Con Tom Smith degli Editors non è stato amore a prima vista. Mi è capitato di vedere uno dei loro primi live in Italia – era a Torino, in un festival indipendente che non esiste più (come spesso succede dalle nostre parti) – e di non esserne rimasto particolarmente colpito. Poi la band è diventata uno dei fenomeni dell’ultima stagione significativa dell’indie rock, passando dai piccoli palchi ai grandi stage in giro per l’Europa. Colonne sonore. Presenze un po’ ovunque. Nel frattempo anche il mio rapporto con loro è cambiato, passando dallo scetticismo alla stima, fino a pensare benissimo di alcuni pezzi che – anche per ragioni puramente autobiografiche – hanno significato molto in un determinato periodo.
Quando ho letto che Tom Smith si era preso una pausa dalla band per fare un disco solista ho pensato fosse l’occasione giusta per chiudere un cerchio iniziato con lo scetticismo e finito con la stima e la passione, e farci due chiacchiere. There Is Nothing in the Dark That Isn’t There in the Light esce il 5 dicembre e incontro Tom nel caffè del Teatro Regio di Parma, dove di lì a poche ore si esibirà per la prima serata del Barezzi Festival (ne abbiamo scritto qui). Gli dico di averlo visto live quella volta a Torino e lui ride, ricordandomi che sono passati vent’anni da quel momento. Lo scorrere del tempo sembra essere la molla che lo ha spinto a realizzare un disco solista: «Nella mia voce c’è il tempo che passa».
«Dopo EBM sentivo la necessità fisiologica di fare qualcosa di completamente diverso», mi dice. «Avevo bisogno di spogliarmi. Di tornare alla sorgente di tutto, che per me è una chitarra acustica. Tutte le canzoni degli Editors sono nate così, anche Papillon (che infatti quella stessa sera suonerà in acustico, nda), ma negli anni, con la band, si prendono altre strade. Stavolta volevo restare lì, a quel punto zero».
Una scelta che da fuori può sembrare un gesto di rottura, ma che per Smith ha rappresentato un ritorno alla normalità. «In realtà questo disco è la fotografia più fedele del modo in cui scrivo. Per arrivarci ci ho messo vent’anni». Lo dice senza posa, senza ansia di mitologia. È più una presa di coscienza: la maturazione tardiva come passaggio a una nuova fase della propria vita. «A 30 anni non avrei avuto né il coraggio, né le cose da dire. Oggi sì. Ho 44 anni: o lo facevo ora, o non lo facevo più».
Molte delle nuove canzoni sono nate negli ultimi tre anni, altre negli ultimi sei mesi. Tutte, però, hanno in comune una qualità diversa. Esce il “personaggio”, frontman carismatico dal timbro tra i più potenti d’Inghilterra, ed entra il cantautore. «Negli Editors spesso sono una versione teatrale di me stesso. Uso metafore, simboli, dramma, oscurità. Mi piace quel linguaggio, fa parte della band. Ma queste nuove canzoni erano più nude. Più mie. Hanno un peso diverso».
A spingere Smith verso un disco più intimo c’è la voglia di liberarsi delle stratificazioni, delle macchine, delle impalcature sonore dell’elettronica. «Avevo bisogno di un equilibrio nuovo: non solo acustico, non solo minimalista, ma più umano. Alcune canzoni le abbiamo lasciate quasi fragili, altre sono cresciute in studio. Leave, per esempio, è diventata un piccolo pezzo orchestrale, quasi alla Roy Orbison».
Avete notato come ci sia un momento in cui la generazione di chi oggi ha 40 anni, quasi come un esame di maturità, finisce su Roy Orbison? Non so. Forse è una ricorrenza musicale, ma anche i quarantenni di qualche anno fa passavano dall’indie a Orbison (pensate a Richard Hawley). Glielo dico. Siamo della stessa generazione, voglio vedere se ci ho preso: «C’è una tristezza nella sua voce che non ha tempo. Un’oscurità elegante. Alla fine ci finiamo tutti». Ecco.

Foto: Edith Smith
Voce e chitarra, sì, ma non spoglio. Ci sono strati, legni, respiri, piccole alchimie. Molte nascono dalla collaborazione con Iain Archer, produttore e partner creativo del progetto. «All’inizio pensavo a un disco molto acustico, quasi folk. Poi abbiamo iniziato a giocare con gli archi, la batteria, le tastiere, perfino qualche esplosione contenuta. Ascoltavamo molto Adrienne Lenker dei Big Thief e volevamo quella qualità d’aria, quel suono di chitarre che sembrano vive».
E poi ci sono i Blue Nile, che Tom cita con entusiasmo. «Li adoro. Paul Buchanan ha questa capacità di rendere epico il quotidiano. Lui è stato fondamentale per Lights of New York City. Anche la scelta di usare una tromba arriva da lì. Immaginavo un musicista solitario all’angolo di una strada che suona ignorando il resto del mondo». Quando me lo dice non posso fare a meno di notare che è un riferimento perfetto. La musica del disco, la voce di Tom, l’atmosfera di alcuni brani — quelli più notturni — sono proprio figlie di Hats.
Gli dico che a tratti ho sentito anche qualcosa dei R.E.M. maturi, quelli di Reveal. Smith sorride: «Sono la mia band della vita. Hanno plasmato tutto il mio modo di scrivere. È inevitabile che tornino fuori».
C’è una domanda che torna spesso quando si ascolta There Is Nothing in the Dark That Isn’t There in the Light: dove siamo? Qual è il posto da cui parla Tom Smith? Lui stesso sembra averci pensato molto. «Sono cresciuto in campagna, poi Birmingham, poi Londra, poi il mondo con la band… Oggi guardo quel ragazzo e mi sembra un’altra persona». Una distanza generazionale che è pura consapevolezza: «Non è rabbia verso il diventare vecchi. È una constatazione: il mio primo figlio sta scegliendo l’università, la sua voce cambia, la vita si muove. Io sento il tempo molto più di prima».
A questo punto viene naturale chiedergli dei vent’anni passati. Com’è stato far parte dell’ultimo grande fermento indie, quando gli Editors uscivano insieme a Strokes, Interpol, Arctic Monkeys, Bloc Party? «Era strano. Perché noi ci siamo sempre sentiti un gruppo alternativo, ma all’improvviso l’alternative era mainstream. Ci invitavano ai Brit Awards e io mi chiedevo cosa ci facessimo lì. A pensarci adesso è stato un momento sì emozionante, irripetibile, ma anche assurdo».
E oggi? Oggi tutto è diverso. Troppo diverso. «La musica è diventata acqua», dice. «Scorre dappertutto, ma non lascia traccia. Anche le star enormi hanno hit che non conosce nessuno fuori dal proprio algoritmo. Il mondo è più diviso, più apatico, più stanco. Streaming, Brexit, crisi: non è un gran periodo». Per questo il suo album sembra un gesto contro il rumore chiedendo un minimo di tempo e dedizione. «Forse è un po’ un atto di resistenza», dice. «Ma è anche naturale per noi. Gli Editors sono sempre stati fuori dalle mode. Siamo sopravvissuti perché non avevamo nulla da cui cadere».
Infine, il modo in cui si vuole portare in giro un disco del genere. Tom ha tutto chiaro sin dall’inizio: tornare all’essenziale. Posti da 100 persone. Sale intime. Backline ridotta al minimo. «Dopo i concerti nei palazzetti con gli Editors è stata una botta. Ma una botta bellissima. Carichiamo gli strumenti da soli, vendiamo noi le magliette, parliamo con tutti. E le persone vengono per dirmi cosa le nostre canzoni hanno significato per loro in vent’anni. È stato un nuovo inizio che mi ha commosso».













