L’avventura dei Surprize, i bolognesi entrati nella Factory di Manchester | Rolling Stone Italia
Bolo-Manny e ritorno

L’avventura dei Surprize, i bolognesi entrati nella Factory di Manchester

Negli anni ’80, gli italiani hanno fatto parte del giro dell’etichetta dei New Order: il disco inciso in Inghilterra, l’ingresso in classifica, l’invito a trasferirsi lassù. «Dicono che siamo stati pazzi a non continuare, ma non abbiamo rimpianti»

L’avventura dei Surprize, i bolognesi entrati nella Factory di Manchester

Surprize

Foto per gentile concessione di Gianluca Patini

Sono quasi 1700 i chilometri che dividono Bologna e Manchester, più o meno lo stesso numero dei giorni di attività dei Surprize, l’unica band italiana ad aver fatto parte della galassia Factory Records. A Manchester il gruppo emiliano ci arriva nel 1984 per registrare il mini-album In Movement, prodotto da Donald Johnson degli A Certain Ratio e Bernard Sumner dei New Order, entrato anche nelle classifiche indipendenti britanniche.

La storia dei Surprize comincia sul finire degli anni ’70. Nello stesso periodo nasce la Base Record, etichetta bolognese che spazia dalla new wave al metal, pubblicando in Italia alcuni artisti della Factory e della Rough Trade, tra cui Joy Division, Pop Group, Fall, Wire e Cabaret Voltaire. A Bologna e dintorni la scena alternativa è infiammata da gruppi come Gaznevada, Skiantos, Disciplinatha, Nabat. Nel 1979 la città ospita il festival Bologna Rock, che vede sul palco la famosa spaghettata di Freak Antoni e compagni, oltre alle esibizioni di Gaznevada, Wind Open, Naphta, Luti Chroma. L’anno successivo in Piazza Maggiore ci sono i Clash che, freschi di London Calling, si lanciano in uno storico concerto particolarmente movimentato, aperto dalla band britannica Whirlwind e da quella fiorentina Café Caracas, in cui suona un chitarrista che di nome fa Ghigo e di cognome Renzulli, mentre il suo cantante si fa chiamare Raf. In questo clima effervescente, un gruppo di amici d’infanzia che ha cominciato a suonare all’oratorio e, poi, alle occupazioni del liceo prende in prestito il nome dal brano The Day My Baby Gave Me a Surprize dei Devo e si chiude in sala prove a lavorare sui suoi inediti.

I Surprize esordiscono nel 1981 con un 12” per la piccola etichetta new wave e punk ravennate LM Records di Luigi Mazzesi. Nel debutto due brani fortemente influenzati dalla miscela reggae e ska di matrice 2 Tone: nella Empty House del lato B risuonano fiati che fanno compagnia a un triste protagonista solitario, mentre l’allegria di Nu-Clear Dance nasconde i timori della «nuclear era» cantata dei Clash in London Calling e anticipa di qualche anno la «canzone da spiaggia post-atomica» Vamos a la playa dei Righeira. «In quel periodo eravamo stati a Londra, a Brixton», ricorda il chitarrista dei Suprize Gianluca Patini: «Lì avevamo scoperto l’interazione tra il punk, il reggae, lo ska e ne fummo folgorati. Il nostro amore indiscusso era la musica dub, il nostro eroe Linton Kwesi Johnson. Quindi a questo background abbiamo aggiunto le suggestioni che ci siamo portati dal Regno Unito sotto forma di vinili».

L’inizio del decennio rappresenta per i Suprize un periodo di intensa attività live: «Eravamo sempre in giro, suonavamo in pratica due, tre volte alla settimana», ricorda Patini. Nel frattempo gli ascolti di Brian Eno e Talking Heads contribuiscono alla costruzione di un sound più profondo, testimoniato dall’EP The Secret Lies in Rhythm, uscito per la Base Records nell’anno dei Mondiali di calcio in Spagna e dell’inaugurazione del club Haçienda a Manchester. Leaves Me Blind si lascia ammaliare dagli esotismi di David Byrne, tra chitarre new wave e fiati afrobeat; Don’t Want Be Easier prosegue su queste coordinate sonore, forte di un basso ipnotico che è la pietra angolare degli altri due brani, I Feel I Fall e Dark Days. Le cause scatenanti di questo cambio di sound sono, in particolare, My Life in the Bush of Ghosts e l’entrata nel gruppo del percussionista Francesco Garau, che fa conoscere alla band Head Hunters di Herbie Hancock. Garau completa una line-up formata dal bassista Luciano Graffi, dal batterista Mirko Pellati, dal trombettista Francesco Nemola, dal cantante Roberto Serra e dallo stesso Patini.

Surprize. Foto per gentile concessione di Gianluca Patini

Il manager dei Surprize è quel Fran Tomasi che nel 1989 riuscirà a far esibire i Pink Floyd a Venezia e che a inizio decennio, vedendosi saltare la possibilità di un tour italiano degli Spandau Ballet, riesce a organizzare alcune date dei New Order nella penisola. Così, tra il 16 e il 22 giugno 1982 la band nata dalle ceneri dei Joy Division è impegnata a suonare i brani del disco d’esordio Movement e del recentissimo singolo Temptation al Tenax di Firenze, al Piper di Roma, al palazzetto Tursport di Taranto, a quello dello Sport di Bologna e al Rolling Stone di Milano. Si tratta di un tour piacevole; Peter Hook ricorda una «memorabile» data pugliese e, forse, anche per questo si è alimentata negli anni la leggenda che il titolo The Beach – la b-side strumentale di Blue Monday – fosse un omaggio alle spiagge mediterranee italiche. Il bassista smentisce categoricamente, ma il clima disteso del tour favorisce anche le chiacchiere tra Bernard Sumner e i Surprize, la band chiamata ad aprire i concerti dei New Order, «il gruppo rock attualmente più amato e più seguito dai giovani appassionati a questo genere musicale», come scriveva il Corriere del Giorno.

A Bologna i Surprize giocano in casa e il pubblico si fa sentire. A fine concerto Robert Gretton – il manager dei New Order che aveva cambiato la vita ai Joy Division, nonché vero e proprio A&R della Factory e socio fondatore dell’Haçienda – chiama da parte Patini e gli fa: «I ragazzi vorrebbero che tu venissi a suonare nel nuovo disco». «Vi ringrazio, ma sarà per la prossima volta» è la risposta del chitarrista, che si sfila perché concentrato sui passi successivi del gruppo: finire di scrivere i nuovi brani e suonare in Europa. Ricorda oggi Patini: «Quindi andiamo a suonare in un festival internazionale a Bruxelles, lì la Factory Benelux ci propone un contratto che firmiamo subito e, dopo qualche mese ci dicono “Bernie Albrecht (vero cognome di Sumner, nda) vorrebbe produrre il vostro disco”».

La Factory Benelux era nata nel 1980 da un accordo tra la Factory e l’etichetta brussellese Les Disques du Crépuscule per consolidare la presenza della label mancuniana nel continente. I contatti tra le due realtà discografiche indipendenti erano iniziati alla fine degli anni ’70, quando i giornalisti Michel Duval e Annik Honoré avevano organizzato alcuni concerti di artisti Factory in Belgio. Durante il più importante, i Joy Division al Plan K nell’ottobre 1979, Ian Curtis conosce Honoré, la donna che metterà ulteriormente in crisi la sua vita matrimoniale, e si becca un bel «vaffanculo» dal suo idolo William Burroughs, per nulla d’accordo a regalargli un suo libro. Ben presto la Factory Benelux diventa un’occasione per mettere sotto contratto band dal sound sperimentale e variegato come Nyam Nyam e Lavolta Lakota dal Regno Unito, La Cosa Nostra dal Belgio e, appunto, i Surprize.

Il sestetto italiano fa quindi le valige per Manchester: si lascia alle spalle un paese in cui debuttano le Targhe Tenco, i CCCP Fedeli alla linea e i Diaframma, e arriva in un’Inghilterra dove esordiscono i Frankie Goes to Hollywood e Bob Geldolf mette in pratica le sue idee filantropiche. I Surprize registrano agli studi Revolution di Andy MacPherson. Donald Johnson produce e suona «in maniera impressionante» qualche parte, Bernard Sumner si occupa delle programmazioni e non si muove dal bancone del mix.

Johnson sorride quando comincia a fare mente locale, passa in rassegna i titoli dei brani e, poi, aggiunge: «Sì, mi sono divertito molto. Tanto che, alla fine, ho suonato in tutte le canzoni. Un po’ di basso qui, un po’ di batteria lì e ho arricchito le ritmiche con le percussioni». A Johnson e Sumner è piaciuto molto l’approccio dei Surprize, molto propensi a sperimentare tutti gli aspetti del loro sound. Il batterista degli A Certain Ratio continua: «Non sapevamo parlare italiano e loro parlavano pochissimo inglese, ma in studio siamo entrati in una sintonia perfetta e ci siamo divertiti molto a registrare il disco, che credo suoni ancora benissimo».

A completare l’elenco dei protagonisti di In Movimento c’è l’ingegnere del suono Stuart Pickering, perfetto per quel misto di lavoro «convenzionale, non ortodosso ed eclettico» che il duo di produttori faceva in studio. Johnson si dice orgoglioso dei progetti prodotti con Sumner: «Abbiamo sempre investito personalmente in tutti gli artisti con cui abbiamo lavorato e il nostro obiettivo principale era quello di realizzare grandi dischi senza tempo, cosa che, ripensandoci, credo abbiamo raggiunto».

Sicuramente, il lavoro sui Surprize è incisivo, racconta Patini: «Il nostro sound ha assorbito il carattere della città ed è diventato così più industriale, grazie soprattutto alla produzione, che ha aggiunto freddezza alle nostre radici reggae e dub». La title track è un vortice ritmico in cui si alternano fiati, riff ossessivi ed effetti digitali. Più spigolose ed esotiche, Parador Style e Over Italia non resistono al fascino del dancefloor, mentre la conclusiva Stavolta è più crepuscolare e meditabonda, come a voler sottolineare quell’incertezza che avvolgeva i Surprize.

Infatti, la band implode. Per una questione artistica: c’è chi vuole spingere verso la dance e chi pensa a un percorso più artistico. Poi, esistenziale: ai ragazzi viene chiesto di trasferirsi a Manchester per farne la loro nuova base logistica e poter partire con un tour nel Regno Unito, ma gli affetti, l’università e qualche turba giovanile hanno la meglio. Infine, nascono incomprensioni con la Factory Benelux. Patini ne parla con molta serenità: «A vent’anni ti costruisci delle priorità che col tempo possono cambiare. Ora come ora, sarei andato a registrare l’album con quei New Order e sarei rimasto a Manchester. Ma non posso lamentarmi di come sono andate le cose». Infatti, il chitarrista dei Surprize assieme al grafico del gruppo Igor Tuveri e Garau ha dato vita agli Slava Trudu!!, trio sperimentale prodotto dagli Yello che nel 1993 ha preso parte alla Biennale di Venezia, registrando una sezione curata da Pedro Almodóvar e Christian Leigh.

Surprize. Foto per gentile concessione di Gianluca Patini

Per tutto questo, i Surprize sono diventati nel tempo una piccola band di culto che sui blog di appassionati finiti nell’archivio di Wayback Machine – quelli in cui non poteva certo mancare un link da cui scaricare illegalmente i brani della band – i commenti vanno dal «forti» al «fantastici», passando per una roboante testimonianza dell’apertura a quei «New Order che nulla poterono per eguagliare la qualità dei bolognesi». Una recensione d’oltremanica pubblicata nel 2015 afferma che nella musica del gruppo «c’è qualcosa per un pubblico molto più ampio di quello che la band attirava trent’anni fa». In mezzo a quel pubblico c’era anche Gianni Maroccolo che, intervistato da Federico Guglielmi sul Mucchio Selvaggio del novembre 1982, arruolava Suprize e Frenetics tra i suoi preferiti del “nuovo rock” italiano. Infine, quella «magnifica summa di Andy Warhol, Tony Wilson della Factory Records e Abbie Hoffman», per usare le parole di Fabio De Luca, che risponde al nome di Oderso Rubini, chiosa con una nota di rammarico: «I Surprize potevano diventare un grande gruppo. Il primo che tentò la carta internazionale. Potevano».

«Durante il periodo a Manchester, eravamo quasi tutte le sere all’Haçienda», ricorda Patini, che ha accantonato definitivamente la musica. Adesso fa l’art director e, tra i vari lavori, si è occupato recentemente del progetto grafico di Maggese e de Il primo bacio sulla luna di Cesare Cremonini. Ovviamente, la sua è un’ottima storia da raccontare davanti a una birra: «Quando ne parlo con i miei amici, soprattutto con quelli che fanno i musicisti di professione, spesso mi sento dire “siete stati pazzi a non continuare!”, ma non abbiamo rimpianti».

Nessun rimpianto, nessun rimorso. Soltanto, certe volte, capita che, sbuca fuori una copia di Melody Maker del 31 marzo 1984. Ci sono i Madness in copertina e, sfogliandola, ci si imbatte nella pagina delle classifiche. Scorrendo le venti posizioni dei singoli indie, ecco in cima i Depeche Mode con People Are People, gli Smiths con What Difference Does It Make?. Più giù sbuca In Movimento dei Surprize, proprio davanti a Blue Monday dei New Order.

I Surprize rimangono così per sempre sospesi nel regno della possibilità: la loro intera discografia dura poco più di tre quarti d’ora ed è stata racchiusa nella versione rimasterizzata di In Movimento del 2013, che si trova anche nei servizi di streaming. Chissà cosa sarebbe successo se quel tour fosse iniziato e se la band fosse andata avanti. Vero, come dice Patini, «nessuna grande hit», ma how does it feel?

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