Non rompete le palle ad Alberto Ferrari | Rolling Stone Italia
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Non rompete le palle ad Alberto Ferrari

Ma davvero pensate che il musicista dei Verdena non dovrebbe andare a 'X Factor'? Che male c’è a guadagnare facendo ciò che si è bravi a fare?

Non rompete le palle ad Alberto Ferrari

Alberto Ferrari

Foto: Ilaria Magliocchetti Lombi

La notizia della partecipazione di Alberto Ferrari dei Verdena a X Factor questa sera per suonare Muori Delay con i Little Pieces of Marmelade non ha fatto in tempo a diffondersi che già era accompagnata dalle polemiche. Non tantissme, però significative. Pino Scotto lo conosciamo tutti e lo amiamo così, col suo mantra: «prendi una banconota da 10 euro, compra una tanica di benzina e datti fuoco». Sarebbe sbagliato chiedergli di non essere se stesso, quindi non stupisce che abbia criticato la scelta del frontman dei Verdena di esibirsi a X Factor.

Tuttavia sappiamo che nel mondo della musica, specialmente in quell’alveo di puristi che a volte viene denominato indie, a volte scena alternativa, la scelta crea un certo scalpore. Ma ha senso nel 2020 chiedersi se sia giusto o meno esibirsi nel programma musicale più famoso della tv?

Questo sottinteso serpeggia tra tweet e bacheche di Facebook dove alcuni fan o semplicemente detrattori della band non concepiscono come ci si possa addentrare nella tana del nemico. Fa sorridere, ma X-Factor è visto dal pubblico indie solo come un programma in cui si creano dei fenomeni discografici a tavolino. Secondo la logica di chi critica, sembra rimanere “puro” solo chi fa parte di una nicchia, perché affrontare un pubblico di non esperti del settore presuppone che ci si debba modellare sui loro gusti per piacere, quindi sputtanarsi. 

La cosa irrita il musicista medio. Per un attimo l’idea romantica di gavetta dell’artista che parte dal localino in periferia e arriva a riempire il palazzetto è infranta: non c’è più questo passaggio. C’è il palco strafigo, i milioni di spettatori, le cover sui giornali e la celebrità che arriva dopo appena un paio di mesi passati in tv. 

Sebbene questa critica sia comprensibile, se ci mettiamo nei panni di chi si fa il mazzo per anni per piazzare un singolo c’è da dire una cosa: non basta essere in tv per sfondare. Nel linguaggio televisivo vengono appunto definiti “meteore” tutti quei fenomeni che si affacciano sulla scena giusto il tempo di sfornare il loro unico tormentone poi spariscono come i corpi celesti che sfrecciano nel cielo. In questo la musica è veramente meritocratica: se un pezzo fa cagare, non lo canticchia nessuno. Ti puoi chiamare Jalisse e vincere Sanremo, ma se non ci si ricorda come faceva la tua canzone sei spacciato. Così come ti puoi chiamare Vasco Rossi e arrivare ultimo a Sanremo, ma ancora oggi Vita spericolata è un inno generazionale.

Alberto Ferrari è un musicista, il che presuppone che suonare sia il suo lavoro. Il macellaio prepara il macinato, la professoressa di lettere la sua lezione su Omero, il cardiochirurgo opera un paziente. I musicisti suonano. E da che mondo è mondo è lecito lavorare sia per il miglior offerente che per il proprio interesse.

Se poi non bastasse la scusa materiale dei soldi, c’è il fattore genetico: i musicisti sono simili ai piloti, ai calciatori, a tutti i performer. Pensano sempre e solo al palco. Interessa loro solo l’adrenalina che provano esibendosi. Meglio ancora se di fronte a un vasto pubblico.

La critica di Pino Scotto mi ha fatto un po’ di tenerezza: rinnegano l’anima per vendere quattro CD in più. Tolto il fatto che i CD non li compra più nessuno, che male c’è? Fa così schifo guadagnare dei bei soldi facendo ciò che siamo bravi a fare?

Non è che diventare ricchi e famosi sia un tradimento ai propri principi, alle proprie radici, a chissà quale codice deontologico. Il mercato è subdolo e condiziona ogni nostra scelta di consumatori, ma qualche merito ce l’ha: ci ha dato Maradona, i Nirvana, Elvis, Tarantino. Tutta gente che veniva dal nulla, ma era fortissima nel proprio campo e creava spettacolo. Certo poi abbiamo le radio e le classifiche impestate di robaccia, di prodotti studiati a tavolino, ma è un compromesso accettabile. E poi attenti a non rimanere troppo nelle nicchie, perché sono settarie. 

Bukowski parlando di scrittori underground paragonati a lui lo disse chiaro e tondo: «l’editoria alternativa è una stampella per privi di talento, permette loro di costruire pregiudizi, odi, sogni e di continuare a scrivere le loro brutte cose. Il panorama della piccola editoria è particolarmente duro per madri e mogli che devono mantenere queste mezzetacche».