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L’Achille Lauro di ‘1990’ è un dandy di borgata che balla su musiche zarre da autoscontro

Il jukebox vivente si dà all’eurodance, prende sette pezzi anni ’90 e dintorni, li usa per raccontare storie un po’ struggenti e un po’ decadenti. Manca lo scossone: anche per oggi la musica italiana la si rivoluziona domani

Ve lo ricordate Achille Lauro a Sanremo 2020, mentre si spoglia sotto i tweet di mezzo mondo, coi paragoni con Bowie e il resto? Sembra passata una vita: vuoi perché di mezzo c’è stato un lockdown lungo una primavera, ma percepito come un decennio; vuoi perché nel frattempo – non l’avesse già fatto abbastanza in precedenza – l’artista romano ha cambiato pelle ancora e ancora. Se Me ne frego era (troppo?) vicina all’appropriazione classic rock di 1969, le successive 16 marzo e Bam Bam Twist hanno virato in tempo record prima sul pop-rock da stadio all’italiana (Vasco su tutti), poi su un surf rock radiofonico con echi (appunto) twist. Insomma: ok spiazzare, ma Lauro sta diventando un jukebox vivente? Non so, eppure 1990 – il suo nuovo disco, che esce oggi – va in un’ennesima, altra direzione: dalle parti della dance zarra da autoscontro e dei 90s più ruspanti, quindi a malapena coniugabili col passato recente. Ma tant’è.

Però, una precisazione: vale la pena seguire ogni evoluzione di Achille – libri e campagne social comprese – perché, per quanto non tutte artisticamente rilevanti, aiutano a capire dove sta cercando di posizionarsi ora che è entrato nello stardom. A occhio: il divo-provocatore di borgata, che recupera il glam (pop) per giocare sull’ambiguità di genere e pungere il pubblico generalista lì dove è più sensibile, e dove nessuno in Italia lo sta più colpendo. Del resto, anche stavolta ha creato la solita campagna promozionale curatissima e pruriginosa, dall’immaginario ben sviluppato (lui versione Ken di Barbie, con tacco a spillo e crocifisso su delle Big Babol, vittima della “censura”) e col proclama sotteso di compiere un’altra rivoluzione nell’approccio alla musica, ora assolutamente “libero” – e cambiando un genere al mese la percezione non può che essere quella.

Poi però, appunto, c’è il banco di prova di 1990, che dopo un anno di singoli è la sua prova più ambiziosa: sette tracce che riprendono altrettante hit dei ’90, passando da Be My Lover a Blue (Da Ba Dee) fino a Scatman’s World, ognuna preceduta da una intro parlata in cui l’artista definisce la propria geografia sentimentale andando a flusso di coscienza su edonismo (“A volte questa zona d’agitazione è come se mi piacesse”), nostalgia (3 ore a notte), iconoclastia (Ave o Maria); il tutto con cinque produttori – ora che è orfano di Boss Doms – e otto ospiti. Ok, non c’è Barbie Girl degli Aqua nonostante il disco si rifaccia proprio a quel tipo di immaginario dei ’90, ma dopo i recenti passaggi a vuoto è un parziale ritorno dell’originalità per quanto sempre su coordinate vintage – e probabilmente la continuità è qui: appropriarsi di modelli del passato, più o meno “intoccabili”, e “sporcarli” con i propri interventi.

Se da un lato, infatti, 1990 è un concept che recupera vessilli dell’eurodance, dall’altra definirlo semplice raccolta di cover è riduttivo: certo ci sono i campionamenti, come pure un sound, delle linee melodiche, dei vocals e dei riff che suoneranno famigliari agli ascoltatori, rendendo facile la ricezione di questo lavoro per le radio; ma il talento di Lauro sta proprio nel confondere questi codici con l’immagine da dandy di borgata ambiguo che è solo sua, che si tratti di testi originali scritti ad hoc, interpretazioni o proprio variazioni sull’arrangiamento. Anche qui: niente che nel rap e nella trap non sia già stato fatto (anche la nuova Auto blu di Shiva è più che un riferimento), ma stavolta a marcare la differenza è la personalità dell’artista che si approccia senza remore di brani già ultra-pop e schemi collaudati per rovesciarci sopra le proprie visioni e invitarci un mucchio di ospiti, insieme al lavoro dei produttori, con un occhio sugli originali (insert di pianoforti sognanti, synth, cassa dritta) e uno, più socchiuso, al presente (AutoTune in primis), creando un party anni ’90 per l’estate 2020. Non troppo sofisticato nella scelta dei pezzi e nella cura dei suoni, ma efficace per l’immagine del suo protagonista e per la stagione.

Perché per una 1990 (Back to Dance) copia-incolla della dance di Be My Lover, c’è una Scat Men in cui Scatman’s World (con Dardust, cioè DRD, alla regia) è un pretesto per ricucire col rap, chiamando Ghali e Gemitaiz in una viaggio malinconico che dall’immaginario felice dell’originale si risveglia in periferia fra spaccio e sogni di fuga, o una Sweet Dreams (la cui versione originale è uscita negli ’80, però ok: credo si riferisca alla cover di Marilyn Manson) che è pura zarrata da autoscontro, ma con la voce cristallina e sensuale di Annalisa e quella sguaiata e arrogante di Lauro ad aprire squarci decadenti. E insieme a Blu – che chiama gli stessi Eiffel 65 come ospiti, mantiene la melodia killer e fa riferimenti alla morte (un altro tabù del pop attuale su cui pare che Lauro invece sta spingendo) – costituiscono il blocco tradizionale del disco, vintage in stile 90s e radiofonico, pur senza cadere nel revival.

Di là della barricata, invece, le sortite più innovative: saltano i confini in You and Me, dove Gow Tribe, DIVA e Marink filtrano con l’Edm per mischiare una Alexia d’annata con l’AutoTune spintissimo di Capo Plaza, mentre Summer’s Imagine vive di rapide aperture al classico degli Playahitty, ma soprattutto di un basso scurissimo, di una cassa dritta asfissiante e della durezza di Massimo Pericolo. Infine, Wanna Be an Illusion che fa a granelli il vocal originale e liquido quello di Lauro, sommergendoli con l’house di Benny Benassi. Sono esperimenti che non rivelano un’eccessiva ricerca e in cui c’è da prendere le misure (Pericolo suona un po’ come corpo estraneo, per dire), ma ballabili e assolutamente funzionali, nonché più coraggiosi del resto.

Insomma, al di là delle singole declinazioni, dopo il rock l’artista romano si è appropriato dell’eurodance coerentemente al personaggio che sta costruendo, ma in parte il limite resta: spesso 1990 guarda al passato con gusto per gli schemi collaudati, rivisitandoli con personalità ma senza rivoluzioni copernicane (come poteva essere, per esempio, la samba-trap di Thoiry). E dico questo perché poco tempo fa Lauro aveva annunciato di aver firmato «il più importante contratto discografico degli ultimi dieci anni» nel nostro Paese, e di essere a lavoro su due album: col primo «ci divertiremo», col secondo «cambieremo la musica italiana». Ecco: questo nuovo disco è divertimento, un insieme di pezzi con richiami vintage da (ri)ballare per l’estate. Che fanno il loro compito, intendiamoci; ma per il fatidico cambiamento, be’, meglio cercare altrove, e chissà ancora per quanto.

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