Gli Oasis iniziano ogni concerto dicendo «Stasera sono una rock’n’roll star», eppure il pubblico del leggendario Stone Pony ad Asbury Park, New Jersey, non li sta trattando come tali. Prima che la band inizi a suonare, dal fondo della sala sold out s’alza un grido: «Vaffanculo la Gran Bretagna! L’Inghilterra fa schifo! U.S.A.!». Dopo una sola canzone, gli Oasis vengono interrotti dal lancio di una lattina di birra. Quella specie di proiettile d’alluminio s’abbatte sul torace di Noel Gallagher inondando la sua Les Paul di schiuma appiccicosa.
«Segaioli, segaioli, segaioli», dice Liam Gallagher, il fratello. «Dove siete? Fateci vedere la vostra faccia di cazzo». Liam è quello con le sopracciglia spettacolari e il portamento gelido e statico, ma in questo momento è pronto a saltare giù dal palco. Solo le transenne gli impediscono di partire all’attacco. «Non suoniamo per i gorilla», rincara la dose Noel. Non è dell’umore giusto per cose del genere e non lo è anche il resto della band, che comprende il secondo chitarrista Paul “Bonehead” Arthurs, il bassista Paul McGuigan e il batterista Tony McCarroll. Sono nervosi, provati dal jet lag e forse anche mezzi ubriachi. Le Budweiser del catering sono roba leggera rispetto alla loro dieta a base di superalcolici e lager ad alta gradazione, ma a quanto pare stanno compensando con la quantità.
Se Noel Gallagher seguisse l’istinto, probabilmente scenderebbe dal palco e sparirebbe senza neppure offrire al pubblico il rimborso del biglietto. In passato, gli Oasis hanno troncato i loro concerti di fronte a comportamenti del genere, ma forse sanno che stasera ci sono tante altre persone che vogliono vederli. La loro musica sta iniziando a prendere piede anche nei Stati Uniti soprattutto grazie a Live Forever, inno rock sognante mid tempo sembra fatto apposta per essere cantato a squarciagola in coro ai concerti, ma anche da soli in auto.
E così gli Oasis resistono. Per Liam Gallagher, significa impugnare il tamburello a forma di stella manco se fosse un’arma, indicarsi il petto come per dire «venite a prendermi, stronzi», scuotere ripetutamente il pugno verso i crowdsurfer, cantare intere strofe con le due dita aperte, la versione britannica del dito medio. Parte del pubblico gli risponde mostrandogli il tradizionale dito medio americano.
Mentre Liam s’infuria e fa il duro, il fratello maggiore si limita a insultare. «Non ci meritate», dice Noel con un ringhio. Le sue parole di commiato di questa sera, pronunciate con assoluta nonchalance, sono «grazie, andate a fare in culo». Non c’è nessun bis.
La reputazione degli Oasis di ragazzacci con la passione per l’alcol, la droga e il vandalismo, per non parlare delle occasionali risse tra i due fratelli, è entrata quasi istantaneamente nella leggenda del Brit pop. Prima che la band pubblicasse il debutto Definitely Maybe era stata allontanata con la forza sia da un traghetto olandese (dopo un breve tour del Paese) che da Stonehenge. Quando sono finiti per la prima volta sulla copertina del New Musical Express hanno distrutto il bar di un hotel lasciando dietro di sé una stanza piena di bottiglie rotte e una piscina piena di mobili. «Quelle vetrate dicono solo: “Tirami una sedia!”», ha esclamato Noel nel bel mezzo di quell’attacco di follia. Forse negli Oasis c’è qualcosa che dice: «Tirami una lattina!».
Ma tutto ciò accadeva quasi un anno fa. Adesso Noel Gallagher è tranquillamente seduto in un angolo vuoto del lounge dell’elegante Hotel Macklowe di New York. È mezzogiorno in punto, ha in mano il primo drink della giornata e minimizza il passato turbolento della band, anche se non smentisce nulla. «Il 90% di quello che la stampa scrive è vero e il 10% è esagerato», dice. «Per loro è più facile scrivere che hai i calzini rossi o che ti droghi».
Gli Oasis stanno volentieri al gioco della creazione di miti. «È roba interessante da leggere per i ragazzi», dice Noel, «a patto che ci si renda conto che dietro ci sono grandi canzoni. Il nostro atteggiamento e il nostro essere rock’n’roll non fanno vendere dischi: all’inizio potrebbe succedere, ma non dura. I Rolling Stones erano considerati molto rock’n’roll all’inizio, ma se erano una grande band non è perché Mick e Keith sono stati arrestati, ma perché hanno scritto Jumpin’ Jack Flash. È la musica che rimane».
Se vogliamo rendere giustizia sia ai Rolling Stones che agli Oasis, l’attitudine fa parte di ciò che rende grande una band. Il talento e le performance possono portare solo fino a un certo punto, la visione e la chimica un po’ più in là, ma la rock’n’rollness fa la differenza, non come fattore che esiste indipendentemente dalla musica, ma come elemento che dà vita alla musica stessa: sfrontatezza senza freni, emozioni incontrollabili, uno spirito indomabile che si scatena, sogna e sputa in faccia al grigiore. Non pochi testi di Noel Gallagher parlano di fantasie di fuga e di possibilità infinite: “Vorrei essere qualcun altro”, “Stasera sono una rock’n’roll star”, “Troveremo un modo per inseguire il sole” e ovviamente “Io e te vivremo per sempre”. «Penso che sia un bene essere un po’ pericolosi», dice Liam Gallagher. «Ci sono un po’ più di ragazzi che dicono: “Fanculo, posso avere quello che voglio dalla vita”, ovvero letteralmente qualunque cosa».
Come il fratello, Liam beve Jack Daniel’s e Coca-Cola («È un medicinale») ed è piazzato allo stesso tavolo. Ma sono passate parecchie ore e ormai è pomeriggio, perché i Gallagher non rilasciano interviste insieme. Un tempo lo facevano, ma troppo spesso battibeccavano e finivano per scazzottarsi, con l’intervistatore che guardava e prendeva appunti. Adesso cercano di stare alla larga l’uno dall’altro, tanto che nei due giorni seguenti si rivolgono a stento la parola.
Le risse succedono. Chuck Cleaver degli Ass Ponys ne è stato testimone quando la sua band ha suonato con gli Oasis a Memphis. «Stavano autografando un poster per un fan», racconta Cleaver, «e Liam ha scritto: “Dalla star del palco”. Allora suo fratello ha scritto: “Dal padrone della star del palco”. Liam si è incazzato, ha tirato una sedia a Noel, gli urlava: “Segaiolo!” e “Bastardo arrogante!”».
A Liam sono riservate le attenzioni tipiche del sex symbol della band, ma poco credito in quanto musicista. Noel è invece celebrato come artista visionario. Entrambi assicurano che non è nulla di che. «Siamo solo io e mio fratello che litighiamo e siamo in una band insieme», dice Liam. «Se non fossimo in un gruppo, ce la vedremmo fra di noi a casa. Se avessimo un negozio di frutta e verdura, il Gallagher’s Greengrocers, bisticceremmo per decidere da che parte mettere le mele o le cazzo di pere».
Per Noel Gallagher, tutto viene dai Beatles. Aveva 13 anni quando suo padre, un dj con la passione del country & western, gli ha comprato la prima chitarra. Ticket to Ride è stata la prima canzone che ha imparato a suonare. «Ancora adesso non so le parole», scherza. Da quel momento in poi non c’è stato nient’altro nella sua vita. Di certo non la scuola. «Dopo aver imparato a leggere e scrivere, la metà delle volte ho bigiato. Non so nemmeno fare lo spelling, ma a che serve? Non era utile per il musicista che era in me».
Per più di 10 anni, però, Noel ha tenuto per sé il suo talento. Se ne stava seduto a casa a scrivere canzoni o scorrazzava per Manchester mettendosi nei guai, sniffando colla o commettendo piccoli reati. «Scriveva canzoni buone, ma non aveva una band», ricorda Liam che ha avuto una giovinezza altrettanto irrequieta: giocava a calcio e marinava spesso la scuola. Verso il 1985 i loro genitori hanno divorziato e da allora i due non hanno più avuto contatti col padre. «È uno stronzo», dice Liam. «L’ultima volta che l’ho visto è stato in coda per prendere il sussidio, era in fila prima di me».
A differenza di Noel, al giovane Liam non è mai interessato fare musica. Le cose sono cambiate nel 1989, quando Manchester, trainata dagli Stone Roses e gli Happy Mondays, è diventata Madchester, la città musicale più calda del Regno Unito, con una scena folle, vitale e importante quanto quella di Seattle negli Stati Uniti. I fratelli andavano tutte le sere all’Hacienda, il cuore della scena che pulsava a forza di rock, dance ed ecstasy. A quel punto Noel ha fatto il suo primo passo verso il rock’n’roll, anche se modesto: è diventato roadie per gli Inspiral Carpets e per diversi anni ha fatto vita da tour.
In assenza di Noel, Liam si è trovato a rivivere la più antica storia del rock’n’roll. Come dice Paul “Bonehead” Arthurs, «non avevamo nient’altro da fare». Arthurs si è conquistato il soprannome Bonehead in qualità di cattolico irlandese sempre ben pettinato in mezzo ai bambini hippie e capelloni degli anni ’70. «O entravi in una band» dice «o ti sbronzavi ogni sera». O entrambe le cose.
L’unico problema era che la band era pessima. Anche Noel, al suo ritorno da un tour americano, ha subito pensato che gli Oasis facevano schifo. Ma è rimasto sbalordito scoprendo che quel rompiscatole di suo fratello sapeva cantare. Ha accettato di entrare nel gruppo come chitarrista solista e autore dei pezzi, dicendo, come ricorda Noel, «posso farlo solo in un modo: devo avere il controllo totale».
Quella degli Oasis sembra la classica storia di successo improvviso, ma in realtà hanno passato due anni a perfezionarsi, fino a quando ogni cosa è stata all’altezza delle capacità autoriali di Noel. Poi è arrivato il successo, rapidissimo. Si dice che le cose siano andate più o meno così: la band è andata in un club di Glasgow, dove, minacciando di dar fuoco al locale, si è inserita a forza in una serata con un paio di formazioni minori della scuderia della superindie britannica Creation. Nel bel mezzo della loro cover di I Am the Walrus, il fondatore della Creation, Alan McGee, si è precipitato sul palco insistendo per metterli sotto contratto.
La verità è giusto un filo meno fiabesca, spiega Noel: «Lui non è salito sul palco e noi non abbiamo minacciato di bruciare il locale. Mi ha chiamato appena siamo scesi dal palco e ha chiesto se volevamo un contratto discografico. Abbiamo risposto: “Con chi?”. E lui: “Con la Creation”. Abbiamo detto di sì. Avevamo deciso che avremmo firmato quella sera stessa, ma l’abbiamo fatto due o tre mesi dopo».
L’album che ne è scaturito, Definitely Maybe, è diventato l’esordio che ha venduto più copie nel più breve tempo nella storia del Regno Unito. Dopo essersi unito all’America nell’esaltazione del grunge, nel periodo di massimo splendore dei Nirvana nel 1992, il pubblico britannico del rock’n’roll si è nuovamente orientato verso artisti con sonorità e stile prettamente British. Rispetto ai loro contemporanei, come i miniaturisti del pop Blur o i grandiosi art rocker Suede, gli Oasis sono dei puristi del rock’n’roll. Sono dei cuochi postmodernisti pieni di fantasia che cucinano un pentolone in cui mescolano elementi degli Small Faces, dei Mott the Hoople, dei Badfinger, dei Clash, dei T. Rex e dei Jam, oltre che dei Beatles e degli Stones. Il tutto è condito da tocchi più moderni a base di punk, groove di Madchester e la visione personalissima e strampalata di Noel Gallagher. E c’è anche una certa malizia. Shakermaker cita I’d Like to Teach the World to Sing dei New Seekers (ovvero I’d Like to Buy the World a Coke), Cigarettes and Alcohol prende direttamente in prestito il riff di chitarra da Bang a Gong e Fadeaway (uno dei brani migliori della band, non incluso nell’album) trasforma Freedom degli Wham! in un inno punk-rock.
Ma il gruppo che gli Oasis ricordano davvero è quello degli Who. «Pete Townshend è l’unico con cui sento affinità», dice Noel, «perché ha scritto tutte le canzoni e le parole e ha fatto i cori, ma ha dato tutto da cantare a qualcun altro: è esattamente quel che faccio io. Ed entrambi non andiamo particolarmente d’accordo con i nostri cantanti solisti».
Sul palco, gli Who erano dei grandi performer rock’n’roll, mentre la presenza scenica degli Oasis dal vivo è più che altro all’insegna di una certa indolenza. Liam si piazza davanti al microfono, di solito con le mani dietro alla schiena, e questo è quanto. Il resto della band è ancora meno dinamico e questo effetto visivo crea un enorme contrasto con la potenza del muro di rumore creato dalla band.
La cosa buffa è che Liam Gallagher, quando non è sul palco, è tutto ciò che un frontman esuberante dovrebbe essere. È sciolto, malizioso, decisamente irrequieto e balla al suono delle canzoni che ha in testa. È entusiasta proprio come un ragazzino, è sempre in movimento e dice di continuo cose come «mi fa impazzire» e (da quando ha visto The Mask) «sfumeggiante!».
Quando Liam tornerà a Manchester, finalmente se ne andrà da casa della madre che, ogni volta che la stampa scrive di droga o scazzottate, fa sempre una bella ramanzina ai figli. È sufficiente per far rimanere una rockstar coi piedi per terra, anche se lui non la pensa così: «Essere me stesso è quello che mi tiene con i piedi per terra, essere Liam Gallagher».
Per ora, comunque, gli Oasis potrebbero essere la prima band britannica, da parecchio tempo a questa parte, ad avere un impatto significativo sulle ex colonie (i Bush non contano perché in Inghilterra nessuno li ha mai sentiti nominare). MTV passa Live Forever, l’album sta scalando la Top 200 di Billboard e si vocifera di una partecipazione al Lollapalooza. Citando un passaggio di Supersonic e applicandolo alla situazione attuale degli Oasis: “Puoi avere tutto, ma quanto lo desideri?”.
«Sì, lo so, me lo rinfacciano di continuo», dice Noel rassegnato. «Vorrei non averlo mai scritto, cazzo. Ma lo vogliamo: se è lì e possiamo prenderlo, lo prenderemo, e se dobbiamo lavorarci un po’, allora ci lavoreremo su. Ma non verremo qui a vendere l’anima solo per avere un disco di successo in America. Dal punto di vista finanziario, sì, voglio sfondare in America, perché significa che non dovrò più lavorare. Ma non è così importante per me essere una megastar. È più importante avere successo in Inghilterra, perché è lì che vivo, è da lì che vengo».
In ogni caso, Noel non pensa di passare il resto della sua vita negli Oasis. «Ci sono altre cose che voglio fare. Probabilmente finirò le idee e non credo che potrei andare avanti per sempre, magari per i prossimi dieci anni. Preferirei essere speciale piuttosto che vederci diventare un’altra band che tira a campare. Chi vivrà vedrà. Magari tra 15 o 20 anni mi beccheranno a dire la stessa cosa».
Quindi speri di morire prima di diventare vecchio o roba del genere? «No», dice Noel. «Voglio vivere per sempre. Assolutamente, sì».
Dal numero del 18 maggio 1995 di Rolling Stone US.













