Rolling Stone Italia

L’arma segreta di Neil Peart era il perfezionismo

Lo stile del batterista dei Rush non aveva nulla di dionisiaco. Idolatrava musicisti spontanei e selvaggi come Keith Moon, ma suonava con disciplina ferrea e possedeva un gran gusto per i dettagli

Foto: Fin Costello/Redferns

Subdivisions è uno dei pezzi più amati dei Rush ed è anche uno dei più semplici del loro repertorio. L’insistenza del riff del sintetizzatore di Geddy Lee lo fa somigliare a un bordone. Lo devi ascoltare decine di volte prima di capire quel che accade veramente: Neil Peart, il geniale batterista del gruppo, si è preso la briga di trovare una parte di batteria diversa per ogni verso.

All’inizio suona un semplice backbeat (“Sprawling on the fringes of the city…”). Poi passa a un pattern più complicato e asimmetrico che sembra quasi inciampare mentre Lee canta “in geometric order”. All’inizio della seconda strofa (“Growing up it all seems so one-sided…”) tiene un semplice quattro quarti sulla grancassa e su “Opinions all provided…” passa a un sincopato infernale e stranamente funk, come fosse il beat di un James Brown cibernetico.

Le variazioni continuano: alla terza strofa (“Drawn like moths, we drift into the city…”) propone un pattern contratto, interrotto da uno strano fill, mentre la quarta (“Some will sell their dreams for small desires …”) è un trionfo di rullante e grancassa. Viene da chiedersi cosa stia facendo. Fa sfoggio del suo virtuosismo? È una caccia al tesoro per i suoi adepti, i nerd della batteria?

Analizziamo però il testo della canzone scritta dallo stesso Peart, come tutti i pezzi dei Rush dal 1975 in poi. Subdivisions è la cruda e minuziosa cronaca della vita di un adolescente di periferia diviso tra spietate gerarchie sociali (“In the high school halls / In the shopping malls / Conform or be cast out”) e il doversi uniformare alla massa (“Growing up, it all seems so one-sided / Opinions all provided / The future pre-decided / Detached and subdivided / In the mass production zone”). “Nowhere is the dreamer / Or the misfit so alone,” canta Lee, e i ritmi cangianti di Peart – in contrasto con la forma ciclica della canzone, che è quasi una nenia – sono quel sognatore emarginato che si scontra con il conformismo e lotta per far sentire la sua voce in un mondo triste e opprimente. La batteria in Subdivisions è al tempo stesso profondamente nerd ed esilarante, come del resto lo è l’estetica di Neil Peart.


Sono un fan dei Rush da più di 25 anni, sto forse analizzando troppo a fondo i cambi di ritmo in Subdivisions? È probabile. Ma, scommetto quel che volete, non più di quanto lo abbia fatto il batterista. Nel mondo del rock ci sono stati pochi musicisti pignoli come Neil Peart, morto il 7 gennaio a 67 anni. Per lui, nessun dettaglio era troppo piccolo per non essere analizzato. Prendete per esempio il magnifico fill a metà di Tom Sawyer: si stacca per una frazione di secondo dai tom-tom per percuotere i piatti in sincope. Oppure pensate alla pausa nell’apertura della lunga suite Cygnus X-1 Book II: Hemispheres del 1978, dove Peart inserisce un tintinnio di qualcosa che sembra essere un triangolo. Per non parlare di quando, nel mezzo di quello che sembra un groove rock bello e buono in Animate del 1993, muove la bacchetta della mano destra dall’esterno all’interno del ride ad ogni nota, creando sottili cambiamenti di sonorità.

Prima di Peart – e visto che ci piace entrare nei dettagli, chiariamo che si pronuncia “Peert” e non “Pert” – tutto questo affannarsi sarebbe stato un’eresia (e molti scettici del prog sicuramente la pensano ancora così). Quando Peart incise il suo primo album con i Rush nel 1975, le basi della batteria rock moderna erano già state gettate, principalmente da musicisti britannici che avevano seguito i passi dei maestri del jazz e dell’r&b americano. Se eri un aspirante batterista, avevi varie possibilità: potevi lanciarti su un backbeat tranquillo alla Ringo o Charlie; potevi pestare duro come Moon; oppure, come Ginger, Mitch, Ian Paice o Bill Ward, potevi evocare la fluidità e il fuoco delle big band o del bepop. Potevi fare come Bonham, portando il funk e i muscoli all’estremo, o potevi conciliare tecnicismo e groove con stile, come Collins e Bruford. Pur nelle loro differenze, questi musicisti avevano una cosa in comune: quando si sedevano alla batteria si prendevano delle libertà. E tutti quanti, a modo loro, pestavano forte. Peart era diverso. Basta guardarlo suonare con la band agli inizi, ad esempio nel video di Anthem qui sotto: sembra rigido e determinato, quasi cupo. Non c’è dubbio, il suo modo di suonare spacca, ma nasce dalla concentrazione piuttosto che dal trasporto. Uno dei suoi idoli era Keith Moon, ma le loro visioni erano divergenti. Peart non improvvisava; preparava tutto in anticipo ed eseguiva parti scritte e sostanzialmente invariate con stile e perfezione, come un percussionista classico, o quasi. È ironico che nel testo di Hemispheres Peart abbia descritto la battaglia tra Apollo e Dioniso per l’anima dell’uomo e l’importanza di trovare un equilibrio tra le due tendenze, perché nella maggior parte delle composizioni di Neil Peart, tra Apollo e Dioniso non c’è proprio partita.


Alla fine degli anni ’70, lo stile di Peart era sbocciato insieme alla musica dei Rush e si era arricchito di invenzioni all’avanguardia per stare al passo con l’assurda complessità della scrittura musicale di Geddy Lee e Alex Lifeson. Ascoltate, per esempio, l’esplosione sonora di circa 90 secondi che arriva poco prima della fine di Cygnus X-1 Book I: The Voyage, un pezzo prog che sembra presagire l’avvento del metal ‘tecnico’ e lo stile di batteria articolato, carico di riff, che va da Mike Portnoy dei Dream Theater a Brann Dailor dei Mastodon.

Ma è a cominciare dagli anni ’80, quando i Rush iniziano a produrre canzoni più concise, che la maestria di Peart si manifesta in tutta la sua grandezza. Le sue parti in hit immortali come Tom Sawyer e The Spirit of the Radio – che, col suo ritmo scandito alla perfezione sul ride, diventerà il suo marchio di fabbrica – rimangono comunque estremamente complicate, a volte quasi in maniera esagerata. Poi però inizia a equilibrare questa tendenza a favore di maggiore parsimonia e controllo. Ascoltate il modo in cui riesce a incastrarsi alla perfezione con la voce di Lee nelle strofe di Limelight, un pezzo sulla fama improvvisa del trio; oppure fate caso a come mette giù un groove netto e minimalista nella poco conosciuta Entre Nous dell’album Permanent Waves, una delle migliori canzoni mai scritte sull’importanza dello spazio personale nelle relazioni. E guarda caso, la batteria diventa precisa e netta nell’esatto momento in cui il testo inizia ad avere per tema le emozioni umane, descritte senza orpelli fantascientifici o sovrastrutture allegoriche.

E anche laddove il suo suono risulta molto elaborato, come in Subdivisions, Peart lo mette comunque al servizio della canzone, perché, in fin dei conti, è anche coautore dei testi. In un’intervista del 2011 su Modern Drummer aveva spiegato che “ci sono tantissime ragioni per cui mi posso permettere di essere un batterista dallo stile così attivo. E la ragione è che pianifico in modo rigoroso le parti di batteria in modo che diano risalto alle parti cantate. Cerco di non essere mai eccessivo. Conosco bene i testi e ne conosco la linea melodica. Non sai quante volte ho sentito colleghi batteristi raccontare che hanno dovuto registrare una canzone prima ancora che fossero scritti i testi, e di quanto questo complicasse le cose”.

“I testi li ho scritti io, li conosco,” continuava ridendo. “Ad esempio, so bene quando posso far risaltare il ritmo della voce e gli accenti. È bello poterlo fare. Penso che molti batteristi si sforzino di suonare in modo più semplice di quanto vorrebbero per non correre il rischio di essere ingombranti. È un po’ come per i turnisti: devi essere invisibile. Ma se fai parte di una band devi poter esprimere te stesso”.

 

Negli anni ’80, Peart manifestò un interesse per agili ritmi pop, ma non smise mai di infilare nelle sue parti di batteria piccoli dettagli che facevano impazzire i fan. Pensate al ritornello di Time Stands Still, l’inno strappalacrime sul passare del tempo, con fioriture di vivaci percussioni elettroniche, o alla pausa improvvisa e inaspettata che conclude il ritornello dell’elegia sul suicidio degli adolescenti The Pass.

Negli ultimi vent’anni di attività, Peart ha fatto di tutto per ampliare i suoi orizzonti musicali, andando a scavare nella musica di Buddy Rich e ricostruendo la tecnica da zero con l’aiuto di Freddie Gruber. Come dichiarò in un’intervista a Andy Greene per Rolling Stone, quello studio gli fece scattare un “ritmo diverso” quando si sedeva alla batteria. E infatti, in Test for Echo, il bellissimo album del 1997 ingiustamente sottovalutato, aggiunse un po’ di respiro e d’elasticità ai ritmi.

Ma in definitiva, non era un batterista che poteva suonare il jazz e sentirsi a suo agio, come un Ginger Baker o un Bill Bruford. Anche esaminando il modo in cui Gruber l’ha aiutato nel video didattico A Work in Progress, spesso il suo suono sembra eccessivamente metodico, come un insegnante di scienze delle scuole medie che scorre la tavola periodica. Basta pensare agli ingombranti assoli stile big band che sparava ai concerti dei Rush per capire che, in fin dei conti, Peart aveva un orientamento ritmico diverso dai giganti che lo avevano preceduto. Un orientamento ritmico che si incastrava perfettamente con il suono spudoratamente cervellotico della sua band. Alcuni musicisti preferirebbero sparire davanti a passaggi come il codice morse ritmico e imprevedibile che apre Far Cry del 2007, ma Peart se ne va in scioltezza come niente fosse.

 

Peart ha tenuto in serbo gran parte della sua ossessività per Clockwork Angels, ultimo LP dei Rush e loro primo concept album dall’inizio alla fine, una storyline ispirata allo steampunk. Per la prima volta sembra concedersi il lusso di rilassarsi un po’, forse per provare le stesse sensazioni dei suoi idoli degli anni ’60, come Moon. In suo aiuto, Peart aveva arruolato il produttore Nick Raskulinecz, da lui ribattezzato Booujzhe per il modo in cui suggeriva fill di batteria con “movimenti del corpo ed effetti sonori”.

“I pezzi dei Rush tendono ad avere arrangiamenti complicati, pieni di tempi, misure e battute dispari, e le nostre ultime canzoni non sono da meno (anzi, forse sono peggio – o meglio, dipende dai punti di vista)”, scriveva Peart sulla sua pagina internet personale riguardo alle session di Clockwork Angels. “Un tempo per prepararmi passavo il tempo a imparare tutto a memoria. Non mi piace contare i tempi e le battute, preferisco aver provato il pezzo talmente tante volte che inizio a sentire la musicalità dei cambi. A forza di suonarli, tutti quegli elementi diventano la canzone. Stavolta ho passato il testimone a Booujzhe (e gli è piaciuto tantissimo!). Attaccavo a suonare reagendo al suo entusiasmo e ai suoi suggerimenti tra una registrazione e l’altra, e insieme buttavamo giù la struttura del pezzo. Con la sua bacchetta mi conduceva nei ritornelli, nei tempi dimezzati dei bridge e in quelli raddoppiati delle outro e così via, e non dovevo preoccuparmi delle durate. Niente conteggi, niente ripetizioni all’infinito. Una rivelazione! Che sollievo!”.


Questo metodo – ovvero Peart che per la prima volta si lascia andare all’abbandono dionisiaco durante le registrazioni, cosa che per la maggior parte degli altri musicisti è scontata – ha funzionato a meraviglia. Non che abbia suonato come un batterista hardcore punk, ma a quanto pare l’assistenza di Booujzhe gli ha permesso di essere il solito Neil ‘ho-tutto-sotto-controllo’ Peart, ma un po’ più rilassato. Nella title track dell’album suona alla perfezione, citando il suo stile anni ’80 sulla strofa vivace e quasi funk, per poi riaffermarsi come re della ferocia prog non appena aumenta il tempo e inizia la distorsione di Alex Lifeson.

Dal groove ruvido di BU2B al ritmo duro e incalzante delle strofe di Headlong Flight, nel disco risalta l’assoluta grandezza e maestria di Peart, come se, una volta sgombrata la mente, avesse potuto mettere tutto il corpo nelle canzoni. Chi ha visto il tour Clockwork Angels, o il trionfante R40 che lo ha seguito, può testimoniare che sul palco Peart non ha mai mollato, né si è risparmiato sulle parti estremamente complicate che aveva creato nel corso degli anni. Non ha mai smesso di suonare con un gusto per i dettagli pazzesco. Nel 2018, Geddy Lee fece una riflessione sulla scelta di Peart di andare in pensione e sul motivo per cui i Rush non avrebbero più fatto tour: “Nei concerti Neil ha faticato molto per suonare al massimo delle sue possibilità e per resistere al dolore fisico e ad altre cose. È un perfezionista e non vuole salire sul palco e fare anche solo una cosa diversa da quella che il pubblico si aspetta da lui. È quello che lo ha stimolato in tutta la carriera ed è il motivo per cui ha deciso smettere. E io questa cosa la rispetto”.

Per molti, fare rock significa lasciarsi andare e perdersi nel caos, come se l’essenza ribelle di questa musica dipendesse da una combinazione di sudore, spontaneità e carnalità. Non era questo lo stile di Neil Peart. Paradossalmente, fuggendo da una vita triste e preordinata aveva trovato lo spirito sfrenato del rock nell’organizzazione e nell’ordine. E lo faceva utilizzando non forme musicali preconfezionate, ma meravigliose e complicate costruzioni ritmiche elaborate e plasmate per adattarsi alle emozioni espresse nelle canzoni che lui stesso scriveva. Neil Peart era un musicista rigido? Forse sì. Era spudoratamente e oltre misura ossessivo? Non c’è dubbio. Ma quel perfezionismo l’ha reso libero.

Iscriviti