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La prima volta che incontrai Richard Benson

Da chitarrista fissato con la velocità a sottoproletario pasoliniano dedito al nonsense, quella di Richard Benson è una storia di ascese, cadute e tentativi di risalire la china: proprio come quella di tutti noi

Foto via Facebook

Se ripenso a Richard Benson, la prima istantanea che ho in mente è quella di un 14enne che, scandagliando minuziosamente YouTube alla ricerca di video a tema chitarra rock, si imbatte negli spezzoni di una serie di video-lezioni abbastanza spartane, originariamente distribuite in formato VHS in quel gigantesco sottobosco sotterraneo popolato dai wannabe guitar heroes della metà degli anni ’90, quelli cresciuti con il mito della supremazia tecnica dei vari Yngwie Malmsteen, Joe Satriani, Michael Angelo Batio, Paul Gilbert e chi più ne ha più ne metta.

La serie si intitolava “Lezioni di chitarra rock, metal, rock-blues, guitar tricks”, ed era prodotta da Playgame Music. Il decano, invece, era un uomo con la fronte larga e i capelli lunghi e mechati, giaccone in pelle a scoprire l’addome, pantaloni a vita altissima e un paio di occhiali da sole a conferirgli più carisma e sintomatico mistero, citando un vecchio saggio.

Il tono con cui tentava di infondere il proprio sapere – frutto, a sua detta, di uno stile di vita benedettino e stakanovista, fatto di rinunce, clausure e sterminate sessioni di pratica – ai propri adepti non era per nulla conciliante; il messaggio che tentava di far passare era chiaro: per migliorare sulla chitarra, sosteneva, è indispensabile liberarsi della pigrizia. Ecco perché, prima di introdurre il principiante nel fantastico mondo delle scale a plettraggio alternato, specificava con fare severo che «bisogna fare quattro ore, come minimo, di esercizio serio per ottenere dei risultati. Io ho suonato 12 ore al giorno per diversi anni».

Quel Richard Benson quasi militaresco, severissimo, sostenitore di una dottrina ferrea e iper disciplinata, ai limiti dello straight edge, sembrava porsi al di fuori di ogni tempo. Dopo la visione dei primi 12 minuti del videocorso, una serie di domande iniziarono a prendere spazio tra i miei pensieri: chi era, davvero, quel chitarrista così magnetico e ossessionato dalla velocità d’esecuzione? Qual era stata la scintilla che lo aveva introdotto per la prima volta al mondo delle sei corde? Era nato in Italia? Il suo accento aveva un che di romanesco, ma i suoi modi di fare, il lessico eccessivo e pregno di anacoluti che impiegava e l’ideale estetico un po’ scapigliato che tentava di rincorrere avevano ben poco di nostrano; sembrava un operaio della periferia di Birmingham, non il maestro di chitarra capitolino idealtipico: forse era tracimato dalle pagine di un romanzo di Irvine Welsh.

Incuriosito da quel personaggio così singolare, decisi di indagare più a fondo: dovevo saperne di più. Fu così che, approfondendo la mia investigazione su YouTube, il perturbante cominciò a fare breccia nei miei pensieri: contro ogni aspettativa, feci rapidamente la conoscenza di un Richard Benson completamente diverso, lontano dai fasti degli anni ’90.

Il chitarrista dal fare carismatico aveva ceduto il posto a un sottoproletario panciuto e dal volto rassegnato, un po’ freak e delirante, che trasudava trasandatezza e tirava a campare con mezzi di fortuna: le atmosfere pulp alla Welsh si dissolvevano per lasciare spazio alla più classica delle epopee pasoliniane. Il decadimento che aveva connotato la fase 2 della vicenda terrena di Benson era reso ancora più evidente dalle liturgie proprie dei suoi live, che differivano profondamente dalla visione idealizzata lasciatami in eredità da quei 12 minuti di scale a massima velocità. Per chi non fosse troppo avvezzo alla materia: Benson si esibiva davanti a poche decine di persone, interessate più a lanciargli addosso uova e yogurt scaduti che alla sua musica. Incassava insulti di ogni tipo con calma olimpica e fare rassegnato, concedendo alla folla giunta sul posto per farsi beffe della sua persona qualche sporadica soddisfazione, ora cedendo alla provocazione e rispondendo per le rime, ora opponendo alle offese qualche perla di nonsense – da questo punto di vista, il celeberrimo aneddoto del pollo è forse quello più significativo.

Continuando a immergermi con fede cieca tra gli anfratti di questo Benson-verso labirintico, scoprii che nei blog di discussione circolavano diverse indiscrezioni sulla sua biografia. Ad esempio, spulciando su Wikipedia, scoprii che i suoi stessi dati anagrafici erano spesso oggetto di accesi dibattiti: a tal proposito si contrapponevano due piste, che per semplicità di analisi definiremo pista inglese e pista italiana. Secondo la prima scuola di pensiero, Benson era nato a Woking (vicino a Londra), con il nome Richard Philip Henry John Benson. Gli elementi probatori a sostegno di questa tesi erano diversi, tra cui la pubblicazione di un suo documento d’identità sul sito Richard Warriors e un articolo pubblicato sulla rivista Ciao 2001 risalente ai primi anni ’70, in cui Benson veniva definito un «giovane beat inglese».

I debunker fedeli alla pista italiana, però, propugnavano un’ipotesi radicalmente opposta: le prove su cui si basavano i fautori della teoria delle origini anglosassoni, sostenevano, erano inficiate da diverse fragilità; ad esempio, quella manica di illusi privi di metodo non teneva conto del fatto che Richard Warriors fosse uno spazio dedito alla goliardia e al cazzeggio e che, di conseguenza, quel documento avrebbe potuto tranquillamente rivelarsi un falso; quanto a Ciao 2001, beh, non era neppure necessario esprimersi: il giornalista aveva preso un abbaglio, affidandosi totalmente alla buona fede dell’intervistato. Secondo questa seconda fazione, Benson non sarebbe altro che un ragazzo di Ostia tra i tanti, Riccardo Benzoni (nome con il quale, non a caso, veniva spesso apostrofato dal pubblico durante le sue apparizioni pubbliche).

Dopo aver frantumato le mie sinapsi sondando i dettagli di entrambe le piste, riuscii a ritagliarmi il giusto tempo per provare ricostruire le tappe che hanno scandito il suo percorso artistico: dopo aver militato in vari gruppi giovanili, nel bel mezzo degli anni di piombo Benson entrò a far parte di un gruppo prog rock capitolino, i Buon Vecchio Charlie – un unico album, l’omonimo Buon Vecchio Charlie, in gran parte strumentale, venne inciso nel 1971 dall’etichetta discografica indipendente Suono.

Nel 1972 il gruppo viene dilaniato da alcune incomprensioni, dando vita a una scissione che si concretizzò nella nascita di due band rivali, i Libra e i Bauhaus.

Negli anni ’80, Benson ebbe anche una breve incursione nel giornalismo di settore: prima entrò nello staff della trasmissione radiofonica Per voi giovani ideata da Renzo Arbore e, successivamente, iniziò a occuparsi della stesura di recensioni per la rivista Ciao 2001 (la fonte più importante dei sostenitori della pista inglese, ricordiamolo) e per altre testate come Nuovo Sound. Un’altra esperienza importante nella formazione del Benson giornalista è stata quella di Ottava Nota, il programma di divulgazione musicale che il chitarrista conduceva ogni mercoledì alle 21 sull’emittente capitolina TVA40. In quella sede, Richard diede spesso sfoggio di una cultura musicale di tutto rispetto, all’insegna di esplorazioni immersive nella biografia e nel pensiero musicale di alcuni dei più quotati chitarristi degli anni Novanta, dai lavori solisti di Richie Kotzen e Steve Morse alla scoperta delle prime fatiche discografiche dei Dream Theater – l’esperienza di Ottava Nota ha consentito l’accesso a un Richard Benson sofisticato e dotato di spirito critico, ben lontano dalla macchietta che la maggior parte della platea ha avuto in mente per lunghi anni: è possibile recuperare alcune puntate su YouTube.

Al primo giro di boa del nuovo millennio, altri misteri cominciano a insinuarsi nell’epopea bensoniana: sempre riprendendo Wikipedia, accadde il 15 settembre del 2000, quando Richard fu vittima di un incidente – una caduta dal Ponte Sisto di Roma a seguito della quale si fratturò una gamba – che lo costrinse a una travagliata riabilitazione. Secondo le voci che circolarono, si trattò di una specie di bivio destinato a cambiare per sempre la quotidianità di Benson.

Le zone grigie furono amplificate da ulteriori colpi di scena: lo stesso Benson dichiarò di essere stato vittima di un tentativo omicidio da parte di ignoti, mentre altre voci – che facevano soprattutto capo ad Angelo Carpenelli, amico e sponsor del chitarrista – sostenevano l’ipotesi di un tentato suicidio, con Richard che sarebbe stato condotto al gesto estremo dopo la diagnosi di una forma di artrosi alle dita delle mani che lo avrebbe costretto a smettere di suonare per sempre.

Qualunque fosse la verità, per Benson l’approdo al XXI secolo ha segnato il punto di inizio di una débâcle in piena regola – esacerbata fino all’estremo nel 2016, quando Repubblica TV pubblicò un video nel quale Benson, insieme alla moglie Ester, chiedeva aiuto ai fan tramite donazioni. I suoi problemi di salute si erano aggravati, e la sua salute finanziaria era ormai ridotta al lumicino. 

Una volta che la mia curiosità fu finalmente saziata, provai uno strano dispiacere, più consapevole della semplicità con cui è possibile ritrovarsi a raschiare il fondo del barile: un giorno sei un chitarrista ossessionato dal metodo, quello dopo incassi polli fritti in faccia. Al netto del clamore mediatico e delle facili risate che ha saputo generare, in fin dei conti quella di Richard Benson è una storia di ascese, cadute e tentativi di risalire la china: proprio come quella di tutti noi. Nel giorno della sua dipartita, è giusto separare l’uomo dal mostro che quello stesso uomo aveva creato ad arte per sopravvivere: un saluto Richard, ci mancherai moltissimo.

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