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Metti una notte in giro con Tom Waits

Siamo nel 1975 quando il «il miglior amico dell’insonnia», a quei tempi appena 25enne, scorrazza un giornalista di Rolling Stone per Los Angeles. Il racconto di una serata nei bassifondi

Metti una notte in giro con Tom Waits

Tom Waits nel 1975

Foto: Richard Creamer/Michael Ochs Archives/Getty Images per Rolling Stoen US

I cristalli di nebbia gelata si attaccano al parabrezza mentre io e quel nottambulo di Tom Waits, sulla mia Chevy del ‘69, percorriamo un Santa Monica Boulevard deserto. Sono le 3:15 del mattino, vaghiamo senza meta e, come direbbe Waits, fa più freddo che sotto al culo di uno scavatore di pozzi (il riferimento è al brano Diamonds on My Windshield, ndt).

È stata una notte importante per Waits e ancora non è finita. Un paio d’ore fa il cantautore/poeta/attore ha portato a termine il suo primo ingaggio ufficiale al Troubadour ed è andata bene. Il proprietario Doug Weston gliel’ha appena detto, nel vicolo, proprio mentre ce ne stavamo andando. E vuole che torni presto.

Questi tre giorni sono stati una vera sfida per Tom, uno che sta al lato decadente della vita di città come John Denver sta a Rocky Mountain High. Aprendo tre date dei Little Feat, ha suonato davanti a persone per lo più estranee al suo mondo blues e alcolico, fatto di lune al sapore di Moscato, bar con l’arredamento rivestito in similpelle, viaggi in Oldsmobile e venditori di auto usate con pantaloni a scacchi come il logo della Purina.

Ma Waits ha impiegato piuttosto poco a conquistare quel pubblico. Con l’aria da bassifondi, smunto, nel suo abito nero sgualcito con la cravatta unta e allentata, si è avvicinato al microfono con la camminata da ubriaco aprendo i concerti con il jazz di Diamonds on My Windshield, un’ode in stile Kerouac ai viaggi in autostrada cantata con tono farfugliante, schioccando le dita della mano destra e agitando la Old Gold che teneva perennemente nella sinistra. Dopo aver suonato al pianoforte alcune canzoni tratte dai suoi due ottimi album usciti per l’etichetta Asylum, Closing Time e The Heart of Saturday Night, è tornato al centro del palco per Easy Street, una canzone piena zeppa di gergo metropolitano: “C’è una specie di pioggerellina sul vetro e il bastoncino da cocktail al neon rimescola l’aria afosa della notte. E il biscotto al burro di una luna a forma di palla bianca da biliardo rotola in un cielo di ossidiana. E gli autobus rantolano e ansimano dietro l’angolo, mentre io sto congelando su Restless Boulevard…” (da Easy Street).

«Sarò sempre un nottambulo e non andrò mai a vivere in uno chalet in Colorado», dice Waits mentre ci rifugiamo in un Copper Skillet, un caffè su Sunset Boulevard con arredamento in similpelle arancione e un vaso di fiori di plastica al nostro tavolo: esattamente il tipo di posto alla Waits. Sono le quattro di mattina; il suo viso giovane, con un pizzetto da jazzista, sembra più tirato del solito e una ciocca di capelli biondo sporco, che esce dal cappello che indossa sul palco, gli cade sulla fronte. Quando parla è profondo e brillante.

«Sì, la luna batte di gran lunga il sole. La notte ha un che di magico. Se fossimo seduti qui nel pomeriggio e guardassimo fuori da quella finestra, non riusciremmo a vedere il riflesso della cucina e del cuoco. E non sapremmo cosa c’è nel parcheggio qui di fronte. L’immaginazione deve lavorare di più. E poi la notte è musica. Non riuscivo a dormire quando vivevo nella 23a strada, a New York: era come trovarsi in mezzo a una jam session di rumori di traffico. Sentivo una melodia, una sezione di fiati, haaa heee haaa, rumore di vetri rotti… e nel calorifero c’erano tanti piccoli Doc Severinsen che suonavano. C’è in giro molto materiale, a portata di mano, che chiede solo di essere utilizzato».

Waits è nato 25 anni fa in un angolo inquinatissimo della California, Pomona, e ha trascorso la maggior parte dei suoi primi 12 anni a Whittier «gironzolando nei parcheggi delle catene Sav-On e comprando figurine di baseball». Quando i suoi genitori hanno divorziato, si è trasferito a San Diego con la madre e le due sorelle. Poco dopo ha iniziato a lavorare di notte da Napoleone’s Pizza House, dove ha iniziato a sviluppare la sua passione per la vita notturna. «Per me le scuole superiori erano solo una barzelletta. La mia vera scuola è stata da Napoleone’s».

Nel sound di Waits si riconoscono venature di blues, jazz e folk: quelle blues possono essere fatte risalire ai tempi in cui faceva le medie. «Frequentavo una scuola media per soli neri. Andavo al Balboa Stadium per vedere i Flames o chi altro e il giorno dopo non mi presentavo a lezione». Ray Charles rimane il suo cantante preferito. Il jazz e il folk hanno fatto ingresso nella sua vita che aveva 20 anni, quando si è inserito in un giro esclusivo che ruotava attorno all’ormai defunto folk club Heritage, dove lavorava all’ingresso. Ironia della sorte, si è avvicinato al jazz dopo aver letto Sulla strada.

«A Kerouac piaceva definirsi poeta jazz, perché usava le parole come Miles faceva col suo sassofono, che è uno strumento meraviglioso. Aveva il senso della melodia, del ritmo, della struttura narrativa e del colore, creando atmosfera e coinvolgimento. Non riuscivo a smettere di leggere il libro. E dopo mi sono abbonato a Down Beat».

Poco dopo, Waits e l’amico Sam Jones si sono imbarcati nella loro personale odissea in giro per tutto il Paese. Al ritorno lui ha poi deciso di dedicarsi al mondo dello spettacolo e si è lanciato nei circuiti di San Diego e Los Angeles. Ha passato tantissimi lunedì sul marciapiede, fuori dal Troubadour, in attesa di proporsi al pubblico del locale nelle serate open mic.

«Era orribile cantare lì, essere messi tutti in fila come capi di bestiame. Il Troubadour è un po’ l’ultima spiaggia: ci trovi vecchi artisti di vaudeville, band che si sono impegnate ogni cosa per venire qui dalla East Coast solo per suonare al Troub una sera. Si incontrano anche molti ciarlatani con abiti in poliestere, che fumano Roi-Tan e ti riempiono la testa di chiacchiere. Ti dicono: “Ciao sfigato”. E io ero uno sfigato. Quando sei lì, sei disperato e al verde».

Waits ha incontrato Herb Cohen, il manager di Frank Zappa, di Tim Buckley e, all’epoca, di Linda Ronstadt, durante una serata al Troub nel 1972: in quel momento era a terra e senza un soldo. «Ero deluso. Avevo suonato le mie canzoni, all’epoca mi arrabattavo ancora in un limbo semiprofessionale, e il pubblico era rimasto indifferente. Herb è venuto da me ed è stato molto onesto e diretto. Il giorno dopo avevo un contratto da cantautore e 300 dollari in tasca. Da allora abbiamo sempre collaborato».

Anche se è stato in giro per buona parte dell’ultimo anno, Waits ha tenuto la sua casa con una sola camera da letto nel quartiere di Silver Lake, a Los Angeles. La descrizione dell’ambiente fotografa alla perfezione lo stile di vita di Waits e la sua totale indifferenza di fronte al successo. «Vivo in un quartiere a maggioranza messicana-americana e mi trovo bene. I miei amici non vengono a casa mia: è un tugurio. Il mio padrone di casa ha una novantina d’anni. Viene sempre a chiedermi se vivo ancora lì. E la mia dirimpettaia è una rimastona degli anni ‘50, una vecchia prostituta. Ha sempre dei pantaloni alla pescatora, tacchi a spillo dorati e una pettinatura vaporosa. È una delle persone più sboccate che abbia mai conosciuto. E mi sveglio sentendo la sua voce. Ma ho bisogno di vivere in un posto incasinato per poter visualizzare il caos. Per me è come un dizionario di immagini».

Waits ora sta lavorando al materiale per il suo terzo album, un concept incentrato su Easy Street. Sente di essere sul punto di realizzare qualcosa di importante. «È l’arte di raccontare storie. Frequento bar e caffè, ascolto le conversazioni della gente, cerco di tenermi aggiornato, imparo nuovi modi di dire. Questa roba è il mio pane quotidiano».

Se volete un ritratto del giovane artista, immaginate Waits con i suoi stivali di finta pelle di alligatore da due dollari e mezzo ai piedi. «La gente dice: “Oh, se solo potessi pubblicare un disco”. È come una certificazione. Io non suonerei al Troubadour se non avessi fatto un paio di album. Quando ne pubblichi uno, però, vieni catapultato in un altro mondo insieme a migliaia di altri artisti che hanno fatto dischi, esattamente come te. Certo, non devo più fare le serate open mic, ma alla fine mi prostituisco ancora. Ho solo cambiato angolo».

Lascio il miglior amico dell’insonnia al Tropicana Motor Hotel, vicino al Troubadour. Sono le 6:10 e abbiamo sfruttato ogni minuto di questa notte. Tra quattro ore Waits sarà su un aereo diretto a Minneapolis per un altro ingaggio e altre notti avventurose.

Questo articolo è tratto dal numero del 30 gennaio 1975 di Rolling Stone.

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