La stagione del rap politicizzato è davvero finita? | Rolling Stone Italia
Hip hop 50+1

La stagione del rap politicizzato è davvero finita?

L’attrazione dell’hip hop per l’ipercapitalismo e il mainstream sembra irresistibile. È tutto perduto per gli artisti e attivisti che concepiscono la musica come strumento di progresso sociale della propria comunità?

La stagione del rap politicizzato è davvero finita?

Public Enemy

Foto: Richard Bord/Getty Images

È un pomeriggio di luglio 2023. Il sindaco di New York Eric Adams è ai piedi della scalinata di marmo del municipio. Lo circondano collaboratori e star dell’hip hop tra cui Eric B. (del duo Eric B. & Rakim), il rapper e star dei reality Peter Gunz e “The Blastmaster” KRS-One. L’occasione è l’annuncio di una serie di concerti per celebrare il 50° anniversario dell’hip hop nei five boroughs di New York.

Per entrare nella parte del sindaco hip hop, Adams ha tolto il completo da businessman e  indossato una giacca della tuta Adidas con cappellino da baseball rosso con le lettere “PR” in oro metallizzato sulla visiera, un omaggio alla popolazione portoricana della città che è stata fondamentale nella creazione della cultura hip hop. A un certo punto, Adams invita KRS-One a fare del freestyle: «Tieni il microfono, parla di quanto sono bravo come sindaco».

È un momento surreale. KRS-One, il rapper che ha campionato discorsi dell’attivista radicale nero Kwame Ture e ha scritto canzoni contro la violenza della polizia come Sound of da Police, Black Cop e 30 Cops or More, si mette davvero a lodare in versi Adams, ex capitano della polizia e strenuo difensore del New York Police Department anche di fronte alle accuse frequenti di brutalità, comportamenti scorretti ed eccesso di zelo nei primi due anni del suo mandato. “Ve lo dico ora, perché ai tempi / C’era un sindaco che si chiamava Koch / Che non ci sapeva fare / Ci faceva correre su e giù per la città. / Ma 20 anni dopo, indovinate chi è arrivato? / Il vero hip hop”.

Cose simili sono accadute più volte durante i festeggiamenti dello scorso anno per il 50° anniversario del rap. Lil Wayne ha eseguito Mrs. Officer all’evento della vicepresidente Kamala Harris tenuto a settembre per celebrare l’hip hop, offrendoci l’immagine parodistica di Harris che balla sulle note di una canzone con un titolo che potrebbe essere usato per attaccarne la politica – pugno di ferro contro il crimine e guanto di velluto coi poliziotti – quand’era procuratrice generale della California. Fat Joe ha regalato un paio di Air Force One Terror Squad all’ex presidente Bill Clinton, vale a dire l’uomo che ha firmato il Violent Crime Control and Law Enforcement Act del 1994, causando incarcerazioni di massa. L’Ice Cube di AmeriKKKa’s Most Wanted sarebbe stato un nemico giurato di un conservatore come Tucker Carlson, eppure a luglio ha partecipato al suo show, dove ha definito il vaccino per il Covid-19 un «lavoro fatto in fretta».

A giudicare da celebrazioni di questo genere, la cultura hip hop ha perso per strada il suo spirito radicale. Era naturale pensare che i rapper avrebbero detto qualcosa sulle radici anti-establishment in occasione del suo “compleanno”. E invece è accaduto esattamente il contrario.

«Il fatto che le comunità oppresse abbiano creato espressioni culturali di questo genere in modo indipendente e autonomo, in risposta alle vessazioni che stavano subendo, è un atto radicale, se non rivoluzionario», afferma Jared Ball, docente di comunicazione e studi africani alla Morgan State University. «Ma la condizione in cui si trovavano non è cambiata, non è sparita di colpo solo perché dei ragazzi hanno iniziato a rubare la corrente elettrica dall’illuminazione stradale e hanno dato vita a una nuova forma d’arte».

Ball fa l’esempio della Sugar Hill Records di Sylvia Robinson, l’etichetta che nel 1979 ha pubblicato il fondamentale Rapper’s Delight della Sugarhill Gang. Quel disco, il primo della storia dell’hip hop messo in commercio, nonché un successo istantaneo, è nato non in supporto della causa dei neri, ma dal desiderio di Robinson di sfruttare le sonorità che arrivavano dalla strada per salvare la sua etichetta sull’orlo della bancarotta.

Arriva Sylvia Robinson e sì, si adopera per promuovere l’hip hop pubblicando canzoni come The Message di Grandmaster Flash & The Furious Five, ma da subito s’inventa anche un trucchetto furbo per vendere la musica rap al pubblico bianco, con la Sugarhill Gang. Fin dall’inizio, il rap è un genere mercificato, che non tenta di attirare il pubblico per educarlo politicamente, non vuole dire ai bianchi «guardate cosa sta succedendo a questi poveri ragazzi neri, facciamo qualcosa», ma «sfruttiamo il fenomeno per farci dei soldi». Ecco come siamo finiti qui».

Ora, passato il celebratissimo 50° anniversario, la cultura hip hop sembra attraversare una fase di stallo mentre si radica saldamente nella struttura capitalista. A giugno 2020 c’è stata una grande rivolta dopo l’omicidio da parte della polizia di George Floyd e Breonna Taylor. Persino le corporation hanno tentato di blandire i manifestanti neri e ispanici, il mondo dell’hip hop, invece, ha fatto il minimo sindacale. E la cosa continua a ripetersi, visto che le star più importanti del rap si mantengono neutrali in pubblico e la ricerca del profitto ha smorzato gran parte del mordente politico del genere. Yasiin Bey, ospite del podcast The Cutting Room Floor all’inizio di questo mese, ha descritto la musica di Drake come «adatta allo shopping», non certo una forma d’arte che riflette i problemi di una società vittima contemporaneamente di più crisi, dal cambiamento climatico alla violenza di Stato al divario nella distribuzione delle ricchezze fino alla guerra.

«Nell’hip hop si è sempre annidata un’anima ipercapitalista, una vena diciamo così trumpiana», dice Dan Charnas, veterano dell’industria musicale, professore associato alla New York University e autore dei best seller Dilla Time e The Big Payback: The History of the Business of Hip Hop. Coscienza sociale e impulsi capitalistici sono sempre coesistiti in varia misura in quella cultura, dice, e man mano che il business dell’hip hop cresceva, i secondi hanno prevalso sui primi. «L’ipercapitalismo è stato premiato dall’industria e dal pubblico. Alla gente sono piaciute le storie sul fare soldi, mentre gli anni ’90 lasciavano il posto ai 2000. Era come leggere un libro di Robert Kiyosaki», l’autore di Padre ricco padre povero.

Eppure c’è stato un momento in cui l’hip hop (o almeno parte di esso) era in sintonia con le idee politiche radicali delle generazioni precedenti, come quelle del Black Panther Party for Self-Defense e del Black Liberation Army (militava in entrambi la madre di Tupac, Afeni Shakur). Organizzato dal Malcolm X Grassroots Movement (MXGM), un’associazione di attivisti che si ispira a Malcolm X, il Black August Hip Hop Project è partito nel 1998 per approfondire il legame tra la comunità hip hop e le lotte radicali che hanno ispirato alcuni degli artisti più politicizzati della musica. Se il 50° anniversario dell’hip hop rappresenta il nadir dell’attivismo di sinistra del rap, il Black August Project ne è stato lo zenith.

Black August è nato nell’ambito del sistema carcerario dello Stato della California, si è diffuso fuori dalle mura carcerarie diventando una celebrazione della resistenza globale dei neri contro la repressione razzista e si è poi avvicinato al rap. Monifa Bandele è stata determinante nella creazione del Black August. Ricorda come il suo amore per l’hip hop, da ragazzina di Brooklyn degli anni ’90, abbia viaggiato di pari passo con la sua formazione politica. «Quando abbiamo fondato il Black August Hip Hop Project, molti fra noi giovani attivisti sono andati al World Youth Festival dell’Avana, a Cuba. Noi avevamo lavorato principalmente sul fronte della lotta agli abusi della polizia. Erano anche i primi anni delle incarcerazioni di massa causate dal Crime Bill del 1994. Quindi pensavamo: il crimine e la violenza erano alle stelle anche negli anni ’80 e ’90, ma ora lo Stato ci dà la caccia e i nostri amici finiscono in galera, però abbiamo questa piattaforma emergente che ci mette in contatto col mondo».

Coinvolgendo rapper politicizzati come Common, Talib Kweli, Yasiin Bey, Black Thought dei Roots, David Banner e Dead Prez, Black August ha raccolto fondi per le spese legali dei prigionieri politici e per sensibilizzare sul tema i fan del rap. Capendo la valenza dell’hip hop come strumento di comunicazione globale, Bandele e i suoi collaboratori di MXGM hanno deciso di dare uno scopo a questo potente mezzo.

Mentre i partecipanti al Black August stavano allargando i propri orizzonti per occuparsi di giustizia sociale e diritti umani, una porzione più ampia di artisti si stava invece concentrando sull’hip hop come impresa economica. Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000 c’è stata l’ascesa di Jay-Z e Roc-A-Fella, Murder Inc. Cash Money, No Limit e una serie di artisti-imprenditori che hanno cominciato a spostare l’equilibrio di potere del music biz a favore di artisti ed etichette locali per trarre profitto da un’industria musicale in piena espansione. Nel 2000, i ricavi dei CD hanno raggiunto la cifra record di 13,2 miliardi di dollari, trainati dai dischi multiplatino di Lauryn Hill, Jay-Z, DMX, Eminem. L’Hard Knock Life Tour di Jay-Z e DMX ha incassato la bellezza di 18 milioni di dollari, dimostrando che il rap poteva fare il tutto esaurito nelle arene di tutti gli Stati Uniti. Il discusso magnate del rap Diddy è finito sulla copertina della Celebrity 100 di Forbes nel 1999. Secondo la rivista, quell’anno la sua Bad Boy Records valeva 250 milioni di dollari. Russell Simmons ha venduto le sue quote della Def Jam alla Universal per una cifra stimata attorno ai 120 milioni di dollari. L’hip hop era passato dalle jam nel Bronx a muovere milioni di dollari e i guadagni da sogno legati a una carriera di successo nel rap sembravano alla portata di molti. Mentre il business dell’hip hop esplodeva, la politica di sinistra dell’hip hop svaniva.

«La cultura è uno strumento potente che può essere usato per progredire o distruggere», dice Bandele. «L’hip hop, nato a New York e poi sviluppatosi in tutto il mondo, rappresenta il legame tra i giovani neri di allora e i neri di tutto il mondo. Ed è importante, perché uno dei modi in cui costruiamo il potere politico è restando connessi. E uno dei modi in cui ci connettiamo è tramite le piattaforme culturali».

Lo scorso novembre Redveil, rapper di PG County, ha usato il palco del Camp Flog Gnaw come vetrina per sensibilizzare sul tema dell’occupazione israeliana della Palestina. Ha utilizzato il grande schermo del festival per mostrare un elenco di nomi di centinaia di bambini uccisi. «Se siete umani, cazzo, proverete qualcosa quando dirò queste cose», ha detto. «Non è difficile, non lasciate che qualcuno vi propini cazzate». Ha poi chiesto alla gente di interpellare i propri rappresentanti per chiedere al governo degli Stati Uniti di smettere di finanziare i bombardamenti dell’IDF su Gaza. La presa di posizione coraggiosa del rapper di Learn 2 Swim dimostra che ci sono ancora artisti che incarnano lo spirito del Black August.

Mavi è un rapper ventiquattrenne di Charlotte, il cui messaggio è in linea con gli artisti che hanno promosso Black August. Descrive il suo album inedito Shango come un progetto di protesta feroce nel bel mezzo delle rivolte scoppiate in tutto il mondo nel 2020. Secondo lui, le persone schierate contro l’oppressione del sistema sono divenute un target come un altro di consumatori per l’industria dell’intrattenimento. Quando Black Lives Matter e altri movimenti simili sono saliti alla ribalta per chiedere parità di trattamento di fronte alla violenza di Stato, si è creato quello che viene chiamato effetto alone. «Tutto ciò che non era diretto attivamente a umanizzarli, non veniva proprio considerato dai neri. Se non eri pronto a dire “black lives matter”, non eri considerato proprio».

Negli ultimi anni, l’hip hop è diventato il veicolo principale per le aziende che cercano di migliorare la propria immagine e tranquillizzare i consumatori di colore. La NFL ha di fatto bandito Colin Kaepernick per essersi inginocchiato durante l’inno nazionale in segno di protesta contro le violenze della polizia, ma ha poi risposto gli appelli dei consumatori a boicottare la lega ingaggiando Jay-Z come responsabile dell’intrattenimento musicale dal vivo, affidando a Roc Nation il coordinamento degli spettacoli dell’halftime show del Super Bowl (compresa la bizzarria di Dr. Dre and Friends del 2022). Una manovra che riecheggia l’acquisizione da parte di Jay-Z di parte dei Brooklyn Nets per rendere più appetibile agli abitanti di Brooklyn il trasferimento della squadra di Prospect Heights al Barclays Center.

Nell’estate del 2020, nel pieno delle proteste dopo i fatti di George Floyd e Breonna Taylor, i neri hanno chiesto alle corporation americane equità razziale e maggiore consapevolezza sul tema del razzismo. Mass Appeal è stata una delle tante aziende a esprimere solidarietà ai consumatori neri. Il brand fondato nel 1996 da Patrick Elasik e Adrian Moeller (e rilanciato nel 2013 da un gruppo di investitori tra cui Nas) collabora con piattaforme di streaming e grandi marchi per la realizzazione di spettacoli televisivi, documentari e concerti orientati sull’hip hop impegnandosi, scrivono, affinché «questa non sia un’altra iniziativa sporadica, ma un pilastro della nostra identità».

Quattro mesi più tardi, a ottobre, Mass Appeal Media Inc. ha depositato presso lo United States Patent and Trademark Office degli Stati Uniti l’espressione “Hip Hop 50”, che si riferiva a vari servizi tra cui “sviluppo, creazione, produzione e postproduzione di contenuti multimediali”. Peter Bittenbender, amministratore delegato di Mass Appeal e membro del consiglio di amministrazione dell’Universal Hip Hop Museum, afferma che hanno depositato il marchio per valorizzarlo, non per reclamarne la proprietà. «Per il museo è stato un modo per alzare il tiro, per renderlo qualcosa di esclusivo. Non abbiamo impedito alle persone di usare “Hip Hop 50”».

La registrazione del marchio ha dato loro la possibilità di avere il controllo sul linguaggio usato nella celebrazione dell’hip hop. Quando gli è stato chiesto quanto avessero dato priorità alla questione politica nelle iniziative per il 2023, Bittenbender ha commentato che «ci è parso che ci fossero tanti modi diversi in cui esercitare il nostro impatto» e «il principale su cui ci siamo concentrati è stato il museo dell’hip hop». Il museo ha ospitato una serie di eventi in cui sono stati messi in esposizione vari oggetti della storia del rap, ma si sono tenute anche performance di personaggi fondamentali che, altrimenti, non sarebbero stati celebrati. Un’iniziativa ammirevole, che però non riflette affatto la spinta radicale del genere. Ma, in effetti, quanto impegno politico è lecito aspettarsi da una corporation? E con che coraggio ci si appropria di qualcosa come “Hip Hop 50”?

«L’hip hop è open source», dice Mavi. «L’hip hop ha un orientamento anticapitalista perché è un contenitore della storia nera. La sua forma riflette la sua funzione. Parlando a nome di una comunità che per certi versi è compatta, la storia dell’hip hop degli ultimi 50 anni è fatta di prestiti, contributi e campionamenti. Nessuno dei capostipiti dell’hip hop direbbe: ho inventato io l’hip hop».

Se la coscienza politica dell’hip hop è andata apparentemente scemando, le condizioni dei neri e degli ispanici invece non sono cambiate più di tanto. Secondo Ball, i festeggiamenti per Hip Hop 50 avrebbero dovuto evidenziare meglio questo aspetto. «Ben venga unirsi intorno alla breakdance e ai mixtape, ma a un certo punto dobbiamo chiederci: perché queste persone sono ancora povere? Perché vengono ancora ammazzate dalla polizia? Perché sono ancora in prigione? Quando si risolveranno i problemi reali? Se mi amate, salvatemi dalla povertà. Non amate la mia arte lasciandomi in catene, maledizione».

Da Rolling Stone US.

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