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La pubblicità di Phil Collins al Concorde e altre storie dal documentario sul Live Aid

‘Live Aid: When Rock’n’Roll Took on the World’ racconta il doppio concerto di 40 anni fa (ma anche il Live 8 del 2005). Il tormento di Geldof, lo scetticismo delle star, il microfono di McCartney, le reunion. E George W. Bush che dice: «So chi è Bono, è quello che ha sposato Cher»

Foto: Staff/Daily Mirror/Mirrorpix/Getty Images

«È stato il nostro Woodstock, ma migliore», dice Nile Rodgers in Live Aid: When Rock’n’Roll Took on the World. Gli over qualcosa che l’hanno visto all’epoca potrebbero dissentire, anche se sui due palchi del Live Aid c’era gente come Mick Jagger, David Bowie, Bob Dylan e nonostante le reunion di Led Zeppelin e Who. Ma in termini di ambizione, fondi raccolti e cooperazione globale, Rodgers non ha tutti i torti.

I concertoni del luglio 1985 a Londra e Philadelphia hanno raccolto l’equivalente di 450 milioni di dollari attuali per aiutare le popolazioni africane colpite dalla carestia grazie alla presenza di leggende del rock e di icone di MTV. E questo senza contare i proventi derivanti dai singoli benefici pubblicati in quel periodo Do They Know It’s Christmas? dei Band Aid e We Are the World degli USA for Africa, o i concerti del 2005 legati al progetto Live 8.

Diretto da Tom Pollard, il documentario in più puntate Live Aid: When Rock‘n’Roll Took on the World racconta l’epoca in cui le popstar decisero che era il momento di restituire qualcosa al mondo e dimostrare di non essere solo edonisti e apolitici. La prima parte è incentrata la realizzazione del singolo dei Band Aid e i preparativi per il Live Aid, la seconda e la terza approfondiscono la creazione di We Are the World e raccontano i concerti Live Aid, la quarta è su Live 8.

Quarant’anni dopo, ci si ricorda del Live Aid per una serie di grandi momenti musical-televisivi: il trionfo dei Queen a Wembley, Madonna che risponde a un contestatore dicendo che non si fa «gettare addosso merda da nessuno» (erano appena uscite alcune sue foto spinte), Mick Jagger e Tina Turner che duettano a Philadelphia, Phil Collins che prende il Concorde per salire sul palco coi Led Zeppelin negli Stati Uniti dopo aver suonato a Londra (che questi momenti siano più o meno iconici di Jimi Hendrix che suona The Star-Spangled Banner o Country Joe McDonald che guida il pubblico nel Fish Cheer a Woodstock è un altro discorso). Il documentario riesce a svelare nuovi dettagli grazie a interviste con Bob Geldof, Bono, Pete Townshend e politici come George W. Bush e Tony Blair, coinvolti nel Live 8, l’evento che mirava ad aiutare le nazioni africane afflitte dal debito e dalla crisi dell’Aids. Ecco alcune cose che abbiamo (ri)scoperto.

Il tormento di Geldof

La storia è nota: tutto nasce quando Bob Geldof, all’epoca noto come cantante dei Boomtown Rats, vede in tv un servizio sulla popolazione che muore di fame in Etiopia. Nel documentario lo vediamo alla presentazione di un libro che parla della crisi mentre un invitato gli chiede se vuole dello champagne. Da quel momento ha una sola ossessione: usare il pop per raccogliere fondi e sensibilizzare sull’emergenza umanitaria.

«Ha portato avanti questa cosa nei momenti buoni e in quelli difficili», dice Pete Townshend a proposito di Geldof, e ha ragione. Oggi settantatreenne coi capelli grigi, Geldof ha ancora l’aspetto trasandato e lo sguardo tormentato di chi ha visto (e affrontato) di tutto. Lo vediamo reagire quando, durante il Live Aid, gli dicono che non stanno arrivando abbastanza telefonate e lui va in diretta tv per rimproverare il pubblico, spingendolo a donare di più.

Nel 2005, dopo aver spiegato a Tony Blair la situazione in Africa («Sta succedendo di nuovo!», urla al telefono), si ritrova a dover invitare nuovamente i musicisti a partecipare a un altro concertone benefico. «Dovevo richiamare di nuovo tutte queste persone? Non potete neanche immaginare l’imbarazzo che ho provato». Lo vediamo quindi telefonare a Mick Jagger per chiedergli se vuole fare il bis dopo il 1985 («Dobbiamo pensarci, Bob», risponde Jagger, che infatti non parteciperà). Quando Geldof scopre che ci vorranno cinque anni prima che i Paesi più potenti del mondo raddoppino i fondi per l’Africa dopo il Live 8, quasi perde il controllo durante una conferenza stampa, un momento che perfino Bono definisce «molto, molto intenso». In altre parole, Geldof si è guadagnato ogni capello grigio che ha in testa.

I dubbi dei cantanti

Brian May dei Queen pensava che trasmettere il Live Aid in tutto il mondo via satellite fosse «un’idea balzana». Midge Ure degli Ultravox, co-autore e produttore del pezzo dei Band Aid, ricorda di aver sentito il demo acustico di Geldof di Do They Know It’s Christmas? e aver pensato che sembrava un pezzo di Bob Dylan. Geldof ammette senza problemi che non era un grande fan dei Queen, ai quali non è stato concesso uno slot da headliner al Live Aid. «“Usiamo lo studio come strumento”… ma vai a fare in culo!», dice Geldof descrivendo il suo iniziale scetticismo da punk nei confronti della band (ma, come quasi tutti noi, anche lui si è ricreduto quando i Queen sono saliti sul palco).

Anni dopo, quando Geldof ha scritto una lettera a Madonna per chiederle di esibirsi al Live 8 come aveva fatto al Live Aid, lei gli ha ricordato senza troppi convenevoli i dubbi su dove sarebbero finiti i fondi.

L’assenza di artisti neri

Geldof è stato criticato per la scarsa presenza (circa il 10%) di artisti neri al Live Aid. In una scena del documentario, una giornalista nera del Regno Unito afferma che lo show è frutto del «paternalismo bianco». All’epoca Geldof rispose in varie interviste che la sua organizzazione aveva contattato gli artisti neri che avevano partecipato a We Are the World come Lionel Richie, Michael Jackson, Diana Ross e pure Prince (che non era presente in USA for Africa) senza ricevere alcuna risposta.

In una nuova intervista, Geldof adduce ragoni pratiche alla scarsa diversità nello show di Londra. Ovvero, secondo lui all’epoca non c’erano molti artisti black britannici di fama mondiale, l’unica rappresentata era Sade. Il concerto a Philadelphia era più vario grazie alle presenze di Tina Turner, Patti LaBelle, Ashford and Simpson, Run-D.M.C., Billy Ocean e i Four Tops. In una scena memorabile, LaBelle si toglie le scarpe e balla a piedi nudi: temeva di restare folgorata a causa dell’acqua e dei cavi elettrici sul palco. Lionel Richie racconta di essere arrivato a Philadelphia giusto in tempo per partecipare al purtroppo non riuscitissimo finale con We Are the World, privo però del 90% dei partecipanti originali.

La questione della diversità è riemersa nel 2005 con i concerti del Live 8, in particolare quello a Londra dove l’unico artista africano in cartellone era Youssou N’Dour (a Philadelphia c’erano invece Jay-Z, Destiny’s Child, Alicia Keys e Will Smith). A proposito del concerto londinese, Bono ammette: «Abbiamo fatto del nostro meglio per coinvolgere più artisti africani, ma abbiamo fallito. Abbiamo fatto una cazzata».

Le reunion complicate

Tra Live Aid e Live 8, molti gruppi storici i cui membri a malapena si parlavano – Led Zeppelin, Who, Crosby Stills Nash and Young, Pink Floyd, Black Sabbath – hanno messo da parte i dissapori e sono tornati sul palco per una giusta causa. Il documentario non racconta tutte le reunion (niente Floyd, purtroppo), ma quelle di cui parla fanno capire i drammoni che si sono vissuti dietro le quinte.

Quando Geldof ha tenuto la conferenza stampa per annunciare la prima line-up del Live Aid, gli Who si erano sciolti da anni. Questo non gli ha impedito di annunciarne la presenza prima ancora di averli contattati. «Non avevamo alcuna intenzione di tornare assieme», dice un impassibile Pete Townshend, «è stato un ricatto». Ripensando a quelle dichiarazioni premature (sugli Who e altri), Midge Ure dice che «se l’avessi fatto io, mi avrebbero fatto causa». La passione e la determinazione di Geldof hanno fatto la differenza (e gli Who hanno suonato Won’t Get Fooled Again con la foga di chi vuole spazzare la povertà a colpi di rock).

E poi c’erano i Led Zeppelin, che non facevano un concerto dalla morte di John Bonham cinque anni prima. Per Robert Plant, Jimmy Page e John Paul Jones (con Phil Collins alla batteria) l’esperienza è stata talmente disastrosa da rifiutarsi di concedere l’autorizzazione affinché venisse ritrasmessa e difatti nel documentario non se ne vede manco un secondo. Quando Alan Hunter di MTV prova a intervistare i quattro nel backstage, trova una band talmente poco reattiva che, fra tutti, quello che parla è Collins. «Non c’era un’atmosfera granché amichevole nel camerino degli Zeppelin», dice oggi il batterista. «Robert era fantastico, ma gli altri non sembravano entusiasti».

La pubblicità per il Concorde

Non tutte le esibizioni sono state frutto di puro altruismo. Dopo aver preso parte allo show di Londra (accompagnando Sting in Every Breath You Take, tra le altre cose), Collins è salito a bordo di un Concorde diretto negli Stati Uniti per esibirsi prima con le sue canzoni e poi coi Led Zeppelin. Come ammette uno degli organizzatori, quella «stunt performance» serviva anche a promuovere il Concorde, l’aereo dei super-ricchi capace di attraversare l’Atlantico in poco più di tre ore.

Il modo in cui i media hanno seguito Collins dal momento in cui è uscito dallo stadio di Wembley fino all’arrivo a Philadelphia aveva qualcosa di comico e lo ha ancora. Il batterista ricorda l’incontro durante il volo con un’altra passeggera, Cher. Quando le racconta del concerto, lei gli chiede di farla partecipare E così, eccola apparire nel finale sul palco mentre canta We Are the World.

Il microfono di McCartney

Il Live Aid londinese doveva chiudersi con McCartney che cantava Let It Be accompagnandosi al pianoforte. Ma anche i piani migliori ossono andare in fumo. Il microfono di Macca ha smesso di funzionare e lui non se n’è accorto subito. Per arginare il problema, Bob Geldof, David Bowie, Pete Townshend e Alison Moyet degli Yazoo sono saliti sul palco per cantare con lui («Pete o forse David disse: “Aiutiamolo”», ricorda Geldof). Il coro del pubblico ha contribuito a salvare una performance potenzialmente catastrofica. Ancora oggi Geldof scuote la testa ricordando quel momento con incredulità, mentre il direttore di produzione Andrew Zweck ammette con imbarazzo di sentirsi «da sempre mortificato» per l’errore e che «non sono mai più stato invitato a lavorare con Paul».

I capelli di Bono

Bono non ci capacita ancora del mullet che sfoggiava al Live Aid: «Non riesco a guardare quella cazzo di cosa». Ammette pure che il momento in cui si è lanciato tra il pubblico per aiutare una ragazza in difficoltà era in parte calcolato: «Il performer che è in me cercava un momento del genere». Ha funzionato, diamogliene merito.

La visita al campo profughi

Lo si sa da sempre, ma gli ostacoli che l’organizzazione ha affrontato nel 1985 e vent’anni dopo restano ancora oggi sorprendenti. La spedizione di grano verso l’Etiopia nel 1985 fu ritardata perché i cartelli locali chiedevano un sovrapprezzo pesantissimo per il trasporto. Geldof racconta di essersi sentito praticamente costretto ad andare in Africa quell’anno, in un campo profughi, per fornire una nuova storia alla stampa che si era stancata della faccenda. Due ex funzionari del governo etiope aggiungono oggi di aver avuto problemi con il titolo e il testo di Do They Know It’s Christmas?. «Non si sono documentati», dice uno di loro. «Gli etiopi sono una delle popolazione cristiane più antiche del mondo».

«So chi è Bono, è quello che ha sposato Cher»

Uno dei momenti più sorprendenti del documentario è quando si vedono le immagini dei leader mondiali riuniti per il summit del G8 del 2005 in Scozia. C’erano George W. Bush, l’allora primo ministro britannico Tony Blair e Vladimir Putin, che non sembrava del tutto a suo agio ma collaborava con gli altri capi di stato. Come dice Blair, «probabilmente è stato uno degli ultimi momenti di vera solidarietà globale».

Intervistato per il documentario, Bush regala alcuni dei momenti più comici, voluti o meno. Per il Live 8, Bono era diventato quasi un portavoce al pari di Geldof (come osserva quest’ultimo, «a quel punto lui era una superstar globale, io no»). Joshua Bolten, capo dello staff di Bush, dice al presidente che Bono ha chiesto un incontro e gli chiede se sa chi è Bono: «Sì, ha sposato Cher», risponde Bush. «Non riuscivo a capire se stesse scherzando,» racconta Bolten, «e ho detto: “No, quello è Sonny Bono, che è morto”».

Quando Bush ha incontrato Bono e Geldof, «non avevo idea di chi fosse Geldof, sembrava appena strisciato fuori da un buco sotto terra». Eppure è sorprendente vedere un presidente americano sostenere che il suo Paese deve fare la sua parte per aiutare le nazioni povere e indebitate nel mezzo della crisi dell’AIDS. «Ero il presidente di quella che considero la nazione più generosa del mondo», dice Bush, «e non stavamo facendo nulla a riguardo». Si è assicurato che qualcosa si facesse, senza chiedere alcunché in cambio. Ma tu pensa.

Da Rolling Stone US.

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