L’ultima volta che sono andato a trovare Brian Wilson | Rolling Stone Italia
Buone vibrazioni

L’ultima volta che sono andato a trovare Brian Wilson

Il racconto intimo di un amico. E la playlist che il genio dei Beach Boys gli ha lasciato

L’ultima volta che sono andato a trovare Brian Wilson

Brian Wilson

Foto: Kevin Winter/Getty Images

L’ultima volta che ho visto Brian Wilson è stato a marzo di quest’anno. Da quando la moglie Melinda è morta nel 2024 ho preso l’abitudine di andarlo a trovare ogni due o tre mesi. Brian aveva smesso di andare in tour da un paio d’anni e faceva una vita da pensionato. Guardavamo assieme documentari musicali e le partite dei Lakers, oppure ci rilassavamo in giardino mentre i suoi figli nuotavano in piscina o facevano i compiti al tavolo della cucina.

Il suo cane preferito, un barboncino nero di 12 anni con l’artrite chiamato Jet, gli stava sempre accanto e intanto una schiera d’altri cani abbaiava di gelosia in cucina. Ogni pochi minuti, Jet gli buttava in grembo un giocattolo masticato. Brian, che al liceo era uno sportivo e sognava di giocare nel ruolo di esterno centro per i New York Yankees, lo rilanciava tutte le volte dall’altra parte della stanza. A 82 anni aveva ancora un buon movimento di braccia.

Certi giorni andavamo in macchina fino a Malibu per mangiare pesce e bere frullati al Paradise Cove, oppure cibo thailandese nel suo posto preferito lungo la Pacific Coast Highway. Altre volte riunivamo un gruppo di cari amici di Brian per una cena a base di bistecche e crème brûlée da Musso & Frank a Hollywood.

L’ultima volta che sono andato da lui mi ha accolto con un’esclamazione gioiosa: «Jason Fucking Fine, non ci posso credere!». È scoppiato a ridere. L’aspetto era smunto e pallido, ma conservava ancora un che di giovanile, coi capelli argentati tirati indietro e gli occhi azzurri e limpidi che brillavano.

Conoscevo Brian da quasi trent’anni, non è stato per me solo un soggetto affascinante di cui scrivere, ma anche un amico premuroso e divertente, una delle persone più gentili e sensibili che abbia conosciuto in vita mia. Non l’ho mai sentito pronunciare una sola parola negativa su qualcuno, nemmeno su chi lo aveva sfruttato o trattato male. Ha sempre fatto il possibile per mettere a proprio agio tutti, che fossero amici o perfetti sconosciuti.

Poco tempo fa ci preparavamo a uscire da un hotel a New York e mentre scendevamo l’ascensore si è fermato a un piano. L’uomo che è salito ha sgranato gli occhi dopo aver visto Brian (lo riconoscevano ovunque andassimo). Era visibilmente nervoso mentre scendevamo assieme in ascensore. Brian gli ha messo una mano con gentilezza sulla spalla. «Non si preoccupi, signore», lo ha rassicurato, «la scortiamo noi in tutta sicurezza fino all’atrio».

Brian ha sopportato perdite enormi: la madre e il padre, i due fratelli, la moglie, membri della band. Quando è morto mio padre, mi ha chiamato. «Devo darti un consiglio, e non sarà facile da sentire», mi ha detto. «Ora fa male e non migliorerà mai. Ma è così che sai che lo ami e che lui amava te. È così che resterete legati».

Avevamo programmato di uscire per mangiare del sushi, ma per via degli incendi a Los Angeles le strade erano chiuse e l’aria era pessima, così Brian ha detto che potevamo starcene tranquilli a casa sua e «mettere su un po’ di musica». Lui diceva i titoli dei brani che voleva ascoltare, a partire da Be My Baby delle Ronettes che per lui rappresenta il vertice assoluto della musica pop. Stimava di aver ascoltato quella canzone «almeno 100 mila volte» da quand’è uscita nel 1963. Sorrideva e cantava le armonie come se lo stesse facendo per la prima volta. Abbiamo ascoltato anche George Harrison, i Bee Gees, pezzi meno noti dei Beach Boys e una selezione delle sue canzoni rock’n’roll preferite di Stones, Creedence, Buddy Holly. Sognava da tempo di fare un album di cover rock’n’roll. «Spero di esserne ancora capace, diceva.

Mentre ascoltavamo quelle canzoni m’è tornata in mente una conversazione che abbiamo fatto qualche anno fa. Era appena sceso dal palco a Los Angeles dopo aver suonato il suo album più famoso, Pet Sounds. O meglio, era sceso dal palco circa 45 secondi prima delle ultime note dell’ultima canzone, Caroline, No, e si era lasciato cadere pesantemente sulla poltrona reclinabile nera piazzata al lato del palco. «Spero che la mia musica piaccia, ma non lo saprò mai davvero», ha detto. Era abbattuto, nonostante il pubblico lo stesse acclamando.

Mi turbava il fatto che, pur avendo creato alcune delle musiche più belle e piene di vita di sempre, non si rendesse conto di quanto significassero per la gente. Quel giorno di marzo gliene ho parlato e gli ho chiesto se sentiva che la sua musica dava agli altri la stessa gioia e conforto che Be My Baby dava a lui. «Jason, lo so che la mia musica piace alla gente. Trasmette speranza e amore. La gente ha bisogno di vibrazioni positive nella propria vita, e io pure».

L’ultima playlist di Brian Wilson:

The Ronettes, Be My Baby
George Harrison, My Sweet Lord
The Rolling Stones, My Obsession
Bee Gees, Too Much Heaven
The Ronettes, Baby, I Love You
The Beach Boys, The Night Was So Young
Elton John, Someone Saved My Life Tonight
The Beatles, Strawberry Fields Forever
The Beach Boys, Please Let Me Wonder
Chuck Berry, Johnny B. Goode
The Beach Boys, Mt. Vernon & Fairway
Creedence Clearwater Revival, Proud Mary
Bob Dylan, Mr. Tambourine Man
Dennis Wilson, Pacific Ocean Blues
Buddy Holly, Rave On
The Crystals, Then He Kissed Me
The Beach Boys, It’s OK

Da Rolling Stone US.

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