Måneskin, la recensione di ‘Teatro d’ira Vol. 1’ | Rolling Stone Italia
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Måneskin, il meglio e il peggio di ‘Teatro d’ira Vol. 1’

Mettono assieme arroganza dei vent’anni e retorica da talent. Sembrano la copia di mille riassunti, ma almeno ci provano. Ascolto del disco di cui parlano tutti, senza boomerismi, né esaltazione da fan

Måneskin, il meglio e il peggio di ‘Teatro d’ira Vol. 1’

Måneskin

Foto: Gabriele Giussani

Una decina d’anni fa ho visto apparire nei punti vendita delle catene di abbigliamento riproduzioni di t-shirt d’epoca di Ramones, AC/DC, Iron Maiden. Cresciuto in un’epoca in cui indossare la maglietta d’un gruppo punk o metal aveva un significato ben preciso per una minoranza di persone, gente che si muoveva di solito ai margini del mainstream in Italia, la cosa m’ha stupito. È accaduto qualcosa di simile quando modelle e influencer hanno cominciato a farsi fotografare con addosso t-shirt con le pulsazioni elettromagnetiche della copertina di Unknown Pleasures o lo smile dei Nirvana. Poi ho capito: non è che il rock aveva vinto, del rock era rimasta solo l’estetica.

Teatro d’ira Vol. 1, la mezz’ora di musica che i Måneskin hanno pubblicato venerdì scorso, due settimane dopo la vittoria al Festival di Sanremo, fa un po’ quest’effetto: sembra la riproduzione pensata per i clienti di Zara di una vecchia t-shirt. Sarebbe però ingeneroso liquidare il secondo album del gruppo (il terzo, contando l’EP Chosen) come un esercizio di stile. C’è del buono in questa specie di sfogo generazionale espresso con chitarra, basso e batteria e perciò ho messo in fila le cose migliori e peggiori dell’album. Siccome il dibattito attorno al disco è già sufficientemente polarizzato ho cercato di farlo senza boomerismi, né esaltazione da fan.

Peggio: Sembrano la copia di mille riassunti

Chiedere assoluta originalità a un giovane gruppo rock italiano sarebbe una gran vigliaccata. Tutti hanno cominciato scimmiottando i propri idoli, anche quelli a cui oggi riconosciamo una “voce” originale. Che è esattamente quel che manca ai Måneskin di Teatro d’ira. Le canzoni sembrano la copia di mille riassunti. Se ascolti solo la musica e togli il canto di Damiano, che ha un suo timbro e un suo modo di cantare (vedi sotto), non trovi un solo elemento che ti faccia dire: questi non possono che essere i Måneskin.

Meglio: Hanno l’arroganza dei vent’anni

Avere vent’anni non è un merito, né un demerito, ma permette di fare dischi come questo, che ha la spudoratezza che spesso manca a chi fa rock in Italia e sembra membro di un club del libro. I Måneskin se ne fregano di risultare sopra le righe e questa è cosa buona e giusta. Si sente che sono giovanissimi e te lo sbattono in faccia. La sbruffoneria fa parte del dna del rock e con essa il rischio di risultare ridicoli. A vent’anni è tutto ancora intero, a vent’anni si è stupidi davvero. Ben venga se qualcuno si offende.

Peggio: Damiano sembra Emma

Quanta enfasi. Ci sono pezzi in cui il cantante Damiano David sembra mimare rabbia e sofferenza come un attore alle prime armi che calca la mano per “arrivare” al pubblico. Sembra di stare ad Amici, pare di sentire Emma quando esagera e canta ogni parola come se fosse l’ultima della sua vita. Il pubblico che in quest’epoca è sovrano apprezza, ma suggerisco di riascoltare il modo in cui certi grandi cantanti rock americani o inglesi evocano storie ed emozioni forti e precise senza strafare.

Meglio: È un passo avanti rispetto a ‘Il ballo della vita’

Quando sei a stento maggiorenne e ti trovi a registrare un disco, un po’ segui le indicazioni degli altri e un po’ fai scelte di cui ti penti. Forse è successo anche ai Måneskin con Il ballo della vita, il loro primo vero album del 2018 che era un po’ pasticciato, con dentro cose inutili e appiccicaticce. Teatro d’ira è più a fuoco, prende una direzione precisa, è più convincente. Non è uno di quei dischi da talent assemblati alla bell’e meglio. È già qualcosa.

Peggio: La rabbia è teatralizzata

Dischi come Teatro d’ira dovrebbero far paura, non dico tanto, almeno un po’. E invece non si percepisce alcun senso di minaccia che pure dovrebbe essere connaturato alla musica a cui si rifanno i Måneskin. Pensate ai migliori (non per fare confronti inutili, ma per avere buoni esempi): quei dischi erano esplosivi anche perché sembravano pericolosi, evocavano qualcosa d’oscuro e reale, erano disturbanti. Qui rabbia e malessere sono teatralizzati: non li vedi, non li tocchi, sono solo evocati.

Meglio: È suonato e prodotto bene

Non sarà un gran disco, ma Teatro d’ira è suonato e prodotto (con Fabrizio Ferraguzzo) bene. Trasmette il feeling di un gruppo che suona dal vivo. Negli ultimi due anni i quattro (il cantante Damiano David, la bassista Victoria De Angelis, il batterista Ethan Torchio e il chitarrista Thomas Raggi) hanno lavorato sulle proprie mancanze e si sente. Per dirla con Cristiano Godano, «molti musicisti italiani si sono espressi a favore di loro dopo l’esibizione sanremese, perché, da musicisti, sentono, come sento io, che questi qua spaccano». Nota a margine: in un mondo dove le canzoni sono scritte da mezze squadre di calcio, i Måneskin hanno composto tutto da soli.

Peggio: Le canzoni in inglese li fanno precipitare in serie B

I Måneskin sono pesci grossi (il talent, Sanremo, la popolarità che li ha portati a doppiare la coppia Fedez-Michielin nel voto popolare) in un piccolo stagno (il pop-rock italiano). Quando cantano in inglese, ovvero nella lingua madre del rock, e in questo disco avviene in un paio di pezzi, diventano pesciolini rossi nell’Oceano.

Meglio: Ci provano

Usano chitarra, basso e batteria per dire qualcosa su diversità, fragilità, fobie, sesso, voglia di rivalsa. Sono dei vincenti che rappresentano un mondo di perdenti, come la fragile Coraline. Ma sono anche loro strambi (sia chiaro, è un pregio) e si capisce che la sensazione di diversità che emerge qua e là dai testi del disco ha un fondo di verità. Ci provano, e ci provano forte.

Peggio: Non c’è ironia

È tutto così tremendamente serio e importante. Quando scegli un registro di questo tipo devi essere in grado di reggerlo fino in fondo con una narrazione di spessore (non c’è) o con una furia cieca (nemmeno). In alternativa, lo devi stemperare con un po’ di senso dell’ironia che qui manca totalmente. I quattro ne hanno, giacché durante la settimana sanremese hanno affidato l’account Twitter a @Dio che ha scherzato su Fiorello e i tempi biblici delle serate. Poi sono tornati i Måneskin a dirci in caps lock che a Sanremo hanno fatto la rivoluzione.

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