Estate, stagione di grandi eventi, concerti, giornate d’attesa per big nazionali e internazionali, musica, sudore, adrenalina e sentiti appelli dal palcoscenico per il rispetto dei diritti umani. Poi ecco il contraltare della cronaca a informarci dei diritti negati, sotto quello stesso palco, a chi con disabilità per esser lì ha superato un percorso ad ostacoli. «Immaginate di voler andare a un concerto e siete in carrozzina», dice Sofia Righetti Nottegar, filosofa, formatrice DEI (Diversity, Equity, Inclusion) e attivista. «La prima cosa che dovete fare è sbrigarvi. I posti sono pochi, pochissimi, lo 0,5% su un 15% di popolazione disabile» e la prenotazione si effettua via e-mail solo in determinate date ed entro fasce orarie prestabilite, sempre diverse.
Siamo a Roma, Palazzo Madama, in pomeriggio di inizio luglio, ad ascoltare vissuti che in troppi ignoriamo e le istanze convergenti, già riflesse in emendamenti, del Comitato per i concerti accessibili e della prima associazione italiana di categoria, di e per artisti con disabilità, Al.Di.Qua.Artists – Alternative Disability Quality Artists. Ma torniamo al concerto, la corsa per la conquista del nostro posto è partita, adesso sappiamo che per la sua assegnazione vige la prelazione. «A chi ha la disabilità più alta e a chi invia per primo i documenti medici, l’attestato di disabilità, la carta di identità, altri documenti firmati che variano a seconda dell’organizzatore», spiega Righetti. Se siete fortunati, riceverete una conferma e potrete godervi il concerto, senza però i vostri amici: «È previsto che con voi ci sia solo una persona, l’accompagnatore, e non è detto possa restare sulla pedana rialzata dove sarete accompagnati insieme ad altri spettatori e da cui il concerto si vede lontanissimo, o non si vede affatto. Anche andare a prendere da bere o da mangiare diventa impossibile, perché la pedana è così piccola che se perdi il posto ci saranno altre persone disabili ammassate davanti a voi». Questa è libertà? E senza libertà, dov’è la parità?
Da qui, a cascata, i primi imprescindibili obiettivi del manifesto Live for All, frutto di un’azione collettiva ideata dall’avvocata e Consigliera lombarda Lisa Noja più di un anno fa, e condivisa con diverse attiviste, dando vita a un omonimo movimento costantemente in crescita sulla piattaforma di petizioni Change.org, che ha tradotto le proprie finalità in emendamenti migliorativi rispetto alla proposta di legge n. 1536 sulla partecipazione delle persone con disabilità a spettacoli e manifestazioni sportive. Tale proposta, ferma alla Camera dallo scorso gennaio, è ritenuta dal movimento assolutamente insufficiente rispetto al necessario smantellamento degli ostacoli che si frappongono all’accesso universale alla cultura e alle sue molteplici espressioni. La richiesta alla politica pertanto è quella di riprenderla in esame e approvarla quanto prima assimilando le modifiche proposte che toccano tutto l’iter di fruizione dello spettacolo dal vivo.
Si parte dai biglietti trasparenti, prenotabili nelle stesse date e attraverso gli stessi canali riservati al resto del pubblico, con modalità universalizzate e costi commisurati alle condizioni di accesso e differenziati rispetto alla collocazione del posto, come per tutti gli altri. «I numeri dei posti accessibili sono segreganti per la nostra socialità», dice Valentina Tomirotti, giornalista, esperta di comunicazione digitale e attivista, «non dobbiamo essere obbligati a scegliere con chi condividere quel momento di gioia, né sentirci relegati in aree recintate, con visuali precluse, transenne, persone in piedi e regole di sicurezza». Si intende infatti stabilire un numero di posti massimo possibile secondo la struttura coinvolta e distribuiti in più settori. Le attuali collocazioni sembrano rispondere, più che a logiche di security, a una barriera culturale comune a più ambiti della società, in cui si scambia il dare spazi d’autonomia a persone con disabilità con la concessione di spazi di controllo. Partecipare va bene finché stai nel tuo.
Si resta quantomeno perplessi nell’apprendere come a persone cieche venga sottratto il bastone in quanto potenziale arma contundente. «Spesso la sicurezza diventa un alibi, dietro cui si celano gli organizzatori», dice l’avvocato Alessandro Gerardi dell’Associazione Luca Coscioni, che ha assistito legalmente, vincendole, cause per condotta discriminatoria ai danni di spettatrici con disabilità, come quella contro la Fondazione Arena di Verona e Vivo Concerti. E se il sostantivo accessibilità non si identifica col mero ingresso in un luogo ma con l’effettiva fruizione dei suoi contenuti, si deve tener conto di tutte le disabilità, fisiche, cognitive, sensoriali. «Bruce Springsteen a San Siro ha fatto un discorso contro Trump interamente sottotitolato, allora perché non sottotitolare sempre tutto?», domanda provocatoriamente Noja. «I Coldplay usano la LIS nei loro concerti e gli zainetti sensoriali (progettati per trasmettere il suono attraverso vibrazioni a persone sorde e contenenti strumenti che attutiscono la sovrastimolazione in ambienti affollati, come cuffie e palline antistress). Anche i Pinguini Tattici Nucleari hanno iniziato ad utilizzare la LIS, gli strumenti oggi ci sono, non metterli a disposizione vuol dire continuare a trattare le persone come cittadini di serie B».
Diversi artisti nel cinema e nella musica ultimamente si espongono in tema d’accessibilità. «Oggi a sostenere la nostra azione per i diritti ci sono le Karma B, famose drag queen cui sono grata, loro comprendono cosa significhi sentirsi escluse, capiscono la nostra battaglia. Ho apprezzato tantissimo Francesca Michelin che ha diffuso questo incontro in Senato sui suoi social, così come Ficarra e Picone», continua Noja. «Mi piacerebbe che sempre più artisti, si unissero mettendoci la faccia, magari quelli con potere contrattuale più forte che forse possono correre il rischio di discutere con i propri promoter o impresari, esigendo che i loro spettacoli siano godibili da tutti. In fondo la lotta per i diritti che non costa nulla resta un proclamo e questo è vero in generale».
E se fino a qui siamo rimasti tra il pubblico, il quinto obbiettivo del manifesto, ad oggi sottoscritto da più di 30 mila persone, ci collega dritti alle istanze trasversali dei professionisti con disabilità che sui palchi ci lavorano, vale a dire la realizzazione di infrastrutture, nuove o in ristrutturazione, secondo i principi della progettazione universale che coinvolga le associazioni rappresentative delle persone con disabilità.
«Mi dispiace, i camerini del teatro non sono accessibili, puoi cambiarti nel bagno del bar di fronte o in macchina», «non ho tempo per adattare la coreografia alla tua carrozzina», «non prevediamo la copertura economica per l’assistenza alla persona» sono solo alcune delle testimonianze riportate in Senato da Giorgia Meneghesso, cantante, performer e attivista. Anche qui l’esclusione inizia a monte della filiera: «Dalla possibilità di accedere o meno a un programma di formazione», spiega l’artista e attivista Chiara Bersani a nome di Al.Di.Qua.Artists. «La gran parte delle accademie e delle scuole d’arte non sono accessibili, per architetture e per la preparazione del corpo docenti, ancora non adatti a valorizzare l’espressività di studenti e studentesse con disabilità». Una progettazione universale per l’apprendimento dunque, una didattica radicalmente inclusiva diventa cogente sin dai primi stadi dell’educazione artistica.
E vogliamo parlare del mondo del lavoro? Bandi e selezioni pubbliche, pur inclusive nel linguaggio restano nei fatti impraticabili: «L’avviso richiede velocità, produttività, competitività», continua Bersani, «progetti misurati prevalentemente con indicatori quantitativi mentre le nostre esperienze incarnate chiedono lentezza, tempi di riposo, sostegno reciproco. Chiediamo quindi che le open call scritte sui nostri corpi siano monitorate e valutate da esperti competenti».
Da cinque anni l’associazione ha aperto un tavolo di lavoro per richiedere, in questa circostanza più che mai, l’istituzione di un fondo dedicato «che copra i costi di assistenza personale, la messa in accessibilità di sala prove, camerini, alloggi e trasporti, nelle fasi di produzione e tournée. Diversamente» prosegue Bersani «tali oneri restano destinati a ricadere o sul lavoratore o sulla produzione che inevitabilmente sceglierà un profilo meno richiedente».
L’asimmetria del percorso di carriera di un professionista con disabilità è profonda a maggior ragione se consideriamo l’irrisoria fascia di reddito annuale oltre la quale si perde il diritto di ricevere la pensione d’invalidità, limite che si chiede a gran voce di rivalutare, in virtù della natura intermittente del lavoro artistico. «Nessuna persona dovrebbe sentirsi costretta a scegliere tra ricevere un sostegno per l’assistenza o poter vivere un’esperienza lavorativa». Alla luce di questo, quali risorse intende mobilitare il governo, per le pari opportunità a chi lavora nello spettacolo e vive con disabilità?
Esperienze fuori dai quotidiani radar che non lasciano indifferenti. «Qualunque amministratore se non illuminato, quantomeno furbo, dovrebbe occuparsi con urgenza di tali questioni», dice il senatore Ivan Scalfarotto. «Parliamo di uguaglianza, che deve essere sostanziale e al tempo stesso formale, altrimenti sarà come portare sempre il cartello di Rosa Parks, che poteva salire sul bus, ma non accedere ai sedili che voleva».
E in tutto questo racconto del reale, insieme al potenziale rivoluzionario degli emendamenti per una legge finalmente inequivocabile, c’è chi nel disagio coglie l’aspetto evolutivo. È Michele Adamo, membro della Federazione Italiana per i diritti delle persone con disabilità e famiglie e segretario dell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare: «Vent’anni fa, ovunque volessi andare mi presentavo ed entravo, senza necessità di prenotazione, senza alcun problema. Oggi se non prenoto rischio di non trovare i biglietti e questo è fantastico, perché prima le persone con disabilità non prendevano nemmeno in considerazione molte attività sociali. C’è la voglia di partecipare alla vita culturale e la consapevolezza di poter esigere un diritto costituzionale. Gli eventi ci aiutano a socializzare perché la socialità non è innata nell’essere umano, se non viviamo alcune dinamiche, se non facciamo alcune esperienze non cresciamo».
E se per allargare la platea dei direttamente interessati tutto questo non bastasse, Adamo sposta la riflessione sui bisogni: «I bisogni come i diritti sono trasversali, spesso sono comuni a persone in situazioni non necessariamente legate alla disabilità, penso a una persona in tarda età, una mamma con passeggino, un’interruzione anche temporanea della propria autonomia. Mi vengono in mente le sale blu delle stazioni ferroviarie, un servizio cresciuto moltissimo perché risponde ai bisogni della fragilità».








