È un ballo tipo la polka? È una cosa che si mangia? Ci sono intervistati nel documentario del 2012 Hava Nagila (The Movie) che non sanno di preciso cos’è l’inno alla gioia del popolo ebraico. Lo riconoscerebbero subito se lo sentissero perché è parte integrante della cultura pop occidentale. Accompagna nei film le scene ai bar mitzvah e ai matrimoni, con gli sposi che ballano seduti su sedie tenute in alto dagli invitati. È stata una hit per Harry Belafonte. I due wedding crashers Owen Wilson e Vince Vaughn la ballano allegramente con un signore con la kippah.
Hava Nagila (rallegriamoci) non è solo una canzone di festa. Esprime in musica e parole la gioia per il viaggio degli ebrei nella loro storia e identità. Rinsalda il legame col passato. È la colonna sonora della aspirazione alla felicità di un popolo da sempre perseguitato. Il carattere gioioso deriva dalla circostanza in cui è stata composta dal musicista Abraham Zvi Idelsohn il cui scopo, all’inizio del secolo scorso, era creare una musica ebraica che si rifacesse a un’identità di popolo pre-diaspora e che fosse in grado di accompagnare il desiderio degli ebrei sparpagliati nel mondo di trovare una casa nell’antica patria.
Presentata per la prima volta nel 1918, Hava Nagila è stata scritta come celebrazione della dichiarazione Balfour del 1917 nella quale il governo britannico si impegnava a creare una «dimora nazionale» per il popolo ebraico in Palestina. Secondo alcuni potrebbe invece essere stata scritta in occasione del controllo di Gerusalemme e della Palestina da parte del generale Allenby alla fine della Prima guerra mondiale o in alternativa per la posa nel giugno 1918 della prima pietra dell’Università Ebraica di Gerusalemme. In quanto alla musica, è la trascrizione di una melodia chassidica di origine ucraina che veniva intonata come preghiera senza parole (la canzone è stata al centro di una disputa legale sulla paternità del testo rivendicata dai discendenti di Moshe Nathanson, uno studente di Idelsohn). Ha qualcosa di sacro e di profano, di politico e di privato. È associata al sionismo, ma anche al puro e semplice divertimento. È la musica di un popolo che celebra la propria gioia e la propria storia. Come dice nel documentario Josh Kun della University of Southern California, è l’inno nazionale dell’ebraicità.
Nonostante sia profondamente radicata nella storia e nella cultura degli ebrei, è diventata una canzone universale. Come ha detto Belafonte, «non c’è pezzo migliore di uno che dice “rallegriamoci” per chiudere una serata. Hava Nagila ci dice chi dovremmo essere e a cosa dovremmo aspirare in quanto popoli: amore, gioia, pace». Lena Horne ne ha preso la musica e l’ha trasformata in un inno ai diritti civili intitolato Now! in cui dice che “dovremmo essere tutti fratelli, le persone dovrebbero amarsi l’un l’altra”. È un canto che si sente negli stadi di baseball d’America e in Europa è stato intonato da tifosi dell’Ajax e del Tottenham.
Figlio di immigrati dal Libano e dalla Polonia, il re della chitarra surf Dick Dale l’ha trasformata in un chiassoso pezzo strumentale. Bob Dylan l’ha incisa nel ’63 in una versione quasi parodistica presentandola come «una canzone straniera che ho imparato nello Utah». Una volta Pete Townshend ha detto che all’audizione per entrare negli Who, ai tempi Detours, Roger Daltrey gli ha chiesto «Sai suonare Hava Nagila?». «Sì». «E allora sei dentro. Ci vediamo martedì sera». La parodia Hava-Nice Christmas è finita nei Simpson e no, il Natale non è esattamente una festa ebraica.
Sarebbe rimasta per molti italiani una canzone che fa colore nei film in cui c’è un matrimonio ebraico se i Patagarri non l’avessero suonata al concerto del Primo maggio in Piazza San Giovanni accompagnata dagli slogan lanciati dal cantante Francesco Parazzoli e ripetuti dal pubblico “Free free Palestine” e “Palestina libera”. Victor Fadlun, presidente della Comunità ebraica di Roma, ha reagito scrivendo che «appropriarsi della nostra cultura, delle melodie a noi più care, per invocare la nostra distruzione, è ignobile. C’è qualcosa di davvero sinistro, macabro, nell’esibizione dei Patagarri. I più grandi nostri odiatori nella storia sono quelli che hanno strumentalizzato la nostra cultura e mentalità». Per Fadlun il grido “Palestina libera” è «lo slogan delle piazze che invocano la cancellazione di Israele» ed è quindi «un insulto e una violenza inaccettabile».
Sul Foglio di oggi il giornalista David Parenzo scrive una “letterina ai Patagarri” in cui critica l’idea di «prendere una canzone ebraica che si intona nei momenti di festa e trasformarla in urlo politico scomposto contro Israele. La superficialità diventa gesto politico, il pressappochismo si maschera da rivoluzione». E ancora: «Sarebbe stato bello sentire i “Patagarri” ricordare la assoluta mancanza di diritti nella striscia di Gaza (…). Il lavoro merita rispetto e qualche cosa di più di qualche applauso compiacente al nuovo mainstream chiamato Patagarri».
Citata dal Riformista, Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, si è detta attonita per quanto avvenuto a Roma. «Per acclamare la liberazione della Palestina (non dei palestinesi) si elude ogni riferimento al reale contesto mediorientale e alla presenza soffocante di Hamas.(…). Una canzone ebraica, che ha come significato la gioia di stare insieme, è stata appositamente stravolta con l’effetto di creare divisioni e generare odio antisemita anziché mettere in campo ogni sforzo per la convivenza tra i popoli, come le Comunità ebraiche in Italia cercano di fare in ogni ricorrenza». Qualcuno ha persino azzardato una analogia: è come se si usasse Bella ciao per esaltare il fascismo. Non è vero, ma rende il clima.
È stato un caso di appropriazione studiato, voluto, razionale, non un incidente o un atto incosciente. Come hanno spiegato i Patagarri in un messaggio su Instagram, «abbiamo suonato una canzone della tradizione ebraica, che da tempo fa parte del nostro repertorio e ne fa parte perché noi non siamo mai stati contro una popolazione o l’altra. Ma abbiamo sentito la necessità di privarla del testo originario, che parla della gioia di stare insieme, per sottolineare che da troppo tempo, nel Medio Oriente, quella gioia non esiste più».
Pare che a Milano a fine marzo abbiano aggiunto un più esplicito “Israele boia”. Su Instagram sono invece attenti a non superare la linea che separa la critica all’operato del governo Netanyahu dall’idea che lo Stato di Israele debba essere cancellato, linea che invece viene oltrepassata con suppergiù la stessa frequenza con la quale si bolla come antisemita ogni legittima critica ai massacri del governo israeliano. «Mettiamoci allora d’accordo» scrivono i Patagarri «su quali sono le parole giuste per chiedere che i bambini non muoiano più, che gli ospedali non vengano più bombardati, senza essere accusati di invocare la distruzione del popolo israeliano, senza finire in questa trappola retorica dell’antisemitismo, accusati per tramite di sofismi insopportabili, mentre la gente continua a morire».
Anche le lamentele sono legittime per il carattere simbolico di Hava Nagila. Nella musica in generale non c’è beninteso alcunché di sacro o intoccabile, ma quella musica in particolare è radicata nell’immaginario del popolo ebraico e legata alle aspirazioni nazionali minacciate da organizzazioni come Hamas e Hezbollah. Ma è proprio quello che hanno voluto fare i Patagarri prendendo questa canzone identitaria e piena di vita, un inno ad abbandonarsi alla felicità di far parte di una comunità. Mettiamola così: hanno fatto i wedding crashers non per mangiare gratis e fare sesso come Wilson e Vaughn, ma dire che non c’è gioia se non è condivisa, che la vita di uno non può significare la morte di un altro.
Nella rubrica delle lettere del Foglio di oggi, il direttore Claudio Cerasa invita i Patagarri a parlare magari in un prossimo concerto di David Collier, il giornalista britannico preso di mira per avere «smascherato il legame tra un documentario della BBC su Gaza e Hamas». In altre parole: «Bisognerebbe chiedere ai Patagarri perché parlare male di Israele ti permette di finire in prima pagina e perché parlare male di Hamas ti fa rischiare la vita». Ieri Jonathan Peled, ambasciatore israeliano in Italia, ha scritto su X che «turba profondamente vedere il patrimonio ebraico strumentalizzato in una trasmissione nazionale RAI, per diffondere slogan usati da chi nega il diritto di Israele a esistere. Se i Patagarri cercavano davvero giustizia, lo slogan “Palestina libera” avrebbe dovuto concludersi con “da Hamas”». La canzone popolare, però, è un mezzo di espressione tagliente e la musica pop non conosce equanimità. Solo pochi musicisti intellettuali hanno voluto e sono riusciti a musicare i “ma anche”.
Accade sempre più di rado in Italia che una canzone sollevi non dicono un dibattito, ma almeno una piccola discussione culturale, politica, storica. Non le polemiche per un «genocidio» detto in tv o per un discorso fatto dal palco: una canzone, il suo significato, la sua storia. Comunque la pensiate, al di là del dato politico e delle considerazioni umanitarie, lo scontro che si è consumato su Hava Nagila è una bella notizia per chi pensa che la musica non sia solo intrattenimento, ma anche idee, società, vita. Rallegriamoci.