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La rivoluzione non è un concerto di scrocco

Ieri sera alcuni studenti hanno interrotto un concerto di Vinicio Capossela dichiarando che "la cultura in luoghi pubblici non può essere a pagamento". Uno slogan privo di senso, almeno quanto la pretesa di far pagare il conto a chi la cultura la fa davvero

La rivoluzione non è un concerto di scrocco

Uno dei temi che hanno più appassionato il genere umano negli ultimi cinquant’anni è la rivoluzione del Sessantotto. Quest’espressione chiave è stata usata molte volte nel corso degli anni, nei contesti più disparati. Quella classica, dei movimenti antagonisti mondiali che oramai si trovano sui libri di storia, è legata agli anni Sessanta e al rifiuto, da parte dei giovani, di molti dei comportamenti delle generazioni a loro precedenti: atteggiamenti politici, etici, sociali e sessuali. Nel caso italiano, il grosso di quella ribellione sfociò negli anni Settanta, in quelli che poi si trasformarono negli anni di piombo, quando la contestazione da verbale divenne armata e la lotta da militante militare. Erano anni difficili e assai complicati, nei quali il vocabolario giovanile pretendeva l’utilizzo di espressioni forti, spesso utopiche, a volte semplicemente impossibili, come “Esproprio Proletario” (cioè si entra in gruppo in un negozio e si esce con quel che si vuole) o “Autoriduzione” (cioè si va al cinema o al ristorante senza pagare). Pensieri complessi e spesso disarmanti, portati avanti nel nome di un’ideale che, personalmente, continuo a trovare assai interessante ma impossibile: la vita pubblica non è solo l’atto meccanico dello scambio di merci e servizi ma un complesso sistema di dinamiche sociali, che coinvolge molte zone della mente umana; un’attività che è politica, ma che riguarda anche l’empatia, la giustizia, l’uguaglianza, la libertà, il bene della collettività e poi forse anche il proprio tornaconto.

Ripensavo a questo, leggendo un articolo sull’interruzione del concerto di Capossela e rendendomi conto che nella contestazione degli studenti di Pisa c’è un bug di fondo. Prima di tutto: i fatti. Ieri sera un blitz di un centinaio di studenti ha interrotto il concerto di Vinicio Capossela nella centrale piazza dei Cavalieri. I giovani hanno rimosso le transenne che delimitano l’area della platea raggiungendo il palcoscenico e interrompendo la musica. Tre gli studenti, appartenenti ai collettivi universitari riconducibili all’area antagonista, sono saliti sul palco per parlare con Vinicio che ha poi offerto loro il microfono per alcuni minuti. Gli studenti hanno allora detto che “iniziative culturali come questa, in luoghi pubblici, non devono essere a beneficio di pochi e a pagamento ma devono essere gratuite e per tutti”. Il concerto è poi ripreso tranquillamente, coi contestatori a bordo palco. 



Uno dei fatti raccapriccianti della civiltà dei consumi contemporanea riguarda il costo dei prodotti e delle esperienze. A tutti piace spendere meno o non spendere affatto. Ci piacciono sconti, offerte e dilatazioni anche su acquisti irrisori. Per non parlare di tutti gli impicci e imbrogli creati ad arte per non pagare qualsiasi forma di abbonamento. Naturalmente non c’è nulla di ideologico nel nostro venire alle mani per un 3×2 durante i saldi o nel nostro craccare un account di Spotify. Sappiamo che mentre alcune merci hanno un costo dato dalle materie prime e dalla lavorazione, come per dire la pizza, altre hanno un costo che non ha nessuna relazione con il prodotto. Nel bene, nel caso vogliate fare vostra la prima edizione de La Trilogia della Città di K di Ágota Kristóf o fare un giro al Moma di New York, o nel male, nel caso siate disposti a spendere 300 euro per un paio di jeans rotti, venduti da un paio di stilisti con poca affinità con la cultura orientale.

Nei primi casi arricchireste la vostra vita con uno dei libri più belli mai scritti e in uno dei musei più belli al mondo, nel secondo al massimo passerete per quindici minuti per veri trapper in un bar di Giussano. Lo sapete che quei jeans valgono 20 euro, e che i rimanenti quattrini costituiscono un carico arbitrario per due motivi. Il primo: se i loro jeans rotti costassero 20 euro, molti penserebbero che sono uguali a quelli sani dell’OVS. Il secondo: quel prezzo li trasforma in un acquisto d’élite, di classe, benché sembriate al meglio degli incidentati.



In quest’ottica, il concerto di Capossela rientra nella categoria del libro di Kristóf e del giro al Moma. Pura e semplice cultura. Allora la domanda sorge spontanea: un concerto di un artista con trent’anni di carriera, quindici dischi e vari premi all’attivo quanto può valere? Più o meno di un abbonamento per un anno a PornHub? Non voglio fare l’intellettuale della situazione, potrei tranquillamente dire lo stesso prezzo sia il giusto compromesso. Il problema risiede nel fatto che, molto probabilmente, i ragazzi che han protestato a Pisa, l’abbonamento su PornHub non lo pagano. Non necessariamente perché hanno un loro modo per scavalcare pure quello oltre che le transenne, ma più prosaicamente perché si faranno bastare le anteprime e i contenuti gratuiti. E lo stesso faranno su qualsiasi altra piattaforma in cui è consentito lo scrocco. Purtroppo sono anche loro figli dei tempi in cui viviamo, che ci volete fare? E ogni giorno la nostra classe dirigente batte il martello sull’idea di abbassare le tasse, mai che ci fosse uno che dica di volere convogliare le tasse che si pagano in ciò che è giusto. L’idea di fondo è sempre quella di andare a scrocco, dell’avere migliore risultato col minimo sforzo.

Finché ci sarà gente disposta a spendere 300 euro per dei jeans rotti, ci sarà chi glieli venderà, allo stesso modo finché ci sarà gente disposta a dare una preferenza politica in base a quante meno tasse pagherà per potersi comprare poi i jeans da 300 euro ci sarà un politico disposto a dirgli che toglierà lì e abbasserà là, come se il problema sia quello e non che i soldi delle tasse non si sa dove vanno a finire. È un circolo vizioso. Allo stesso modo, i ragazzi di Pisa credono che per diffondere equamente la cultura a pagare debba essere chi la cultura la fa, non certo loro che ne usufruiscono e spesso già a scrocco (pagherei oro per vedere le loro discografie domestiche o il merchandising in loro possesso). E non perché siano armati di chissà quale ideologia che si possa dire sessantottina ma perché, in fondo, temo che per loro (e molti loro coetanei) sia oramai tutto sullo stesso piano: YouTube, Capossela, Spotify, Ágota Kristóf, Netflix, senza una (seppur minima) capacità di discernere, fare distinguo e, soprattutto, comprendere di cosa si sta parlando.

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