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Lo street pop dovrebbe suonare come ‘Moonlight popolare’ di Mahmood e Massimo Pericolo

Il singolo della coppia che uscirà domani è l’incontro perfetto fra il pop raffinato di uno e lo stile grezzo dell’altro. È come rotolarsi nel fango con addosso un vestito di Gucci

Se Chef Rubio dovesse fare un nuovo programma basato su Moonlight popolare di Mahmood e Massimo Pericolo, oltre a far partire un numero indefinito di commenti al vetriolo sui social, dovrebbe chiamarlo Unti e pettinati. La collaborazione tra l’ex vincitore di Sanremo e una delle sensation del rap italiano dello scorso anno nasce nel segno dell’etichetta che da qualche anno a questa parte ha fagocitato il meglio dell’it-pop e il meglio del rap: lo street pop, quello che Spotify si è impegnato a descrivere come graffiti pop e che ultimamente Summertime ha reso centrale nella propria narrazione su Netflix.

Ma Moonlight popolare sembra quasi una provocazione a quel tipo di mondo e di patina, che ha pochi elementi di spicco e più sfortunatamente una gran quantità di roba indefinita che per abbracciare entrambe le fazioni si annacqua e si perde dietro la poca originalità.

Moonlight popolare invece ha ben chiaro fin dal titolo dove vuole andare e, finalmente, riesce ad abbracciare entrambe le fazioni, senza mancare di rispetto né all’una né all’altra, un po’ come quando negli Stati Uniti Kendrick Lamar si chiude in studio con la popstar di turno, senza rinunciare a essere Kendrick.

Fin dal titolo la distinzione è netta: le parti cantate in inglese rappresentano la matrice romantica e raffinata di Mahmood, che ci regala ciò per il quale ormai lo conosciamo. Un ritratto glamour di una parte di mondo e di vita che di glamour ha poco, uno Started from the Bottom arredato come uno di quei salotti in Brera che i poveracci come me possono solo sbirciare dalle finestre mentre camminano. Massimo Pericolo, invece, è popolare, grezzo, sporco, marcio. Eppure anche per lui è uno Started from the Bottom, tanto che ci ricorda che è “più famoso di Drake”.

Foto: Giulia Bersani

Qualche tempo fa Massimo Pericolo sosteneva che 7 miliardi era il primo pugno in una rissa, quello che ti lascia spiazzato. Moonlight popolare invece, anche a giudicare da quel che succede sui social di Pluggers (l’etichetta di Vane), è una di quelle gare di schiaffi in cui sai che il colpo arriverà, conta solo quanto lo piazzi bene. Così Massimo si veste di tutto ciò che fino a poco tempo fa infastidiva l’ascoltatore di rap classico: il pop cantato che lo accompagna, l’AutoTune sulla voce, il cazzo sul tavolo e il flexare i soldi. E lo fa essendo dannatamente rap, come dimostra lo special dopo il secondo ritornello.

Mahmood invece porta il pop fin troppo colorato della classica radio italiana in un ambiente torbido, sporco. Sguazza nel fango ma vestito Gucci, senza perdere la classe. In una gara di schiaffi sarebbe il ragazzino minuto, a cui probabilmente non daresti una lira, ma che conosce perfettamente la tecnica per sdraiare un armadio russo a due ante con un colpo ben piazzato.

È difficile immaginare quale sia il destino di Moonlight popolare, perché è un pezzo così particolare nel suo essere quello che lo street pop dovrebbe essere che in qualche modo uccide i tentativi continui di etichettare la musica, rendendo il tutto fluido come i tempi che viviamo.

Quasi provocatoriamente Massimo Pericolo sui social lanciava il pezzo dicendo “non ho mai scritto un pezzo pop”, con la risposta di Mahmood che era “non ho mai scritto un pezzo rap”. Niente di più vero, niente di più falso. Moonlight popolare è tutto questo, e perciò non è nulla di tutto ciò.

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