo, con sempre maggior coesione. Anche perché quel che resta della nostra attenzione è preda dell’immagine più che del suono.

Quindi in un certo senso il nostalgico ha ragione: non ci sono più le copertine di una volta. Ma prima di decretare la supremazia estetica del passato, andate a riguardare Homecoming degli America (1972) o il pacchianissimo ritratto di John Fogerty su Blue Moon Swamp (1997). E dite, in tutta onestà: vi basterebbero 0,2 secondi per decidervi all’acquisto?

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