Le popstar invecchiano, che problema c’è? | Rolling Stone Italia
Perimenopop

Le popstar invecchiano, che problema c’è?

Da Sophie Ellis-Bextor che rivendica con ironia la sua età a Shakira che balla sui guai, tattiche di resistenza all’ageism. Con un occhio all’esperienza di chi si è già sentita dire: «Non sei troppo vecchia per il pop?»

Le popstar invecchiano, che problema c’è?

Sophie Ellis-Bextor

Foto press

Sophie Ellis-Bextor ha intitolato il suo ottavo album Perimenopop, un gioco di parole fra “perimenopausa”, lo stadio che precede la menopausa, e “pop”. Al netto dell’ironia che contraddistingue la cantante britannica, siamo di fronte a una dichiarazione programmatica: trasformare il passaggio dai 45 ai 50 anni in materia pop, senza nascondersi. «Col passare degli anni mi sento molto più a mio agio, mi sto scrollando di dosso molte preoccupazioni superflue», ha detto al Guardian. Il disco, trainato da singoli come Relentless Love, Vertigo e Taste, porta nella narrazione mainstream un lessico finora tabù (vampate, stanchezza, slittamenti d’umore) e lo fa con l’eleganza glitterata di chi ha fatto del dance pop una casa: «Per certi versi credo di essere più brava a stare nei miei 40 che nei 20 anni». Basta guardare i suoi canali social per averne una riprova. L’operazione Perimenopop è più che un concept, indica una strategia. Dire a voce alta l’età, farne racconto, usarla come leva di empatia con chi ascolta.

Non è solo teoria. Dopo essersi mostrata nelle vesti di cantante e madre a tempo pieno nel periodo del lockdown, aver messo in piedi un podcast denominato Spinning Plates in cui dar voce ad altre mamme lavoratrici e dopo il rilancio globale di Murder on the Dancefloor (grazie a Saltburn), Ellis-Bextor ha spostato il baricentro dalla hit a tutti i costi alla qualità della presenza: i concerti dichiaratamente autoironici, gli show piccolissimi e curati, il contatto costante con una fanbase trasversale. Ha fatto cioè un uso adulto del pop: glamour senza feticci giovanilistici, memoria senza nostalgia, offrendo autenticità, uno specchio in cui parte del pubblico possa riconoscersi con maggiore profondità. La tesi di Sophie Ellis-Bextor è in sostanza questa: le artiste che oggi superano la soglia dei 45 anni possono rimanere rilevanti a patto che trasformino la maturità in estetica, politica e mestiere.

Il discorso sul perimenopop non riguarda però solo Ellis-Bextor. Altre star planetarie e più popolari di lei stanno convertendo la maturità in materiale creativo. Pensiamo a Shakira (48 anni) e Beyoncé (44 anni), che si muovono nello stesso delicato periodo. La prima ha trasformato la fase post-separazione in una rinascita pubblica e artistica, con singoli che mescolano pop, reggaeton e autoironia e che hanno trovato grande risonanza. La scelta di raccontare il dolore privato con un linguaggio diretto e ballabile ha riaperto un dialogo con un pubblico trasversale, dimostrando che la vulnerabilità può diventare carburante creativo anche oltre i 45 anni. Beyoncé, dal canto suo, ha usato i 40 anni per consolidare il proprio statuto di artista totale: «Più maturo, più mi rendo conto del mio valore», ha detto a Elle nel gennaio 2020. Il penultimo Renaissance in particolare è una celebrazione della dance e della black queer culture, un progetto che parla alle nuove generazioni ma allo stesso tempo afferma la maturità come leva di potere e di cura di un’eredità culturale. La sua capacità di dettare l’agenda estetica e politica del pop testimonia che la seconda metà della carriera può diventare una stagione di massima autorità.

Pink. Foto: Sølve Sundsbo

Artiste come Pink (46 anni, come Ellis-Bextor) e Christina Aguilera (44) hanno trasformato la fase di mezzo in un percorso di rilegittimazione: la prima con un corpo allenato e acrobatico come parte integrante del messaggio di resilienza, la seconda con un ritorno alle radici latine e un impegno crescente nella rappresentazione delle identità marginalizzate. Tutte dimostrano che l’età può diventare non un vincolo, ma un moltiplicatore di significati, aprendo nuove narrazioni che vanno oltre la semplice “sopravvivenza”.

È qui che la questione si intreccia con il mercato: gran parte del pop contemporaneo vive di tendenze estetiche, sonorità a presa rapida e algoritmi che privilegiano ciò che è o appare “fresco”, penalizzando chi sceglie tempi e linguaggi diversi. Ciò che ha funzionato in passato non è detto che risulti ancora attraente, l’industria e il pubblico mainstream faticano ancora a leggere la maturità come risorsa e non come limite. Eppure ci sono artiste che hanno accettato questa sfida già da tempo, oltrepassando la soglia del perimenopop e ricalibrando la propria carriera con scelte mirate: è il caso di Alison Goldfrapp, Kylie Minogue, Jennifer Lopez, che hanno trasformato la maturità in strategia estetica e politica, offrendo modelli diversi di longevità artistica.

«Mi dicevano che ero troppo vecchia per l’industria musicale già a 25 anni», ha raccontato al Telegraph Alison Goldfrapp, che ad agosto ha pubblicato il secondo disco solista Flux. Per la musicista britannica (59 anni) il concetto di ageing coincide con il riconoscimento autoriale. L’electro-pop ricco di riferimenti artistici e ricerca è rimasto cifra stilistica ma con il passare del tempo questo suo posizionamento è andato a rafforzarsi: meno dipendenza dai passaggi radiofonici, più coerenza con ciò che l’artista ha costruito, maggiore padronanza della propria presenza digitale. Tracce come Find Xanadu, Reverberotic, Sound & Light mostrano inoltre come Goldfrapp per evitare di essere ingabbiata nella categoria heritage act abbia scelto di indagare il proprio paesaggio interiore con strutture sonore e vocali più soffuse, pur mantenendo elementi dell’elettronica e del pop sperimentale.

«Non troppo tempo fa mi ritrovavo spesso a dover fronteggiare domande tipo: “Fino a che età è ancora accettabile fare pop o essere sexy nel pop?”. È stato imbarazzante dover giustificare la mia presenza in certi contesti», ha raccontato a People Kylie Minogue (57 anni). Dal canto suo ha risposto trasformando la sfida della longevità in vero e proprio linguaggio artistico, codificando cioè un vocabolario disco-house, synth pop e camp riconoscibile, ma aggiornato nel merito della produzione, dei formati e delle collaborazioni. Il suo “codice Kylie” incentrato su momenti ad alta densità (la residency di Las Vegas, l’effetto-meme di Padam Padam, il comeback ai Grammy) e singoli forti le ha consentito di ridurre il rischio che il nuovo repertorio venisse letto come una classica operazione nostalgia e di bypassare la barriera pregiudiziale dei media.

Kylie Minogue. Foto: Erik Melvin

Se poi ti chiami Jennifer Lopez (56 anni) tutto assume contorni ancora differenti perché scegli di trasformare la tua carta d’identità in una sorta di manifesto di resilienza. Nel 2019 JLo dichiarava a People: «Sono una donna, ho 50 anni, sono qui e non me ne vado», spostando la conversazione dal dato anagrafico all’importanza della perseveranza e coniando il mantra «sono giovane e senza tempo a ogni età», divenuto il pilastro del suo self-branding, dalla musica alla linea di cosmetici. Il suo percorso è stato accompagnato da immancabili polemiche (vedi il moral panic per il suo halftime show al Super Bowl, accusato di essere troppo sexy), concerti cancellati e flop discografici. Ma Lopez ha scelto di non arretrare: ha risposto con documentari che mostrano il lavoro fisico dietro le performance, con campagne “no filter” per rivendicare trasparenza e con l’uso della sua immagine come veicolo di empowerment. «La bellezza non ha una data di scadenza», ripete, e nel dirlo normalizza l’idea che la popstar non debba scusarsi per la sua età ma usarla come leva di potere.

In controluce c’è il precedente di Madonna, primo vero stress test su scala globale: il corpo, il desiderio, il potere, l’età, e la gogna dei social. Il suo status da superstar le ha concesso margini di sperimentazione più larghi, ma ha anche amplificato le critiche severe sui cambiamenti del corpo, sugli show, su come fosse giusto o sbagliato invecchiare. La lezione: l’immagine che evolve ma soprattutto l’età che avanza può essere un atto politico, ma spiana la strada anche a contronarrazioni feroci. Saperle assorbire fa parte del mestiere.

Resta da chiedersi per chi cantino, oggi, le artiste over 45-50. È ovvio che una ventenne trova più eccitanti Charli XCX o Chappell Roan di Kylie Minogue, sono specchi generazionali del tempo presente, scrivono per e attingono alla loro epoca, occupano feed e immaginari con linguaggi nativi digitali. Ma è altrettanto vero che un video virale o una scena al cinema (vedi Murder on the Dancefloor) possono aprire tunnel imprevisti verso i giovanissimi; e che la tribù coesa della clubbing culture non ragiona per anagrafe bensì per codici condivisi (suono, estetica, stile).

Le scorribande delle signore prese ad esempio – e l’elenco sarebbe ancora lungo – dimostrano che il rischio di apparire meno interessanti per le artiste di mezz’età è in parte un problema di contenitore: il racconto mediatico, concentrato solo sui picchi di carriera passati, finisce per dare l’impressione che tutto ciò che viene dopo sia un lungo epilogo. Sarebbe però riduttivo fingere che la qualità resti costante: ci sono album più scarichi, dischi sottotono, momenti di stanchezza creativa. È la natura delle carriere artistiche, e vale per tutti. La sfida sta proprio qui: distinguere tra fisiologico rallentamento e scarsa ricezione culturale, tra calo di ispirazione e resistenza sistemica dell’industria a riconoscere valore alla maturità.

Quando le metriche di valutazione riescono a cogliere entrambe le dimensioni – qualità artistica e rilevanza nel tempo – il pop di mezz’età non appare un compromesso nostalgico, ma un territorio in cui esperienza e rinnovamento convivono. E quando ciò accade (Ellis-Bextor, Goldfrapp, Minogue), è il pop stesso a guadagnarci, anche a costo di ammettere che non ogni disco è un capolavoro: proprio questo rende la narrazione più onesta, e le artiste più umane.