Ma davvero ‘Let It Be’ è «una vagonata di merda» come diceva Lennon? | Rolling Stone Italia
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Ma davvero ‘Let It Be’ è «una vagonata di merda» come diceva Lennon?

L’ultimo album dei Beatles usciva 50 anni fa. I Fab Four dicevano addio agli anni ’60 senza sapere quale strada imboccare. Ma è pur sempre musica di Lennon, McCartney, Harrison e Starr: come si fa a parlare di fallimento?

Ma davvero ‘Let It Be’ è «una vagonata di merda» come diceva Lennon?

Lo spazio è spoglio e decadente, le pareti bianche e senza orizzonte. Alcuni tecnici montano la scenografia in uno dei teatri dei Twickenham Film Studios, mentre Paul McCartney suona un adagio al pianoforte Blüthner di proprietà degli Abbey Road Studios. L’atmosfera è più lugubre che mai, c’è solo Ringo seduto ad ascoltare, con una faccia che è tutta un programma, lo sguardo basso, perso nel vuoto, prostrato come in segno di lutto.

È una scena che dura solo pochi secondi all’inizio del film Let It Be, sottotitolo: “an intimate bioscopic experience with The Beatles”, ma che fa un certo effetto ogni volta. Sembra davvero di essere a un funerale, non soltanto perché Let It Be si è calcificato nell’immaginario come il disco che ha messo fine alla carriera dei Beatles – sappiamo che non è esattamente così –, l’ultimo in ordine cronologico a essere pubblicato, uscito praticamente postumo come ogni morte artistica che si rispetti. Ma anche perché, per una pura coincidenza, in quella scena così funerea appaiono solo i due componenti del gruppo che in un modo o nell’altro volevano mantenere in vita i Beatles (anche questo si è calcificato così), ma soprattutto quelli che attualmente sono ancora in vita. Fa un certo effetto, i piani temporali si incasinano.

Poi a tutti gli effetti il funerale comincia per davvero e dura un’ora e venti. Quelli che potrebbero essere normali battibecchi, scenette simpatiche o dibattiti assolutamente fisiologici durante il processo creativo di una band diventano le crepe portanti da ripercorrere per assistere in diretta alla distruzione. Oppure l’esatto contrario: in questo o quel fotogramma John sorride a Paul, allora vuol dire chiaramente che si volevano ancora bene, si divertivano ancora insieme, avrebbe potuto funzionare ancora. In questi cinquant’anni trascorsi dalla pubblicazione di Let It Be i racconti si sono totalmente sovrapposti e le interpretazioni hanno esplorato ogni possibile evenienza, i dettagli si sono confusi, il senso comune ha piantato radici ben salde tutto attorno e ora è parecchio complicato districarsi tra leggenda e realtà, cosa che, sia chiaro, va benissimo. Anche perché è esattamente questo che sono i Beatles.

È chiaro che in quel periodo i Fab Four fossero in rotta di collisione, ma quando è iniziato questo periodo? C’è chi ne colloca le origini già ai tempi di Revolver, chi a quelli del White Album o dalla morte di Brian Epstein. Ma è un gioco al massacro, totalmente inutile.

Ad ogni modo questa storia inizia quando l’infernale 1968 si è finalmente concluso, «everybody had a hard year», e un nuovo anno pieno di buoni propositi ha inizio. C’era bisogno di qualcosa che riaccendesse l’entusiasmo: l’ipotesi di un ritorno ai live era durata pochi istanti, non se ne parlava, allora meglio optare per un generico ritorno alle origini, nel sound meno elettronico, senza sovraincisioni o sperimentazioni, e nel processo collettivo di stesura dei pezzi. Come se questo, o andare a scattare delle foto nella stessa location (il palazzo della EMI) di quelle della copertina di Please Please Me bastasse per rievocare un’unione di intenti ormai perduta. Non poteva essere così semplice. Non si può affermare con certezza, ma magari fu solo un modo per accentuare le evidenze di quanto fossero cambiate le cose. Sicuramente il risultato fu disastroso. Le registrazioni di quello che doveva intitolarsi Get Back proprio in nome di un ritorno ai bei tempi andati iniziarono il 2 gennaio e già da quel momento era evidente che i buoni propositi per l’anno nuovo rischiavano seriamente di andare a farsi benedire.

Che diavolo significava tornare alle origini? Il White Album si era rivelato un successo nonostante le enormi, gargantuesche difficoltà riscontrate, un doppio album, ognuno che faceva esattamente tutto ciò che gli passasse per la testa e, ci si può mettere la mano sul fuoco, quello che avveniva nella testa di uno era in totale antitesi con quello che pensavano gli altri tre. Eppure fu l’unico modo per sfangarla. Tentare di forzare la mano fu quantomeno deleterio per l’ispirazione, George Martin non c’era, Glyn Jones era considerato una specie di pivello e nessuno gli dava ascolto. Anzi, nessuno dava ascolto a nessuno. Non si può affermare che i Beatles del 1969 fossero musicalmente obsoleti, ma stilisticamente incerti sì, la fine del decennio era vicina e questo significava molte cose, tra cui un cambio epocale del sound. Quale strada percorrere? Nessuno lo sapeva, o meglio, ognuno aveva la propria opinione, nella migliore delle ipotesi, nella peggiore: nessuna idea o un’alzata di spalle.

Il risultato fu una «vagonata di merda» per utilizzare le parole di Lennon nel definire le canzoni che uscirono dalle sessioni di Let It Be che infatti ben presto furono abbandonate, ci fu Abbey Road di mezzo – come se niente fosse, tra l’altro – finché il materiale non fu affidato dallo stesso Lennon e da Harrison a Phil Spector, naturalmente senza consultare gli altri. Apriti cielo. Storicamente qui le fazioni si dividono come in un derby: c’è chi sostiene che Spector abbia fatto un miracolo a dare dignità a una serie di canzonette inconsistenti e senza capo né coda, riuscendo ad arricchirle di spessore sonoro e a dargli una struttura e una certa identità coerente. C’è chi invece sostiene, ed è una fazione storicamente capitanata da McCartney, che quello fu uno scempio, che le canzoni dei Beatles vennero stravolte, che si tratta di un esperimento di chirurgia plastica. A dire il vero anche Lennon non era entusiasta del lavoro del suo amico Spector, tra tutte considerava la versione di Across the Universe pessima, stonata, troppo veloce, per esempio. Ma Lennon ha cambiato opinione parecchie volte e nella maggior parte dei casi se ne infischiava.

La propaganda anti-elettronica non aveva funzionato, ma il claim «ecco i Beatles al naturale» come annunciavano le pubblicità, invece, era più realistica che mai: i Beatles al naturale non esistevano più. E infatti Let It Be uscì, come abbiamo detto, praticamente postumo, anche se ufficialmente e burocraticamente lo scioglimento avvenne dopo, addirittura Paul aveva già pubblicato un disco solista.

Neanche dopo l’uscita di Let It Be… Naked del 2003 questo disco ha trovato una specie di pace, perché è un’opera incompiuta, ma non davvero maledetta, non gode del fascino della tensione e dello sfacelo. Forse perché, pur trattandosi di un disco oggettivamente mediocre nella discografia dei Beatles, ma che trattandosi pur sempre dei Beatles, schizzò comunque al primo posto, così come tutti i singoli, come se non bastasse la colonna sonora del documentario ha vinto un Oscar. Come si fa a parlare di fallimento? Forse è proprio questo il problema dei Beatles, la loro condanna. In otto anni che, attenzione, sono davvero pochissimi, hanno concentrato una storia troppo grande, un successo troppo incommensurabile, che non ammette nemmeno un reale passo falso, anche l’implosione è uno spettacolo. Chissà quanto deve essere stato doloroso e alienante. È una storia solo per folli, solo per il Novecento. Non ci resta che celebrarla e continuare ad ammirare ancora la supernova che brilla nell’universo.

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