Non c’è pace senza giustizia: il caso dell’omicidio di Jam Master Jay dei Run-D.M.C. | Rolling Stone Italia
Delitti e castighi

Non c’è pace senza giustizia: il caso dell’omicidio di Jam Master Jay dei Run-D.M.C.

L’assassinio in sala di incisione nel 2002. I testimoni che non parlano. Le indagini fatte male. I responsabili condannati solo quest’anno. E non è finita... Uno dei grandi casi giudiziari hip hop raccontato da famigliari, amici e colleghi. Puoi uscire dal sottomondo, ma a volte il sottomondo ti insegue

TJ (a sinistra) e Jesse Mizell, figli di Jam Master Jay dei Run-D.M.C. Foto: Sacha Lecca per Rolling Stone US

TJ e Jesse Mizell girano per le Amsterdam Houses, le case popolari in mattoni nell’Upper West Side di Manhattan dove sono cresciuti. È una giornata di marzo insolitamente soleggiata, c’è chi gioca a basket e chi chiacchiera. Un’anziana li saluta: «Quanto tempo è passato… Come state? Come sta la mamma?». I due, che nel 2018 hanno lasciato il quartiere per trasferirsi a Los Angeles, ricambiano il saluto sorridendo. Tutto bene, rispondono.

TJ è il maggiore. Indossa una maglietta col nome della madre Terri. Su quella di Jesse c’è il volto del padre, ovvero Jam Master Jay, una delle prime superstar dell’hip hop. Portano entrambi occhiali dalla montatura spessa, simili a quelli che D.M.C. aveva 40 anni fa.

Sono passati più di 20 anni da quando il dj dei Run-D.M.C., il cui vero nome era Jason Mizell, è stato ucciso con un colpo di pistola in uno studio di registrazione a Jamaica, Queens. Era il 2002. Perché l’icona che ha introdotto l’abbigliamento streetwear Adidas nell’ambiente hip hop e i cui break hanno caratterizzato pezzi come It’s Tricky, Rock Box e Peter Piper sia stato assassinato a sangue freddo è diventato un ricorrente argomento di conversazione nell’ambiente.

«Era il cuore dei Run-D.M.C.», ci racconta Chuck D dei Public Enemy. «Aveva tutto: il look, l’atteggiamento, lo spirito della strada, la credibilità, la visione. E poi era un dj perfezionista, uno che non commetteva errori. È stato il miglior dj di sempre».

All’inizio di quest’anno sono stati condannati per l’omicidio due uomini, un amico d’infanzia e il figlioccio del dj. Secondo i federali, l’hanno fatto come ritorsione dopo essere stati tagliati fuori da un giro di droga. «La lealtà di Jay verso la comunità è in parte il motivo per cui è stato ammazzato», dice Fat Joe. «Si rifiutava di lasciare il quartiere, un po’ come Nipsey Hussle. Era leale. Jam Master Jay era uno dei migliori per il carattere e non solo».

TJ ha 33 anni. Ne aveva solo 11 quando il padre è morto. Jesse, che ha 29 anni ed è leggermente più alto del fratello, ne aveva solo 7. Sono sereni quando ne parlano, dicono che è grazie alla madre che hanno superato il lutto.

Vivevano al sesto piano di un edificio dalla facciata rossiccia. Anche la strada di sotto porta un ricordo del padre, che li accompgnava in auto fin alla porta d’ingresso «perché non voleva che girassimo a piedi nel quartiere». Anche se il dj aveva solide radici nell’amato quartiere di Hollis, nel Queens (nel video di Christmas in Hollis appare il fratellastro maggiore di TJ e Jesse, che si chiama Jason Jr), la madre Terri ha preferito far vivere i ragazzi nell’appartamento di Manhattan di proprietà della nonna, dato che sia lei che Mizell erano spesso fuori per lavoro (Jason Jr. e la sorellastra Tyra non erano reperibili per questo articolo).

Qui non c’è molto altro che ricordi il padre. Per sentirlo vicino hanno le preghiere, alcuni suoi gioielli, la sua collezione di dischi. E c’è la musica che ha fatto. «È sempre presente in qualche modo», dice Jesse. «It’s Tricky è diventata virale durante la pandemia perché era usata in un video su TikTok. In Back to Me di Kanye West il campione principale è mio padre che scratcha: “Run run, run run”. E quindi ce lo ricorda anche il singolo di successo del più grande artista del pianeta. La roba buona non muore mai».

I Run-D.M.C., circa 1985. Da sinistra, Run (Joseph Simmons), Jam Master Jay (Jason Mizell) e DMC (Darryl McDaniels). Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images

Entriamo nell’edificio dove i due posano per il fotografo che sta documentando la visita per il loro marchio Terri. Quando escono, i fratelli salutano i vecchi vicini di casa. Trovare un posto tranquillo per chiacchierare a Manhattan non è mai facile, loro si accontentano di un muretto fuori da un complesso di uffici vicino alla West Side Highway. «Io e lui abbiamo la stessa voce, sarà un casino per te capire chi ha detto cosa», dice TJ. «Abbiamo cadenze e modi di fare simili», spiega Jesse.

Chi di loro assomiglia di più al padre? TJ dice che è Jesse, Jesse dice che è TJ perché «ha uno spirito molto giovane». Jesse lo ricorda come un papà divertente. «Ovviamente poteva essere anche serio e comportarsi da padre, ma era come un fratello o un amico e questo perché aveva un’energia molto giovanile. Giocavamo ai videogiochi quando aveva quasi 30 anni. Amava fare sport, andare in bici, fare moto. Lo spirito era giovane».

I due ne parlano con orgoglio: per il suo ruolo di innovatore dell’hip hop; per la Scratch DJ Academy, scuola di musica da lui co-fondata; per il ruolo di papà (quest’ultimo è il modo in cui lo conoscevano per il 90% del tempo, quando non posava per le foto con i supplenti e i genitori dei compagni di classe, o non faceva entrare i figli nella fila vip dei parchi di divertimento). L’idea che hanno del padre viene da ricordi lontani e dai racconti della madre e degli amici di lui. Ci hanno messo anni per capire perché hanno perso il padre e per trovare pace. Quando il dolore per la morte è riaffiorato per via del processo, quest’anno, erano preparati ad affrontarlo. Nessuno dei due ha seguito da vicino il dibattito in aula, ma hanno sentito l’impatto del verdetto di colpevolezza.

«È passata una ventina d’anni», dice TJ. «Dopo così tanto tempo perdi la fiducia nel sistema giudiziario. Quindi, per una frazione di secondo, dopo il verdetto mi sono detto: bene, finalmente qualcuno è stato chiamato a rispondere. Ma, alla fine della giornata avevamo già fatto pace con questa storia. Quindi è stato cool… ma solo per un attimo».

«Abbiamo fede, è stato un processo di guarigione su cui avevamo iniziato a lavorare fin dal giorno della morte», aggiunge Jesse. «Questo non vuol dire che sia finita, ma gran parte del lutto è stato elaborato. Il verdetto ci ha ricordato che anche altri lo hanno nei loro pensieri, come noi, ma non ha necessariamente aiutato a chiudere la questione».

I fratelli parlano in modo sereno della loro infanzia. Jesse ha fumato erba per la prima volta sotto un cavalcavia qui vicino. Una volta Snoop Dogg gli ha detto che lui e Mizell avevano creato un ibrido di erba tra East Coast e West Coast. «Papà fumava l’erba migliore, così ci hanno riferito. Ci incoraggia nel nostro percorso» (gestiscono una propria attività di vendita di erba).

Il funerale di Jam Master Jay. Foto: Henny Ray Abrams/AFP/Getty Images

Subito dopo la morte di Mizell, Terri ha pensato a quali oggetti del padre avrebbero voluto  i ragazzi. Ha tenuto le pellicce e le catene d’oro. «Abbiamo diversi gioielli che sfoggiava nelle interviste e nei video per Rolling Stone e MTV», racconta Jesse. «Presente il braccialetto che indossa sul murale della Scratch DJ Academy? Ce l’ha TJ nella borsa dove tiene i gioielli». Hanno anche una collezione dei suoi dischi: quattro o cinque casse che possono contenere ognuna 200 o 400 vinili. Ci sono alcune chicche, messa assieme per lo più tra il 1993 e il 2000. «C’è roba di 50 Cent, materiale promozionale, roba di Biggie».

Terri si è trasferita coi figli in Virginia, dove li ha cresciuti coi suoi parenti. Le voci secondo cui Mizell avrebbe lasciato la famiglia in una situazione finanziaria precaria sono esagerate, assicurano i due, che sono diventati tipici ragazzi di provincia. «Sgattaiolavamo fuori di notte, prendevamo di nascosto l’auto dei genitori a 14 anni, fumavamo erba», dice Jesse. «Nuotavamo, andavamo in skate, in bici. Sapevamo che la vita sarebbe andata avanti e che saremmo stati bene. Quello che è successo è stato terribile, ma avevamo ancora l’un l’altro».

Intanto la madre teneva la barra dritta. «Ha pianto poche volte davanti a noi», racconta Jesse. «Diceva: “Se c’è un momento di tristezza e di dolore, affrontiamolo in famiglia. Non dobbiamo piangere per il New York Times. Non abbiamo bisogno di piangere di fronte alle camere della CBS. Possiamo piangere a casa”. Era una donna forte».

Hanno imparato a fare i dj grazie a YouTube. TJ ha scaricato ore di musica emo, hip hop e white reggae (come 311 e Soja). Quand’è tornato a New York, intorno al 2011, ha preso lezioni alla Scratch DJ Academy. Terri è tornata nel 2013, Jesse l’ha seguita nel 2014. «Siamo una famiglia piuttosto piccola e affiatata», dice TJ. «Non siamo in molti, ci si può contare letteralmente su una mano e mezza».

Durante il processo, i due fratelli sono rimasti spiazzati quando hanno letto che alcuni membri della famiglia di Mizell rilasciavano dichiarazioni: non li conoscevano. «Quando usano la parola famiglia, immagino che si riferiscano al ramo di nostro padre», dice TJ. Aggiunge Jesse: «Fanno parte della famiglia, ma non eravamo molto legati ai parenti di mio padre».

TJ (a sinistra) e Jesse Mizell alla Jam Master Jay Foundation for Music nel 2005. Foto: Chance Yeh/Patrick McMullan/Getty Images

Carlis Thompson, cugino di primo grado di Mizell, non ha avuto modo di conoscere i fratelli perché sono cresciuti in Virginia. Ma era molto affezionato al cugino e ha presenziato a tutte le udienze del processo. Ricorda di aver assistito in prima persona all’ascesa del dj. Lo ricorda come «l’anima della festa», quello con la personalità più esuberante del gruppo. Anche gli amici parlano della sensazione di calore che provavano quando c’era lui. «Aveva sempre un bellissimo sorriso», dice Fat Joe. «Non emanava mai vibrazioni negative. Era sempre positivo, sempre ottimista». «Incontrandolo o frequentandolo» dice DJ Hurricane, che ha fatto amicizia con Mizell alle elementari e gli è rimasto amico «non vi sembrava di avere a che fare con una superstar. Ti faceva sentire amico. Trattava tutti così».

È stato Hurricane a presentare Mizell a D.M.C. nei primi anni ’80. I Run-D.M.C. hanno conquistato le periferie e non solo con l’atmosfera delle jam a Hollis e i loro primi quattro album hanno raggiunto l’oro o il platino grazie a hit come King of Rock, It’s Like That e il duetto con gli Aerosmith Walk This Way. Erano talmente importanti da essere chiamati a esibirsi al Live Aid del 1985. Ancora oggi i rapper che lanciano marchi fashion sono influenzati dalla loro idea di considerare la moda come parte integrante della loro identità.

Mizell ha approcciato per la prima volta Terri Corley a metà degli anni ’80 in aeroporto, mentre lei stava andando a trovare il padre in Florida. «Mi ha fermata al gate e mi ha salutato», ricorda nel documentario sui Run-D.M.C. Kings from Queens. «Non lo conoscevo, si è presentato, siamo diventati amici. Una cosa tira l’altra e cinque anni dopo ci siamo sposati» (era il 1991, Corley non ha concesso un’intervista, i figli hanno detto che le dichiarazioni rilasciate nel film resteranno le uniche che farà a proposito del marito). Nel documentario, Terri racconta che una cosa era Jam Master Jay e un’altra era Jason in famiglia. «Quando tornava a casa, entrava in un luogo sicuro, dove poteva rilassarsi coi bambini».

La famiglia ha saputo dell’omicidio mentre attraversava l’Holland Tunnel che collega Manhattan al New Jersey. Stavano andando in Virginia a visitare i parenti di lei. Li ha chiamati un nipote, hanno fatto marcia indietro.

I Mizell e il mondo dell’hip hop faticano a dare un senso all’omicidio, ora come allora. «È stata la tragedia più grande che sia mai successa all’hip hop», dice Chuck D. «Il modo in cui è stata gestita è la cosa peggiore che sia mai accaduta a questa cultura e forma d’arte».

Il 27 febbraio di quest’anno, una giuria ha dichiarato Karl Jordan Jr. e Ronald Washington colpevoli dell’omicidio. Nel corso del processo durato un mese, i procuratori federali hanno delineato una versione dei fatti. Avendo bisogno di soldi, Mizell aveva preso a spacciare cocaina. Inizialmente aveva invitato Washington, un amico del quartiere, a dargli una mano. Quando un contatto di Baltimora si è rifiutato di lavorare con Washington, Mizell ha escluso l’amico dall’affare. Washington e Jordan sono quindi andati nello studio di Mizell nel Queens, dove (con il presunto aiuto di un terzo uomo, Jay Bryant, che secondo l’accusa li avrebbe fatti entrare) hanno sparato e ucciso Mizell. Entrambi gli accusati intendono fare appello. Bryant, anch’egli incriminato per l’omicidio, sarà processato nel 2026.

TJ (sinistra) e Jesse oggi. Foto: Sacha Lecca for Rolling Stone US

La copertura mediatica del processo negli Stati Uniti, in parte incentrata sul ruolo di Mizell nel presunto traffico di droga, ha lasciato perplessi TJ e Jesse. «Ho pensato che fosse una campagna diffamatoria», dice Jesse. «È solo un altro modo per l’accusa di gonfiare un caso e collegarlo alla droga. È così che i casi vengono chiusi, non interessa risolvere gli omicidi che avvengono nel quartiere».

Non può però smentire i testimoni che affermano che suo padre vendeva coca. «È la loro verità», dice Jesse. «E loro ne sanno più di noi, quindi non abbiamo nulla da dire. A quanto sappiamo, stando a ciò che dice mia madre e a ciò che mi dicono i suoi amici più stretti, è impossibile che fosse uno spacciatore. Poteva avere un ruolo esterno? Certo, ma era davvero lui che decideva e manovrava manco fosse un boss? Mi sembra una falsità». Avendo assistito a gran parte del processo, ho assicurato ai fratelli che i l’accusa non ha dipinto Mizell come un boss, ma come una persona che si è trovata in una situazione difficile.

«La narrazione non sarà mai a favore dei neri», dice Chuck D. «È un effetto collaterale del giornalismo in America e nel mondo occidentale».

Il fatto che fosse legato a un giro di droga è l’unica cosa che confonde Hurricane: «Jay non vendeva droga nemmeno quando eravamo ragazzini, per strada. Mi pare difficile da credere, ma non impossibile».

Da tempo Thompson, il cugino di Mizell, sospettava che Washington fosse coinvolto nell’omicidio. Dopo la morte, il fratello del dj, Marvin, si è informato sulle persone che Thompson chiama «gli indesiderabili» che frequentavano il dj, cercando di capire cosa fosse successo. «Marvin seguiva ogni pista», dice Thompson. Marvin, che è morto nel 2018, è stato il primo a identificare Washington e a parlarne a Thompson. Un paio d’anni dopo l’omicidio, la polizia di New York ha interrogato sia Jordan che Washington, ma li ha lasciati andare.

In tribunale, i testimoni oculari si sono detti terrorizzati all’idea di puntare il dito su Jordan e Washington e Thompson era frustrato dalla riluttanza dei testimoni a collaborare. Essendo il vicedirettore del New York City Correction Department, ha avuto accesso allo studio di registrazione la notte dell’omicidio e ha parlato con la polizia. Ha avuto l’impressione che Randy Allen, che ha detto che era nella sala di controllo al momento dell’omicidio, stesse nascondendo l’identità degli assassini. Allen ha testimoniato in tribunale che sua sorella, Lydia High, era nella stanza durante la sparatoria e aveva identificato Washington un paio di giorni dopo l’omicidio. Non l’ha detto subito perché pensava che fosse lei a dovere dare quelle informazioni.

«Randy sapeva chi era stato e non ha detto nulla», commenta Thompson. «Io avrei trascinato mia sorella dalla polizia per farle dire ciò che sapeva, a costo di doverla ammanettare. Minimo minimo avrei detto: “So che è una notizia di seconda mano, ma mia sorella mi ha detto che…”, e avrei lasciato lavorare la polizia».

«L’unico motivo per cui i testimoni si sono presentati in tribunale è che sono stati coinvolti i federali», dice Hurricane. «Se non fossero intervenuti i federali, avrebbero lasciato morire il caso». Se la polizia non avesse preso gli assassini, però, «ci avrebbe pensato la strada». Per Thompson l’immobilismo di fronte a questo caso è stato scoraggiante: «Ci siamo sentiti impotenti, non potevamo fare nulla. Ci chiedevamo: Cristo santo, qualcuno pagherà mai?».

Quando il presidente della giuria ha letto il verdetto di colpevolezza, Thompson è scoppiato in lacrime. «Mi sono liberato di un peso, che bella sensazione». Ha subito pensato ai membri della famiglia di Mizell morti prima di poter vivere quel momento: la madre e le sorelle di lei, Marvin, la sorella del dj Bonita. «Aspettare tanto a lungo è stato come essere pugnalati alle spalle e tenersi un coltello piantato nella schiena per tutto questo tempo, per poi tirarlo fuori 22 anni dopo», dice Hurricane.

«Per la famiglia è durissimo rivivere tutto questo», dice Chuck D. «Era un mio amico… è inquietante. La vera domanda è: tutto questo per cosa? Non è stato solo l’omicidio di una persona. È stato la rovina di una cultura».

Secondo Thompson, entrambi gli imputati meritano l’ergastolo: «La famiglia di quell’uomo è morta senza vedere giustizia e non va bene. E so che mia zia (la madre di Mizell, nda) è morta di crepacuore. Una madre non dovrebbe seppellire il proprio figlio. Non riavremo mai Jason. Quei due dovrebbero crepare in prigione».

Un memorial improvvisato nel Queens, 2002. Foto: Mike Albans/NY Daily News Archive/Getty Images

TJ e Jesse si guardano intorno mentre parlano del processo. «Quella ragazza la conoscevo», dice TJ di una donna che passa di lì, «ha un figlio grande ora, pazzesco». È come se fossero sempre vigili. «Ce l’ha insegnato nostra madre a essere vigili, ma non paranoici», spiega Jesse. «Anche mentre stiamo parlando, do sempre a un’occhiata attorno. Tipico di chi cresce a New York. Mettici poi uno strato supplementare di paranoia che aumenta il livello di allerta».

Mentre crescevano, Terri cercava di tranquillizzarli sulla loro sicurezza, nei limiti del ragionevole. «È sempre stata realistica, ci diceva che l’assassino di papà era ancora là fuori», spiega Jesse. «Ovviamente non siamo in pericolo, ma è un pensiero che hai sempre in testa».

Nel 2013, Karl Jordan Jr. ha avvicinato TJ e Jesse a una festa. «Ci ha detto che non aveva nulla a che fare con l’omicidio», racconta TJ. «E noi l’abbiamo guardato come per dire: di cosa stai parlando?». Non avevano sentito le stesse voci che Thompson aveva captato, a proposito di chi era coinvolto? «Non lo sapevamo», assicura Jesse.

Hanno aspettato a lungo delle risposte. «Siamo rimasti sbalorditi dal fatto che il caso non sia stato risolto prima», dice Jesse. «Non c’era bisogno di Sherlock Holmes o di chissà quale indagine. C’erano due testimoni oculari che si sono resi irreperibili dopo l’accaduto. Si poteva pensare di ottenere delle informazioni da loro, no? Non ci voleva Ace Ventura per capirlo. Cosa potevamo fare? Chiamare Batman?». I testimoni oculari, aggiunge TJ, «sono scomparsi per 20 anni e sono venuti fuori solo ora».

I fratelli sono arrabbiati con gli investigatori che non sono riusciti a risolvere il caso anni fa. «Puoi dirlo forte», dice Jesse. «La polizia di New York non vale niente». La madre ha inviato ai fratelli un articolo sul processo in cui si diceva che uno dei primi poliziotti a giungere sulla scena aveva perso il taccuino. «Ha perso gli appunti presi il giorno in cui è successo», dice Jesse.
«Quindi?» Dice TJ. «Che cosa significa, fratello?».
«Non era un vigile al semaforo, avrebbe dovuuto prendere appunti come si deve».

Secondo Thompson la polizia di New York non ha identificato i sospetti perché i testimoni oculari non hanno indicato nessuno, sul momento. I federali hanno potuto occuparsene solo quando i testimoni hanno lasciato New York e il caso ha abbracciato diverse giurisdizioni.

La storia non è ancora finita: Jay Bryant deve essere processato. Al momento della pubblicazione di questo articolo, pare che Bryant stia considerando il patteggiamento. TJ e Jesse sono pronti ad andare avanti con le loro vite e a concentrarsi sugli aspetti positivi dell’eredità del padre.

«In definitiva, il motivo per cui mio padre è stato ucciso è la gelosia», dice TJ. «Alle persone non piace vedere che gli altri ce la fanno, soprattutto nelle nostre comunità dove ci sono pochissime opportunità e tutti muoiono dalla voglia di avere una chance per uscire dalla situazione in cui si trovano. Se qualcun altro ha avuto l’opportunità che tu pensavi di meritare, ti possono venire in mente pensieri molto negativi».

«Spero che quella di Jam Master Jay possa diventare una storia che ispira, ma anche un ammonimento», dice Jesse. «Non importa quanto successo tu abbia, sei sempre un prodotto del tuo ambiente. Ci sono modi di pensare che non ti abbandonano mai, quando sei bloccato lì. Noi non siamo cresciuti in quell’ambiente. Mio padre invece è rimasto nel quartiere in cui è nato e questo ti può portare a fare cose che facevi anni prima. Restituire alla comunità da cui provieni è giusto, ma lo è anche andare avanti per la propria strada».

Da Rolling Stone US.

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