Rolling Stone Italia

Niccolò Contessa è sceso dalla giostra del pop

‘Un altro dio’ sembra la versione weird dell’ultimo Giovanni Lindo Ferretti. Non importa se è un episodio isolato o l’inizio di un nuovo disco, ormai i Cani e il pop sono due cose diverse. E potrebbero sorprenderci

Leggendo le varie teorie del (non)complotto che stanotte hanno invaso i gruppi Facebook a tema I Cani, sconvolti dalla comparsa a sorpresa di Un altro dio, il nuovo pezzo di Niccolò Contessa a cinque anni dall’ultimo album Aurora, ne ho trovare due credibili, entrambe indicative del senso di questa uscita. La prima: dopo l’oggetto non identificato Alla fine del sogno, senza presentazioni e ascoltabile solo su Soundcloud, misterioso (era una sorta di addio? Direi di no, ora), a questo giro il cambio di rotta vale ed è radicale, quindi prepariamoci sul serio a un nuovo disco. L’altra, opposta: ormai nella sua vita questo progetto a cui siamo affezionati è marginale, subissato dagli impegni da produttore (Tuttifenomeni, Coez) e compositore di colonne sonore, ergo abituiamoci a singoli senza criterio promozionale, anche molto diversi da quelli del passato. Anche sconvolgenti, per certi aspetti.

Dal lato dell’artista e di 42 Records come sempre tutto tace, zero indicazioni ulteriori alla musica stessa tranne un video su YouTube – pubblicato sul canale della band, inattivo da tre anni – che è quasi un lyric video e che ha una sola frase in descrizione da I fratelli Karamazov di Dostoevskij, “ho portato la faccenda fino alla mia disperazione e tanto più stupidamente l’ho esposta, tanto meglio per me”. In apertura al filmato, che anche per la struttura della canzone ne mette in risalto il testo, giusto una citazione di Jung (“Non si può togliere Dio all’uomo senza dargliene un altro in cambio”). Volevate massacrarvi con le interpretazioni? Eccovi serviti.

Ma il senso non cambia: sia che si tratti dell’apripista di un nuovo lavoro, sia che si stia parlando di un episodio isolato, Un altro dio rappresenta un punto di rottura (e non di fine) proprio perché ha caratteristiche opposte a ciò che ci sarebbe aspettati, aprendo scenari inediti. Non ci sono i ritornelli gommosi da elettro-pop de Il sorprendente album d’esordio, né gli slanci melodici che fra il 2015 e il 2016 l’hanno reso il titano dell’it-pop con Il posto più freddo e Non finirà; su una drum machine che detta il passo a un groviglio di sintetizzatori scuri, cerebrali e densi (altro che quelli accoglienti degli esordi, altro che lo scarno Aurora), per la prima volta si innesta uno spoken vero, con la voce effettata e diabolica e romana a guidarci verso Massimo Volume e Offlaga Disco Pax, soprattutto dal Giovanni Lindo Ferretti da quarantena, quello che trasforma le canzoni in editoriali. Tant’è che il pezzo in questione pare una versione weird, o semplicemente post-hipster, degli ultimi proclami dell’ex CCCP. E, anche fosse la bussola per un nuovo disco sarebbe un’operazione coerente, visto che dopo cinque anni di silenzio un eventuale ritorno – dato il personaggio, il ruolo che gli è stato attribuito, l’attesa intorno e il resto – non potrebbe che passare almeno a livello di spirito da qui, dal ribaltare le attese piuttosto che assecondare il nuovo pop italiano con un Aurora-bis.

Detto ciò, viene da pensare a uno spunto isolato (ripeto, non l’ultimo) per l’urgenza che lo sottende, e che è il vero motore che fa funzionare la canzone. Come se Niccolò sentisse di dover comunicare tutto ciò e avesse scelto questo formato parlato, diretto e immediato per farlo. Mettendo in fila con lucidità crude verità. Per quanto, ovviamente, i temi non siano nuovi per lui. In apertura c’è infatti il mondo dei creativi con le relative deformazioni egoistiche, dentro quella Milano – direbbe Dalla, “vicina all’Europa” – in cui si parla soltanto di lavoro, i soldi e la professione sono l’unica moneta e “il gioco di ruolo della società occidentale funziona davvero” (vi ricordate Storia di un artista?); non come il resto d’Italia, schiacciato “dal peso della storia” che “provoca una sorta di torpore e spegne ogni progetto”. Poi: il parallelo fra “le popstar” e “gli imprenditori di oggi” che condividono (ehm) lessico e riferimenti, il culto di sé camuffato dal “credere in sé stessi”, una città – ancora – distopica e ansiogena sullo sfondo, in cui tutto è apparenza e la tappa obbligata è il Duomo, ridotto a “un animale esotico” allo zoo. Siamo davanti a una sorta di manifesto politico contro iper-presenza da social, il neoliberismo e il capitalismo di cui Milano è emblema, una presa contro il mantra del “farcela” e le miserie morali che comporta l’ossessione di “lavorare sodo” e bene per realizzarsi e guadagnare, tornate sotto torchio in questi giorni e già colpite nei loro paradossi dalla pandemia. E fin qui, tutto relativamente nella norma.

Poi però Contessa sale, sale ancora allacciandosi al nichilismo esistenziale di alcuni brani di Aurora e portando il suo dibattito sul rapporto con la morte stessa e il dolore a un livello superiore. Ed è qui che vince, quando racconta fotografa con freddezza da matematico i limiti di un Occidente che spende per non pensare alla morte, che parla di Dio solo ai funerali, che coi soldi ha inventato un’alternativa a tutto tranne che alla fine, che trasforma la cultura in intrattenimento, distrazione, e per non soffrire ha anestetizzato i sentimenti, ignorando ansie, depressioni, dipendenze. Risultato: “L’uomo moderno vive a testa bassa, non per timore di Dio ma per il terrore di alzare lo sguardo e vedere l’abisso”. Seguono dei secondi di silenzio, poi la coda. Non c’è via di salvezza stavolta, non c’è il grande gioco del pop che alleggerisce la narrazione; solo sintetizzatori, voce spettrale, il vuoto. È andato oltre.

Infine, va detto, Un altro dio sbanca anche al processo alle intenzioni. Senza troppi paragoni, nell’estate in cui Vasco Brondi sfrutta la canzone-calamita Ci abbracciamo per portare i fan verso territori da anti-canzone con Chitarra nera, Contessa fa lo stesso servendosi dell’hype per condurre gli ascoltatori alla riflessione e a nuove frontiere, magari non troppo respingenti e sperimentali, ma comunque non facili né attese. Si toglie la maschera della popstar introversa, insomma, per aprirsi a una voce che sembra della coscienza. E magari non ne viene fuori un brano adatto alle playlist o ai viaggi in macchina, ma un qualcosa che resterà e funziona perché sorprende, rischia, parla chiaro e si confronta con l’attualità. Così facendo, lui si tira via definitivamente dalla giostra: non in maniera implicita come prima, comportandosi da divo riluttante; ma in maniera esplicita, sfruttando la sua posizione per dirci davvero come ritiene stiano le cose. A noi, ricevere e metabolizzare.

Iscriviti