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Lo strano caso di Jacob Collier, troppo bravo per scrivere grandi canzoni

La padronanza totale della musica, la viralità, i concerti partecipati. Eppure manca qualcosa. Profilo di un talento capace di far meraviglie, ma anche di pubblicare pezzi poco comunicativi

Foto: Jenni Champion

YouTube ha fatto anche cose buone. Nel regno della perenne stimolazione audiovisiva può ancora succedere che il talento puro e la qualità riescano a incunearsi tra le maglie dell’algoritmo, emergendo dalla paludosa mediocrità sub-amatoriale della musica da cameretta. Chi ce la fa, tuttavia, deve aderire ai principi basilari della viralità, offrendo contenuti personalizzati, in grado innanzitutto di sorprendere, ma anche di essere facilmente fruibili e di generare reazioni.

Prendiamo lui, Jacob Collier, 30 anni ancora da compiere e principale pretendente al trono di genio musicale del nostro tempo. Figlio di una stimata direttrice d’orchestra, violinista e insegnante di musica, ha passato gran parte della sua adolescenza chiuso in camera circondato da decine di strumenti, tutti padroneggiati con estrema facilità. Tastiere, batterie, bassi, chitarre e strumenti a corde d’ogni sorta, oltre all’implacabile controllo della voce: quanto basta per rinnovare il modello one man band.

È questa la prima proprietà a posizionarlo al di sopra della media, quando nel 2011 decide di condividere i suoi giochi da camera sul web, pubblicando la sua versione di Pure Imagination (da Willy Wonka). A prima vista sembra l’ennesimo enfant prodige saputello e un po’ faccia da schiaffi (moltiplicata per sei), smanioso di generare meraviglia a rilascio immediato. Ma dopo 30 secondi — opportunamente, sul verso “traveling in a world of my creation” — accade qualcosa che ci fa drizzare davanti allo schermo: sembra un pitch modulator attivato all’improvviso, invece è un’ingegnosissima modulazione da Mi bemolle a Re maggiore, che ci porta davvero in un mondo di autentica creazione. Gli arrangiamenti del giovane Jacob sono uno showcase di sapienza armonica, ricco di dissonanze, voci ravvicinate, microtonalità (quella che utilizza gli intervalli inferiori al semitono, unità minima del sistema temperato). E generano reazioni. «Il tuo genio non passerà inosservato», profetizza un anonimo utente, prima che altri commenti entusiasti giungano da Steve Vai, Pat Metheny e KD Lang, che lo nomina «il ragazzo più talentuoso sulla terra».

Nel 2013 un’altra cover, Don’t You Worry ‘bout a Thing arriva agli occhi e alle orecchie dell’utente giusto: Quincy Jones. Il quale lo prende sotto la sua ala — «un padrino, più che un manager» dirà Collier — portandolo al Montreux Jazz Festival al cospetto di Herbie Hancock. Se Maometto non va in cameretta, sarà la cameretta ad andare da Maometto, pensa l’allora ventunenne, replicando sul palco la propria comfort zone domestica: una coorte di strumenti, sei loop station sincronizzate e, al centro della scena, un Harmonizer appositamente progettato con Ben Bloomberg del MIT Media Lab per cantare armonie a più voci in tempo reale.

Lo «scienziato introverso», come si autodefinisce il giovane musicista londinese, diventa demiurgo per folle crescenti di appassionati a cui non sembra vero di trovarsi finalmente al cospetto di un genio. Al quale, a sua volta, non sembra vero di poter coinvolgere migliaia di spettatori negli esperimenti ritmico-armonici con cui riprende le idee proposte anni addietro da Bobby McFerrin nel suo spettacolo Spontaneous Inventions. Da utente consapevole del web, sa benissimo che la sua fanbase è composta principalmente da musicisti o aspiranti tali, il che gli permette di spingersi in armonie a cinque parti e in percussioni vocali con la platea suddivisa in cassa, rullante e charleston

L’estetica da cameretta non può che plasmare il primo album, ovviamente intitolato In My Room e uscito nel 2016 per l’etichetta indipendente Membran, prima che le major inizino a bussare alla sua porta. A dispetto della giovane età, Jacob si dimostra scafato, riuscendo a imporre alla Universal un contratto che gli lasci margine di controllo artistico (attraverso la sua label personale Hajanga Records) e, soprattutto, tempo per progredire e portare avanti un percorso di studi musicali iniziato a 8 anni.

Le porte si aprono anche alle collaborazioni, destinate a diventare quasi bulimiche a un certo punto: «Una volta finito il tour di In My Room non ce la facevo più a stare solo», ha detto. «Volevo compagnia e volevo imparare dagli altri come migliorare la musica. E così ho avuto quest’idea oscenamente ambiziosa, un quadruplo album di ogni genere esistente, in cui ogni collaboratore fosse qualcuno da cui imparare»: tra i tanti, Steve Vai, Oumou Sangaré, Chris Thile, T-Pain, Kimbra, Mahalia, Tori Kelly e Brandi Carlile. È il seme del progetto Djesse, partito nel 2018 e giunto a compimento un paio di settimane fa con l’uscita del quarto volume che chiude il cerchio di questa prima lunga stagione senza però sancire con certezza la maturità.

Perché se ognuno dei primi tre capitoli aveva mantenuto una certa coerenza stilistica — orchestrale il primo, intimo il secondo, pop il terzo — l’ultimo album ci mette di fronte a un montaggio musicale postmoderno e senza contegno. O meglio, si potrebbe dire che Jacob, figlio del proprio tempo, sia passato dall’estetica di YouTube a quella dell’intelligenza artificiale: componi un pezzo usando 100 mila voci, aggiungi una parte centrale in ritmo latino, poi una sezione hardcore, eccetera.

Se questo conferma la sua straordinaria maestria tecnica e teorica, lascia il pubblico con un dubbio: è davvero necessario sfoggiarla tutta in ogni singolo pezzo? Non che sia un lavoro asettico, intendiamoci: la gioia compositiva dell’autore si percepisce tutta. Ma l’ascoltatore si ritrova nuovamente in uno stato di soggezione simile a quello dell’utente YouTube basito dalle prodezze dell’enfant prodige; o se vogliamo, dello spettatore che, galvanizzato dall’essere in grado di eseguire la propria parte, risponde a comando quando Jacob dirige il pubblico.

Più che una comunicazione attore-spettatore, un rapporto allievo-maestro; tanto più che Collier è perfettamente a suo agio nel ruolo del docente, come mostrano le sue numerose lezioni, le conferenze e le Logic Breakdown Sessions in cui esamina la propria musica in maniera chirurgica, illustrandone la costruzione. Per quanto riguarda il Collier compositore, invece, la sua musica è certamente ricchissima di tensione; quello che a volte manca è la necessaria risoluzione (della serie: anche Zappa sapeva rilassarsi).

Per dirla in altri termini, il rapporto è tra saturazione e maturazione, soprattutto emotiva. Il prodige non più enfant continua a stupire, ma non sempre riesce a comunicare. Figuriamoci se lui se ne cruccia:«Non mi preoccupo del prestigio o del genere», risponde, affermando di aver «così tante idee che la chiamo sindrome dell’infinito creativo: la sfida è trovare un modo per farle nascere nel modo più onesto e jacobean possibile».

In passato aveva detto egli stesso che alla fine dei quattro volumi di Djesse avrebbe imparato abbastanza per avviare una carriera artistica matura; recentemente però ha confessato: «Quando mi siedo per scrivere canzoni, la mia tavolozza di colori è così ampia che a volte è difficile concentrarsi».

Se è difficile per lui, figurarsi per gli ascoltatori, la cui compagine infatti si divide a metà. Chi riesce a seguirlo trova un legittimo giovamento intellettuale nelle avventure microtonali e poliritmiche intraprese da Collier. Che però si colloca coscientemente nell’ambito pop, segnato da una comunicazione più paritaria tra artista e pubblico. Manca, insomma, il coinvolgimento emotivo con la seconda fetta di pubblico (non meno legittima della prima) e l’utilizzo di un linguaggio condiviso: a meno di non scoprire, come avvenuto per i grandi geni del passato, di essere già al cospetto di un idioma destinato a diventare centrale per la musica dei prossimi anni.

Nel frattempo, anche la critica si ritrova su due fazioni contrapposte. Qualche tempo fa il New York Times lo ha definito «uno sbalorditivo prodigio musicale con canzoni stranamente banali», alla faccia dell’ossimoro. Altri hanno chiesto a Herbie Hancock un paragone per il giovane prodigio. «Forse Stravinsky» ha risposto lui, alla faccia dell’iperbole.

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