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La storia di ‘Atomic City’ degli U2 è una bomba (nucleare)

Lo spirito di Las Vegas, i test atomici anni ’50, Blondie e Giorgio Moroder, Bono che va a cercare amore là dove la Guerra Fredda ha creato sofferenza: è uscita una nuova canzone degli irlandesi

Foto: Sam Jones

È una foto notevole, scattata da una terrazza dalle parti di Fremont Street. In primo piano c’è la vecchia insegna del Golden Nugget, là dove Hitchcock filmò Steve McQueen nell’episodio dell’accendino di Alfred Hitchcock presenta. E poi altre insegne come quella del Lucky Strike Club, un tempo vegliato dall’enorme statua d’un cercatore d’oro, e quella del Boulder dove si potevano piazzare «scommesse da un centesimo in su». All’orizzonte, verso nordovest, s’alza il fungo di un’esplosione nucleare.

L’immagine è conservata negli archivi della National Nuclear Security Admnistration ed è solo una delle tante testimonianze dell’epoca in cui Las Vegas richiamava turisti col gioco, con l’intrattenimento e con le esplosioni nucleari. Pare assurdo, ma fra il 1951 e il 1963, in piena Guerra Fredda e con la necessità di testare le nuove armi, nell’ampia area nota come Nevada Test Site (oggi Nevada National Security Site) che si trova a un centinaio di chilometri dalla città vennero condotti oltre 900 esperimenti nucleari, di cui un centinaio atmosferici.

Nel 1951 i giornalisti furono invitati ad assistere a uno dei test. Erano in 200, videro il fungo da meno di 20 chilometri di distanza. «Indossi degli occhiali protettivi, ti giri e aspetti il segnale», raccontava un reporter. «La bomba viene sganciata, aspetti il tempo dovuto, ti rigiri e ti trovi di fronte un’incredibile nuvola bianca che s’alza come un gigantesco ombrello. Ti prepari all’onda d’urto che segue l’esplosione atomica. Prima però arriva il calore e solo dopo un’onda che può gettare a terra un uomo che non se l’aspetta».

È una visione spaventosa e allo stesso tempo irresistibile. Dev’essere sembrata tale a governanti e imprenditori locali che in un mix d’opportunismo e incoscienza lanciarono una campagna pubblicitaria trasformando le esplosioni in un’attrazione turistica. Nell’aprile del ’52 una di esse fu mostrata in tv e Las Vegas divenne per tutti Atomic City. Il profilo del fungo nucleare finì su cartoline, giocattoli, costumi da bagno. In città fu lanciato l’Atomic Cocktail a base di champagne, la Camera di commercio diffuse un calendario delle esplosioni, i turisti andavano sulle terrazze degli hotel per osservare i funghi salire in cielo, verso mezzanotte iniziavano feste che finivano non con lo spettacolo dell’alba, ma con quella della fissione nucleare.

Ci sono foto pazzesche scattate in quegli anni all’Hotel Last Frontier in cui gli ospiti in piscina se ne stanno dritti in piedi, in costume e con le mani sui fianchi, a scrutare il fumo all’orizzonte. In altre, modelle e ballerine sorridenti sono colte in pose plastiche mentre sullo sfondo s’alza il fungo. Secondo le autorità locali, assistere allo spettacolo più potente della Terra non metteva in pericolo la salute, bastava stare lontani e controllare la direzione dei venti. Anche il New York Times nel 1955 riferì del passatempo nucleare rassicurando i lettori circa gli effetti: «Non vi è sostanzialmente alcun pericolo derivante dal fallout». Il problema, si leggeva, erano semmai gli incidenti stradali: osservare il fenomeno poteva distrarre gli automobilisti. Usare le esplosioni come gancio per turisti serviva forse anche a normalizzarne gli effetti agli occhi dell’opinione pubblica. Migliaia di persone l’avrebbero pagata cara.

È incredibile che gli U2 abbiano voluto riallacciarsi a questa storia per dare il via alla loro residency allo Sphere di Las Vegas, una sorta di gigantesca arena a forma di planetario attrezzata con lo stato dell’arte della tecnologia audio-video che i quattro irlandesi inaugureranno stasera con lo show U2:UV basato su Achtung Baby. La canzone che hanno pubblicato s’intitola infatti Atomic City e non è solo la sigla ideale dei concerti allo Sphere, ma anche un omaggio all’immaginario della città che li ospita e un chiamata a raccolta in nome dell’energia (nucleare) del rock.

Se n’è avuta una piccola anteprima una dozzina di giorni fa, quando gli U2 e il regista Ben Kutchins hanno girato il video dalle parti di Fremont Street, là dove gli irlandesi avevano filmato negli anni ’80 I Still Haven’t Found What I’m Looking For. La canzone è il racconto iperbolico della Città Atomica come luogo di libertà per underdog e perdenti, per angeli che hanno smesso di volare, per credenti e scettici. È un posto che accoglie e abbraccia tutti, dove si può ancora sognare “e se i sogni che fai non ti spaventano, vuol dire che non sono grandi abbastanza”. Solo uno come Bono poteva andare a cercare amore e vita là dove la Guerra Fredda ha creato sofferenza, lì fra le radiazioni di Atomic City.

Il pezzo non dovrebbe aprire la strada a un nuovo album degli U2. L’idea è che sia la versione digitale di un 45 giri standalone anni ’70. Nel presentarlo Bono ha fatto i nomi dei Blondie, lo spirito (e non solo) è quello, e dei Clash, forse per via della parte di chitarra nel bridge che sembra una versione meno incazzata di quella di London Calling. Gli U2 non sono ventenni e nemmeno trentenni, e si sente, Atomic City è una canzonetta che rimastica il passato, ma l’energia scanzonata evocata da musica e testo bastano a farne una cosa non memorabile, ma nemmeno uno dei tanti pezzi bruttini che i quattro hanno pubblicato negli ultimi anni. È leggera e sbruffoncella, una specie di sigla di U2:UV eccitante in modo popolaresco.

Alla produzione ci sono Jacknife Lee e Steve Lillywhite, vale a dire i complici delle ultime e delle primissime scorribande del quartetto. È una di quelle canzoni che hai la sensazione d’avere già sentito, forse perché ne ricorda altre degli U2 o forse perché contiene effettivamente una canzone dei Blondie. Nell’“I’m free!” di Bono non è forse iscritto il “call me!” di Debbie Harry e Giorgio Moroder? Nel dubbio, i due compaiono come co-autori di Atomic City. È una visione del presente filtrata dal passato.

Bono dice che è una dichiarazione d’amore per il pubblico, il testo dice che è una “atomic song for everyone”, una canzone inclusiva come da statuto del gruppo. Suona come una chiamata a raccolta, anzi, una chiamata alla felicità che usa l’idea della Città Atomica e d’una energia irresistibile per fare una professione di fede. È comunione rock e liberazione collettiva. La città che ha trasformato l’Oppenheimer’s deadly toy in un’attrazione turistica è per Bono il posto ideale per chi ha fame di vita. Gli isotopi radioattivi non decadono col tempo, ma diventano magicamente una forza benefica in un ribaltamento di prospettiva.

Si sa che un altro soprannome di Las Vegas è Sin City, una questione di gioco d’azzardo, alcol, puttane e malavita, e forse non a caso il pezzo evoca indirettamente uno dei grandi misteri d’un certo rock, certamente di quello che fanno gli U2 che tende al misticismo e allo stesso tempo alla mondanità, pretendendo di cancellare i confini tra le due cose. E insomma, di tutti i posti in cui ci si può salvare, i quattro scelgono proprio Las Vegas mettendo assieme nel testo Sinatra e un coro gospel. Il buono della canzone viene da questo senso d’urgenza quasi mistica unita all’aria (per restare in tema Vegas) da simpatico baro di Bono. Canta che è pronto a gettarsi nella mischia, che scommette sul futuro, che la “libertà è contagiosa”, che “l’amore è Dio e Dio è amore”. Sembra divertirsi.

Spudorati come sono, nella copertina del singolo gli U2 sono ritratti davanti allo Sphere, coi colori sballati come quelli di una pellicola alterata dalle radiazioni. In un’immagine alternativa è riprodotta una foto del 1957 con un gruppo di reporter che assiste a Frenchman Flat a uno dei test nucleari, le macchine fotografiche, le auto parcheggiate, un bagliore irresistibile che arriva da lontano e porta con sé chissà quali benefici e malefici. Nell’immaginario dgli U2 il bagliore mortifero della bomba è sostituito dalle luci abbaglianti dello Sphere, un modo per appropriarsi di una storia ambigua e per molti dolorosa piegandola a un fine diciamo così più alto e nobile.

Nella vita reale, però, le vittime dell’era di Atomic City sono ancora in cerca di giustizia. Il Trattato sulla messa al bando parziale degli esperimenti nucleari ha messo fine nel 1963 agli esperimenti, ma non ovviamente alle loro conseguenze. Nell’arco di pochi anni, i cosiddetti Downwinders che si trovavano nelle contee interessate dalle radiazioni o avevano consumato prodotti contaminati hanno cominciato a soffrire di varie forme di tumore, sono una ventina quelle individuate dal governo americano. Si è discusso negli Stati Uniti sui reali effetti dei test sulla popolazione e sul fatto che il governo sapesse che erano nocivi. Di sicuro, nel 1990 il presidente George H. W. Bush ha firmato il Radiation Exposure Compensation Act allo scopo di risarcire le vittime dell’era atomica evitando numerose e onerose cause in tribunale. È una storia iniziata una decina d’anni prima che Bono nascesse ed è ancora aperta. Giusto l’anno scorso il presidente Biden ha esteso al giugno 2024 il termine ultimo entro il quale i cittadini possono presentare domanda di risarcimento. Possono aspirare a ricevere circa 50 mila dollari e facilitazioni nell’accesso alle cure.

Sono finiti i giorni in cui, in quelle zone del Nevada, i padri di famiglia dicevano ai figli di non alzare la terra fuori casa perché era roba pericolosa. Nel Nevada National Security Site non hanno più luogo esperimenti nucleari e l’era di Atomic City è oggetto di visite guidate, libri, documentari, ricerche. Da oggi è evocata e trasfigurata nella canzone paradossale di quattro irlandesi che cantano la città del peccato e delle radiazioni come un luogo in cui andare a prendersi la vita, tutti assieme.

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