Allora, si sa, la narrazione attorno agli artisti – in tempi di giornalismo musicale sempre più pigro – è sempre più orchestrata dalle indicazioni date nei comunicati stampa delle release. Essì. E quindi un album come Il mio lato peggiore – lo dice anche il titolo, no? – è per tutti il ritorno di Luchè a essere più esplicito, più cazzuto, più sfrontato, più malamente, evviva evviva, e la cosa è esplicitata e sottolineata talmente tanto nei comunicati e nei commenti che boh, viene quasi da pensare sia una necessità strategica, un intenzionale e strumentale riposizionamento di mercato.
Per certi versi lo è. E ad analizzare bene quello che ci dice Luchè durante una lunga, bella conversazione, emerge (anche) esattamente questo: non è casuale, c’era comunque voglia di aggiustare qualcosa nel tiro comunicativo e nella narrazione attorno all’identità del fondatore dei Co’Sang e poi, da artista solista, rapper di comprovato successo e pluriplatinato.
C’è però un problema in questa narrazione, in questo riassunto delle cose: non fa entrare il tassello più importante del quadro. Ovvero che Luchè è diventato in tutto e per tutto un rapper adulto, maturo, sofisticato – e in questa direzione vanno sempre più i suoi dischi, anche quando sembrano (e in parte sono) un ritorno al malamente. Il processo di raffinamento ed “adultizzazione” del suono iniziato col precedente Dove volano le aquile non si arresta. E non è solo quello. C’è molta più continuità fra i due lavori di quanto sembri a prima vista, di quanto venga raccontato nel comunicato stampa ufficiale e nei titoli delle prime recensioni ed interviste uscite. Ecco: questo dubbio, anzi, questa nostra personale convinzione la esponiamo a Luchè, proprio ad inizio chiacchierata. E la risposta è un fiume. Un fiume di parole molto interessante.
«Allora: prima di tutto ti ringrazio. Perché mi fa davvero molto piacere che tu noti una continuità fra i due dischi. Mi interessa molto questo punto di vista. E mi dà anche soddisfazione: perché sì, va bene sperimentare, va bene che ogni lavoro è comunque un passo diverso dal precedente e che un artista deve essere sempre in grado di dare qualcosina di nuovo o di diverso a ogni disco, ma io sono convinto che se si intraprende con convinzione una strada, una strada che ti porta ad assumere una identità ben precisa, è giusto portarla avanti. Sì, vero, in tanti hanno detto che Il mio lato peggiore è un disco completamente diverso da Dove volano le aquile. Ma in pochi hanno notato che invece c’è una grande continuità nel sound, nelle produzioni. E anche, o soprattutto, nella voglia di mettersi a nudo emotivamente».
«Poi sì, quello che ho appena fatto uscire è un disco più crudo, con parole più forti. Ho voluto aggiungere un po’ di spregiudicatezza e, guarda, anche un po’ di divertimento in più, di decisione, di cattiveria: vero. Ma quando ho fatto una scelta molto forte con Dove volano le aquile, che era un disco molto diverso da Potere, e Potere è stato il disco della mia consacrazione, ho fatto una cosa molto coraggiosa, ho voluto sottolineare che prima di tutto viene la mia libertà artistica. Avevo voglia di fare un certo tipo di evoluzione, di crescita, e l’ho fatta: anche se non era la cosa più intelligente e strategica da fare. Scelta che non rinnego. Anzi».
«Secondo me Dove volano le aquile non è stato del tutto capito. E poi, visto che non ha ottenuto i risultati incredibili di Potere, almeno non subito, si è creata questa cosa per cui è stato un mezzo passo falso, un mezzo fallimento…». Già. «Ma i fatti dicono tutt’altro. I fatti dicono che se Potere ha ottenuto tre dischi di platino, Dove volano le aquile ci sta arrivando. Questo dicono i fatti. Ci sta solo mettendo più tempo. È un diesel. Lo si sta capendo solo col tempo, quell’album. Quello che è vero è che DVLA è un lavoro che ho fatto quando stavo affrontando una fase della mia vita non facile, dal punto di vista emotivo…».
«E come poteva essere altrimenti: finalmente con Potere, dopo una lunga gavetta, perché quel disco è uscito quando avevo 36 anni, non 20, dicevo, finalmente con Potere è arrivata la consacrazione. Finalmente inizio a essere considerato uno dei nomi principali della scena, finalmente tutti mi chiamano, tutti mi vogliono. E cosa succede? Succede che arriva il Covid. Tutto si ferma. Anche il mercato. A partire ovviamente dai live. Mi sembrava di aver lottato così tanto e così a lungo per poi arrivare, all’improvviso, a rischiare di perdere tutto. Capisci quanto questa cosa possa essere destabilizzante?».
«Questo stato mentale ha influenzato tutta la lavorazione di Dove volano le aquile. Ecco perché è un disco che, contrariamente a Potere, non aveva e non cercava dei banger. Un disco che non ne aveva la stessa determinazione. Se a questo poi aggiungi che dopo la sua uscita c’è stata anche la faccenda del dissing con Salmo…».

Il 5 giugno Luchè si esibirà allo Stadio Maradona di Napoli. A luglio e agosto si esibirà nel festival estivi, con un finale il 15 settembre al Forum di Assago (MI). Foto press
Ecco. Grazie Luchè per arrivare a questa cosa da solo, senza che te la debba chiedere io. «Vabbè, entrambi abbiamo fatto scemare la cosa, no? Era diventata, credo, fastidiosa per entrambi. Perché stava rischiando di deviare troppo l’attenzione da quello che conta davvero: ovvero la musica che facciamo. Ti dirò di più, l’altro giorno sono stato ospite su un programma in Rai e mi hanno chiesto “Se dovessi scegliere tra tre persone a cui dire un segreto, e le tre persone fossero Corona, Signorini e Salmo, chi sceglieresti?”. La mia risposta è stata secca e sincera: Salmo. Mi è venuto proprio spontaneo, capisci? Chissà se un giorno il nostro rapporto si potrà ricomporre… Non lo escludo. Certo, non ci sentiamo da molto: non ci siamo più sentiti dopo quegli scambi. Ma non ce n’era bisogno. Ne hanno parlato perfino troppo gli altri, di quella cosa lì».
«Sta di fatto che quel dissing lì mi ha anche guadagnato molto hating e già avevo destabilizzato molti col mio cambio di rotta in Dove volano le aquile. Non è stato un periodo semplice. Perché poi la gente è pigra: questo cambio di rotta con DVLA era stato intenzionale, era un modo per rendere la mia musica più matura, più internazionale, ma evidentemente in troppi volevano solo continuare a sentire quello che avevo già fatto. E poi appunto è successo quello che è successo. Ma Il mio lato peggiore nasce da una situazione migliore, in cui sono molto più sicuro di me, ho riacquistato molte certezze, e per questo posso permettermi anche di tornare a divertirmi. Credo sia evidente».
Fermo lì, Luchè. Da un lato ok, è vero; ma dall’altro anche Il mio lato peggiore ha dei momenti di grande intensità emotiva, un’intensità problematica e per nulla trionfale, da vincente. A partire da una cosa come Lettera alla pistola alla mia tempia: che secondo me è una traccia del disco di cui si sta parlando ancora troppo poco, perché è davvero cruda, drammatica, e tutto questo senza nessuna spettacolarizzazione del dolore. Fa davvero male, ecco. A questa osservazione, seguono un paio di secondi in silenzio. E poi Luchè inizia a raccontare.
«Io quella traccia lì l’ho incisa solo ed unicamente nel momento in cui sapevo di essere da solo in studio: non avrei mai potuto inciderla avendo davanti qualcuno. Me lo ricordo benissimo, quel momento. Ero appunto da solo. Ero nel panico. Sentivo davvero solo disperazione. Ero in una fase della mia vita in cui avevo veramente tanta paura, e a farmi paura era il futuro. Ero in una fase di autolesionismo, ma autolesionismo vero. Mi odiavo. Avevo toccato il fondo. E proprio quando ho toccato il fondo, mi è venuto di getto di scrivere quella cosa lì, che non so cos’è, non è un rap, non so cosa sia, ma è lì. È stato il mio modo per non sprofondare definitivamente nel buco nero in cui mi stavo trovando: invece di abbandonami ad esso, ho iniziato a scrivere questa cosa in cui spiegavo a me stesso che la pistola alla tempia era una rassicurazione, perché stava a dire che anche nel momento peggiore della mia vita io ho la possibilità di scegliere».
Un’altra pausa, e poi Luchè continua: «Pensa quanto stavo male in quel momento per pensare una cosa del genere. Ma proprio lì ho iniziato a risorgere. A tornare ad agire. A smettere di abbandonarmi all’autocommiserazione, alla disperazione. Non è facile farlo, non ci metti un attimo, perché sai, a parole reagire è semplice, farlo nei fatti richiede invece molto più tempo, è un percorso molto più lungo e complesso. Ma ce l’ho fatta. Oggi sento sinceramente di essere una persona molto diversa. E credo anche che non mi capiterà mai più di vivere un momento così buio come quello».
«Però ci tenevo molto a condividere tutto questo, a far capire come ero messo, come mi sentivo. Ma non per mettere me stesso in primo piano. No. Ma perché certi momenti possono capitare a tutti, e se quando ti capitano senti qualcuno che ti fa capire che bene o male sta vivendo o ha vissuto la stessa cosa è importante, ti può dare il giusto coraggio e la giusta spinta per provare a risalire. O ti può anche dare semplicemente un po’ di conforto, solo quello: anche questo conta, anche questo è importante. Perché viviamo in una società dove le persone si chiudono, e chiudendosi si rifiutano pure di scavare davvero dentro se stesse, alla ricerca della soluzione dei propri problemi, abbandonandosi invece solo alla sofferenza».
Dicevi, Luchè: paura del futuro, in quel momento. Cos’è che ti faceva più paura? Perdere il successo? «No, non è il successo. Il successo è solo una conseguenza. Io avevo paura di non essere più in grado di fare le cose, di questo avevo paura. Di non essere più grado di sorprendermi, di emozionarmi. Stava tutto dentro di me. Oggi ci rido sopra: te l’ho detto, sono cambiato, il mio cambiamento è stato radicale, ho proprio riprogrammato il mio cervello. Ho imparato, e prima non lo sapevo fare, a mettere le cose in prospettiva. Questa è stata la chiave».
«Prima bastava poco per destabilizzarmi. Oggi no. Oggi non ho più sfiducia verso di me: so che qualsiasi cosa succeda alla fine riuscirò comunque a trovare un modo per fare le cose sufficientemente bene. Anche per questo Il mio lato peggiore è un disco più energico, più cazzuto, dove non mi tiro indietro, dove sono anche sfrontato: sono tornato ad essere sicuro di me. Probabilmente anche per questo pare stia piacendo tanto a tanti, a vedere le prime reazioni in giro. Ma nell’essere tornato più sicuro di me, al tempo stesso ho accumulato molta più consapevolezza, molta più capacità di introspezione di quanta potessi averne prima, grazie al periodo di crisi che ho passato. Ed è per questo che in realtà è un lavoro che, come ci dicevamo all’inizio, è molto più legato al disco precedente di quanto sembri a prima vista».
A un certo punto nell’album nuovo dice “Io voglio morire assieme agli ultimi ideali / Voglio essere un ribelle”. Come diavolo si fa ad essere ribelli stando sul trono di un genere ormai diventato molto mainstream e molto attaccato ai beni materiali ed all’ostentazione come il rap di questi ultimi due decenni? La risposta è molto intelligente, e articolata. «Ci sono tanti modi di fare i ribelli. C’è la ribellione adolescenziale, in cui vuoi fare terra bruciata di tutto, a partire di tutto quello che fa parte del mondo degli adulti, della vita reale. E poi ci sono ribellioni più mature, più riflessive. Sai perché spesso oggi noi ci sentiamo soli? Perché siamo circondati da persone che non creano, non rischiano, pensano solo a imporre anche a te la loro negatività. E ci riescono. È contro questo che voglio ribellarmi. Ribellarsi è tirare fuori gli artigli. Ribellarsi è far vedere che si ha ancora voglia di vita, voglia di vivere. Ribellarsi è far capire che non si accetta il piattume, la rassegnazione. Tu dici che sono un artista affermato? Beh, non credere che anche se sei un artista affermato la vita sia facile. Sono tante le porte chiuse, tante le incomprensioni che ti circondano, e anche solo il fatto che oggi i ragazzi siano molto meno attenti di prima nell’ascoltare la musica, vogliano solo il ritornello e mezza strofa e poi stop, beh, è una cosa che fa male, che ti fa iniziare a chiedere che senso ha fare quello che fai tu. Non è questione di lusso, di ostentazione, non è quello il punto…».
Anche perché ad un certo punto Luchè se ne viene fuori con un’osservazione folgorante, e verissima, in Buona fortuna: “Chi viene dal degrado / Si fida solo del lusso”. Dovrebbero rifletterci in molti. «Già. Capisci l’importanza del saper mettere in prospettiva le cose? Quando parliamo di marchi, di status symbol, apparentemente sembra una cosa superficiale, vero, ma dietro c’è dell’altro. C’è il fatto che il rap, e spesso lo si dimentica, nasce prima di tutto come rivalsa sociale».
«Ma ti dirò, in realtà va bene che spesso non si sia compresi: perché si è incompresi solo quando si dice qualcosa di forte, qualcosa che tocca le persone, altrimenti si è semplicemente ignorati. E per elevarci dal piattume che ci circonda abbiamo comunque bisogno di cose forti. Poi, in un percorso ideale, dopo l’incomprensione dovrebbe arrivare il confronto reciproco, il tentare di capirsi, di spiegarsi, ovvio; e magari parlandosi, si capisce che questi rimandi al lusso sono in realtà anche amari, sono delle metafore che servono a far trasparire insoddisfazione, disagio, ansia. Ma questo arrivi a capirlo solo se hai la pazienza di ascoltare, di accettare un confronto».
Chissà se ci arriveremo. Ma intanto, speriamo lo abbiate capito, speriamo che questa intervista sia riuscita a trasmetterlo, non è per nulla male, questo Lato peggiore di Luchè. No. Non è per nulla male. E no, non è solo questione di essere tornato a fare il guappo, l’MC sfrontato e strafottente. C’è dell’altro. C’è molto altro.