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Nelle mani di Brian Jones c’è il successo dei Rolling Stones

Il 3 luglio del 1969 veniva trovato morto il fondatore della band. Una persona e un musicista geniale, che preferiva sottrarsi alla ribalta rispetto al tono perverso di Jagger e alle distorsioni maniacali di Richards

La cronaca (nera) dovrebbe essere nota a tutti. Una notte di cinquant’anni fa, il 3 luglio 1969, Brian Jones, chitarrista e fondatore dei Rolling Stones, viene trovato morto sul fondo della piscina nella sua villa in Inghilterra. Strafatto, cade nella vasca in overdose. Neanche a dirlo, fin da subito, scatta un cipiglio “giallista” collettivo. La tragedia si trasforma, fin dalle prime luci dell’alba, in un thriller hitchcockiano. Secondo testimoni, il musicista fu tenuto sotto l’acqua della piscina dagli operai che stavano lavorando nella proprietà. Lo detestavano per la ricchezza, le donne, il successo e lo hanno ucciso. Anzi no, dietro c’è una storia di droga, l’avvertimento per un mancato pagamento è finito in tragedia.

Ci sarebbe anche un altro finale, più macabro: Brian Jones era quello del gruppo più vicino al mondo dell’occulto, quindi vien da sé che sia morto (sacrificato!) durante un patto col Diavolo in cambio del successo della sua band. Banale? C’è un epilogo persino più sulfureo e ambiguo: gli Stones, gelosi di una stampa sempre più convinta nel ritenerlo il più eloquente e il più intelligente del gruppo, deus ex machina dietro Aftermath, Flower e Beggars Banquet, lo temevano, soprattutto perché in procinto di collaborare con Jimi Hendrix e con i loro acerrimi rivali, i Beatles. Smacco, quest’ultimo, insostenibile e in grado di sfociare addirittura in un’istigazione al suicidio. In mancanza di Franca Leosini a indagare, però, preferiamo omaggiarlo con una lettura del suo sound, frutto degli ascolti in loop delle sue canzoni quando da adolescente aspettavo uno 05/ perennemente in ritardo o andavo a Testaccio dalla Stazione Termini, piuttosto che perderci nei facili meandri del cattivo gusto.

Partiamo alla maniera dei naturalisti: “race, milieu, moment”, ovvero il fattore ereditario, l’ambiente sociale e il momento storico. Nella Londra dei primi anni Sessanta si vestivano completi di ciniglia, si metteva su una maglia a collo alto, si formava una band e si schitarrava tra birre e nuove droghe. Il caso di Brian Jones è speciale: perché, al di fuori del suo stile nel vestire, ribelle ed eccentrico in barba al suo metro e sessantotto d’altezza, la sua competenza musicale, nell’era dei ruoli prestabiliti e fissi in ogni band (il cantante carismatico, il chitarrista tenebroso, il bassista stiloso e il batterista defilato ma simpatico), è un fatto innanzitutto tecnico, nutrito con pazienza certosina, mediante ore e ore di studio e di esercizio nell’alveo protetto di una simpatica famiglia originaria del Galles, dove tutti sono appassionati di musica e sullo stereo girano tantissimi dischi jazz.

Perciò, se da un lato Jagger era uno studente di Economia con velleità da cantante e Richards un grafico affascinato dai riff di chitarra, già all’età di quindici anni Brian si divideva organo, pianoforte, clarinetto, flauto e sassofono. Questo è il bagaglio composito con cui fare interagire il suono che in quegli anni abitava l’infosfera urbana e che aveva il segno del furore elettrico di John Lee Hooker, il calore del rhythm and blues di Otis Redding, soprattutto la variopinta voglia progressista della generazione hippy. E a quest’altezza si colloca il miracolo: Brian Jones è l’ideale crocevia, forse il primo che il rock inglese abbia partorito, assai prima della scintillante supponenza di un John Lennon, tra radici, songwriting soul anglo-americano, avanguardia psichedelica, concezione jazz dell’arrangiamento e una estetica clamorosamente hippy.

Il tutto non soltanto sulle corde di un solo strumento, ovvero la chitarra, e sulle varie possibili combinazioni fra le principali espressioni, fraseggio e pennata, i jingle-jangle delle corde sulla Rickenbacker creata con George Harrison o le plettrate sulla Vox a forma di goccia di cui poi è diventato iconografico simbolo. Brian Jones è un mostro che compone e suona col sitar (Paint It Black), la slide (Mother’s Little Helper) e il dulcimer (Lady Jane), non disdegna le tastiere, i fiati (basti pensare a Ruby Tuesday) e molti strumenti meno comuni come xilofono e marimba. E anche se il suo lavoro era concepito, almeno in apparenza, per fare spazio a un duo dalle esigenze monumentali, il sound che ne scaturisce è così preciso e particolare da non colorare solo il lavoro altrui ma arrivare a sostenerlo. Una chitarra tagliente e un talento naturale dimostrano come Jones sia a vestire i panni dell’ispiratore, del coordinatore, dell’arrangiatore e, se vogliamo, del sabotatore. La magia risiede in come accompagna il resto della band: il modo in cui asseconda le dinamiche e le scelte interpretative di Mick è un atto d’amore e come sostiene un cosciente sosia di Chuck Berry (qual era Keith prima di diventare uno dei chitarristi più importanti dell’era rock) un atto di amicizia che si rinnova di brano in brano.

Ma non si tratta solo di sensibilità e di amicizia. Una grossa parte del lavoro è sui suoni, anche qua manifestazione continua di un ingegno versatile. Prendiamo ad esempio uno degli inizi di tutto ma senza raschiare nell’ovvio, Yesterday’s Paper, nella versione originaria come incipit di Between the Buttons, quella che si ascolta nella variante britannica del 1967, per intenderci. Jones vi lavora di fino. Il brano originariamente era stato composto per essere tra i più rockeggianti del lotto, tutto sul suono di una gloriosa Gretsch del ’54, per amplificare un testo non proprio benevolo nei confronti di una ex. Il fatto che poi sia arrivato Jones a condirla con vibrafono, xilofono e clavicembalo dà l’idea della potenza d’ingegno del Brian che, in tre semplici mosse, riesce a ottenere un mood originale a fare da spalla alla teatralità problematica di Jagger.

Ascoltati in questa chiave tutti i brani del primo (e migliore) periodo dei Rolling Stones rivelano questa sorta di piccolo segreto: nelle mani di Brian si concentrano tutte quelle sfumature che il tempo ha reso sempre più ampie e complesse (pensate a un disco come Their Satanic Majesties Request e confrontatelo con il debutto omonimo di tre anni prima) nel suono degli Stones, pur nella loro apparente semplicità. Ed è proprio questo il cuore del fascino di Jones, la spontanea riservatezza delle sue trovate, tanto geniali da sottrarsi alla ribalta rispetto al tono perverso di Jagger e alle distorsioni maniacali di Richards, proprio nell’istante in cui l’accendono e la fanno vivere. Si racconta che Jones fu seppellito sotto tre metri e mezzo di terra, per evitare esumazioni da parte di fan deviati e cacciatori di tombe, dentro a una bara interamente d’argento spedita da Bob Dylan. Al funerale, avvenuto dopo una serata-concerto commemorativa a Hyde Park, Mick Jagger non si presentò: fece sapere che era in Australia con Marianne Faithfull per le riprese di un film. Neppure Keith Richards intervenne: si dice che fosse preoccupato di infastidire i fan e creare inutili tensioni.

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