Sempre più spesso i testi della trap, questo galateo alla rovescia di donne e cavalieri – oppure una specie di nuova Arcadia con ninfe e pastorelli sostituiti da guardie e spacciatori, come ha suggerito una volta Walter Siti –, finiscono sotto accusa per il loro maschilismo, a volte grottesco ed esagerato. All’inizio l’argomentazione era stata quella cripto-vittimista di destra, doppio standard: perché le femministe non dicono niente? Sottinteso: invece di continuare a prendervela con noi, prendetevela coi trapper. Però quando le femministe hanno detto qualcosa spingendo ad annullare il concerto di Tony Effe al Circo Massimo di Roma, allora la questione si è fatta più seria. Una vittoria del famoso politicamente corretto? Un altro successo della famigerata cancel culture? Più no che sì.
In verità, la lettera con la quale alcune consigliere comunali di area PD chiedevano al sindaco Gualtieri e al suo assessore per i grandi eventi di cancellare l’invito al trapper romano all’esibizione di Capodanno 2024 per via dei suoi testi sessisti e violenti, più che dal femminismo vero e proprio sembrava provenire dalla vecchia politica (culturale), un’era pre-social, incapace soprattutto di leggere alcune elementari sottigliezze della rappresentazione. Capitò grosso modo lo stesso a Eminem a Sanremo nel 2001. Rileggere oggi lo spreco di notabili e argomentazioni che scesero in campo per cercare di bloccare l’esibizione lascia esterrefatti, considerato che a difendere il rapper fu Raffaella Carrà, la presentatrice di quella edizione del Festival.
Capitò qualcosa di simile anche a Fabri Fibra al concertone del Primo Maggio nel 2013: fu fatto fuori per i testi “omofobi, sessisti e violenti”. Povero Primo Maggio, preso in giro da sinistra e da destra, ma da destra lo sfottò è più squallido per il misto di revenge e invidia. Se la presenza di Rai 1, rete storicamente governativa, clericale ma iper generalista, rende Sanremo luogo di insorgenze addirittura epocali, è particolarmente significativo che di recente la presidente del consiglio Giorgia Meloni alla domanda di un giudizio su quello di Carlo Conti abbia risposto “finalmente musica, senza tutti quei soloni che devono fare il monologo”; la presenza del sindacato rende invece il palco di San Giovanni l’ultima grande palestra del realismo socialista, il baluardo della decenza dei lavoratori e del primato della musica “vera”. Tanto che, quando al Primo Maggio del 2018 Sfera Ebbasta salì sul grande palco con due Rolex d’oro ai polsi e outfit Gucci – chi altri sennò? – dichiarandosi orgogliosamente un “povero arricchito” davanti ai mugugni sollevati dalla sua performance, il risultato fu addirittura rivoluzionario, una specie di riedizione meme della contestazione al discorso di Lama sui sacrifici all’Università di Roma nel 1977.
Del resto, sulla rappresentazione dei “testi violenti e misogini” ci si incarta sempre, specialmente dal punto di vista estetico. Come se fosse tanto difficile distinguere le Fantasie (perverse) dei trapper dalla Realtà, la Realtà dalla performance; e di nuovo la Verità dalla assoluta preminenza – in questo gioco così teatrale, pieno di piani e di distanze – della Parola. Finalmente liberata da una specie di essenzialismo semantico, capace di fluttuare come una nuvola di senso nella plasticità metrica della sua materialità significante. La trap è costruita su una prevalenza della rima baciata, come performance ginnica, parossismo, accumulo che nelle jam improvvisate di fronte al pubblico scatena urla e applausi, decreta vincitori e sconfitti. Una delle sue figure retoriche preferite è la paronomasia, le assonanze interne in cui la fonetica detta legge all’universo.
Parola contundente. Parola clava. Come nei dozen, le sfide afroamericane a colpi di insulti in rima, la cui perizia passa ai primi testi rap. Come nei talk show televisivi, in cui la posta in gioco è quasi unicamente retorica. Non si vince niente, forse qualche decimo percentuale di opinione. Ricordarsi che il verbo “asfaltare” – inteso come vincere un duello televisivo, oppure una sfida social – si ritrova nello stesso periodo (certificato dai ricercatori dei dipartimenti di linguistica) nei discorsi del “rottamatore” Matteo Renzi (poi passato al gergo dei commercialisti) e tra le rime di Guè. Non sarà neppure tutta questa gran scoperta.
La colpa non è della trap, ma di chi ha fatto diventare le fantasie iperrealiste sottoproletarie (e/o piccoloborghesi) di Lambo (Lamborghini), Ferrari, Glock (pistole) e bitches una descrizione del mondo che ci circonda, l’insorgenza di un desiderio diffuso. Di certo la trap è uno specchio rovesciato dell’incubo securitario di pistole, guardie, merito, esclusione dei poveracci, grettezza brianzola e retequattrista, che è l’ideologia centrale della destra al governo.
Con tutte le sue bitches, conquistate a centinaia col cash e le borsette, è la riconferma dell’incubo incel, l’inferno in terra dei celibi bianchi brutti di mezza età scartati dalla grande corsa, spaventati a morte dalle donne e dal mondo in generale. Prendetevela con loro, e con le cattive vibrazioni che sono capaci di spandere in quantità. Con tutte le sue parole, la trap ingrandisce e deforma tutti gli scazzi sui social media, mima l’esercito di bot che inquina il dibattito pubblico, l’esercizio democratico della cancel culture.
La trap è sempre differente, marginale, eccessiva, anche adesso che occupa il centro della scena. Il suo romanticismo maschile è distruttivo, volgare e disperato come il calciatore Mario Balotelli quando fa il botto con la sua Audi. Pensare di vivere nello stesso mondo apocalittico della trap, prendere la realness delle parole per verità, è da pazzi. Questa autenticità dell’inautentico, il ruolo sciamanico dei marchi nell’hip hop (e prima ancora nell’eleganza gangsteristica), la lotta di classe come camaleontismo, bricolage sfacciato, esibizione della pupa del capo sta riassunta in uno dei versi centrali di questi anni, il vertiginoso like di Tony Effe nella sua Miu Miu alle ragazze naturali ma rifatte.
Miuccia Prada avrà autorizzato il videoclip? Dal punto di vista culturale, non del product placement. Sembra una parodia della Gialappa’s, Maccio Capatonda apocrifo. Tony, riccetto della trap, nel videoclip veste i panni di un American Psycho vanzinesco mentre un coro di segretarie lo insegue per chiedergli di trasformare una di loro da bitch in principessa. Come scettro, la borsetta Miu Miu. E le rime su ipotetici figli col nome di Gucci e Fendi. Compaiono Vittorio Sgarbi e una capra, potevano trovare il modo di buttarci dentro pure Rocco Siffredi o Chiara Francini. C’è l’ex calciatore playboy Nicola Ventola citato nel testo. Totti non c’è.
Uscito l’album di Taylor Swift, sul New Yorker Amanda Petrusich scriveva spazientita: “A che serve fare tutti questi soldi se non ti comprano la libertà dai marchi industriali?”. Vallo a dire a Tony Effe e a Miuccia Prada, che soltanto nei marchi industriali trovano il contatto con una dimensione metafisica dell’esistere.
Da Maxi-rissa. I diari della trap di Alberto Piccinini e Giovanni Robertini (Notettempo)