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Leonard Cohen, ‘Thanks for the Dance’ è un addio pieno di grazia e dignità

Nel disco costruito attorno alle sue ultime registrazioni, il grande cantautore si congeda accettando serenamente la vita e la sua fine. E che voce: sempre più rauca, profonda, meravigliosamente senile, inimitabile

Foto: Frazer Harrison/Getty Images

C’è un passaggio semplice e assieme potente a metà del nuovo disco di Leonard Cohen, la prima e a quanto pare ultima raccolta d’inediti pubblicata dopo la morte. Lo si ascolta nella canzone che dà il titolo all’album, Thanks for the Dance. Era già stata interpretata in altra versione da Anjani Thomas, la voce femminile presente nella versione originale di Hallelujah. Cohen l’ha riscritta e l’ha trasformata in un commiato asciutto e toccante. “Grazie per il ballo”, recita con la grazia e la signorilità che l’hanno sempre contraddistinto. “È stato un inferno, è stato grandioso, è stato divertente. Grazie per tutti i balli”. Si capisce che la danza di cui parla è la vita che sente svanire. Mentre lo ascoltiamo contare gli ultimi passi di valzer, “un due tre, un due tre, uno”, pare di vederlo scomparire all’orizzonte con addosso un completo gessato dall’ampio risvolto e in testa un fedora.

Thanks for the Dance è il disco in cui Leonard Cohen svanisce lentamente, con grazia e dignità. Se You Want It Darker, pubblicato nell’autunno del 2016 due settimane prima della morte, era una meditazione sul dolore personale e collettivo e aveva timbri cupi e un tono a tratti apocalittico, Thanks for the Dance racconta l’accettazione serena della vita e della sua fine. Cohen ha inciso le parti vocali di entrambi i dischi sapendo che sarebbe morto. S’è aggrappato all’idea di lasciare un’ultima testimonianza registrando le sue poesie nella casa di Montreal, seduto su una poltrona medica e imbottito di antidolorifici che gli permettevano di sopportare fratture vertebrali multiple da compressione.

Oggi, come in parte ai tempi di You Want It Darker, ci ha pensato il figlio Adam Cohen, a sua volta cantautore, a musicare i testi recitati dal padre. Costruire un album attorno alle parole di uno dei massimi autori della canzone del Novecento è cosa imprudente e rischiosa. Adam ha affrontato il compito rispettando il linguaggio del genitore. Sapeva quel che il padre voleva. E del resto Leonard aveva scelto lui per lavorare a You Want It Darker, non i produttori che bussavano alla porta, i migliori, Rick Rubin, Daniel Lanois, Don Was.

E così, Adam ha chiamato a raccolta alcuni musicisti che accompagnavano Leonard Cohen negli ultimi tour e qualche voce famigliare come Jennifer Warnes e Sharon Robinson. A quel punto il disco era finito, ma era stato troppo facile, troppo scontato forse. E allora Adam ha chiamato a raccolta gente come Beck, Feist, Daniel Lanois, Richard Reed Parry degli Arcade Fire, Dustin O’Halloran, Damien Rice, tra gli altri. Ognuno ha lasciato un piccola testimonianza di sé nel disco, un suono, un passaggio, una voce. Come quando si lascia un sasso sulla tomba delle persone care – così Adam Cohen ha descritto il processo di registrazione.

Beck e Adam Cohen

Queste canzoni non sono state incluse in You Want It Darker perché il tono più leggero e a tratti malizioso non sembrava adatto a quel grande finale. Nell’album del 2016 erano preponderanti i cori maschili, in questo tornano le voci femminili che hanno caratterizzato parte della carriera di Cohen e che sono il perfetto complemento alla sua voce sempre più rauca, profonda, meravigliosamente senile. È come se Cohen recitasse i suoi versi direttamente nelle vostre orecchie. Potete coglierne il timbro meravigliosamente scuro, potere sentirne il respiro.

Non c’è un solo minuto di Thanks for the Dance che fa pensare che sarebbe stato meglio non musicare questi versi. Si può criticare la mancanza di audacia degli arrangiamenti. Si può notare la somiglianza fra questo repertorio e quello classico di Cohen. Ci si può lamentare della ridotta musicalità di un paio testi, del fatto che alcune canzoni somigliano a spoken word. Ma pur essendo un disco registrato in modo precario e prodotto musicalmente in assenza del suo autore, Thanks for the Dance è un’esperienza potente.

Il suono arabeggiante e materico del liuto spagnolo di Javier Mas dà a Happens to the Heart un tono quasi mistico, gli archi degli s t a r g a z e offrono varietà melodica e armonica. In Puppets, il cantante immagina il mondo popolato da marionette e arriva a recitare versi spiazzanti, buffi e terribili come “le marionette tedesche hanno bruciato gli ebrei”. In The Night of Santiago, Cohen si cala nei panni del protagonista di La sposa infedele di Federico Garçia Lorca (“toccai i suoi seni addormentati e mi si aprirono subito come rami di giacinti”) per raccontare una storia di sesso e tradimento senza alcun giudizio morale sulla protagonista, che afferma d’essere nubile e che invece ha marito e figli. E del resto, canta Cohen impartendoci l’ennesima lezione, “siete nati per giudicare il mondo / perdonatemi, io no”. I versi di Lorca, “Non voglio dire, da uomo, le cose che lei mi disse”, sono perfetti in bocca a uno degli ultimi gentiluomini che erano rimasti nel pop.

Il quaderno su cui Leonard Cohen ha appuntato il testo di ‘Thanks for the Dance’

Alcuni testi sembrano ritrarre la condizione estrema in cui l’uomo li ha registrati. È il caso della citata Thanks for the Dance e di Moving On, che parla della scomparsa di una persona cara, forse una donna amata con devozione. O di The Goal, con un attacco che sembra fotografare lo stato del cantante (“Non posso lasciare casa, né rispondere al telefono, sto di nuovo cadendo, ma non sono solo”) e un finale pazzesco sulla finitezza dell’uomo e sullo sforzo vano d’afferrare il senso ultimo dell’esistenza: “Sono quasi vivo, sono quasi a casa. Nessuno da seguire, non ho nulla da insegnare. Tranne che lo scopo non è a portata di mano”.

In altre canzoni emerge una sensualità che, oggi, rende il ricordo di Cohen più lieve. È il caso della scena descritta in It’s Torn: lui la spia da dietro una finestra, lei si scioglie i capelli, si toglie i sandali e il sale che il mare le ha lasciato sulle spalle sembra scintillare. Ma anche questa immagine di bellezza s’accompagna alla consapevolezza della caducità delle cose. E poi, la generosità d’intenti di Cohen e la sua modestia rappresentano una lezione di stile e di concretezza. Come quando in Happens to the Heart, canta: “Ho lavorato costantemente, ma non l’ho mai chiamata arte”. Oppure, quando nella finale Listen to the Hummingbird, accompagnato da un pianoforte che sembra suonato col pedale della sordina costantemente schiacciato, invita ad ascoltare non le sue parole, ma il canto dei colibrì.

Philip Glass, uno dei grandi compositori minimalisti d’America, altro gigante del Novecento, aveva musicato alcune di queste canzoni nell’album titolato come una raccolta di poesie di Cohen Book of Longing. Questo Thanks for the Dance non ha l’ampiezza delle visioni musicali del compositore che sono sostituite da suoni più intimi e folk, da timbri acustici palpabili. Ma ha una cosa in più: la presenza impressionante della voce narrante di Leonard Cohen attorno a cui tutto gira. Se nel disco di Glass la voce in I Can’t Make The Hills sembrava venire da lontano ed era sballottata dal suono di un violoncello che rimbalzava fra due note come un barchetta in balia delle onde, la versione della stessa poesia contenuta in quest’album è recitata con voce profonda, matura, espressiva. La canzone ha un passo costante segnato dal batterista Matt Chamberlain, che sembra imitare le drum machine che Cohen usava un tempo, e un coro femminile dell’altro mondo. La frase “il sistema è distrutto, vivo grazie a pillole per le quali ringrazio Iddio” è sempre drammatica, ma non sembra più funebre. Sembra provenire da un luogo di esperienza, saggezza e serenità.

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