La notte in cui Jim Morrison si è presentato ubriaco fradicio a casa mia | Rolling Stone Italia
Wine a Go Go

La notte in cui Jim Morrison si è presentato ubriaco fradicio a casa mia

Il cantante dei Doors visto da chi lo ha frequentato negli ultimi mesi di vita in Francia. È un estratto dal libro ‘Jim Morrison - Ultimi giorni a Parigi’

La notte in cui Jim Morrison si è presentato ubriaco fradicio a casa mia

Jim Morrison a un tavolo dell’Alexandre, Parigi, 1971

Foto: Hervé Muller/Il Castello/Chinaski Edizioni

7 maggio 1971, Parigi. “JI-IM-M-M-MOR-RI-SON”. Dal profondo del mio sonno, sento una voce eterea… Dei colpi sordi… Apro un occhio brontolando. Non c’è dubbio, stanno bussando alla porta. E con insistenza… È una voce ovattata, a quanto sembra provata dai cinque piani senza ascensore, e si sforza di sussurrare il più forte possibile: “Sono io, Gilles… sono-ah-con-aah-Ji-im-ah-Mo-orrrison… [sospiro] A-ah-pri…”.

Controvoglia e non molto sveglia, ma più coraggiosa di me, la mia compagna Yvonne finisce per alzarsi e, sospirando, va ad aprire. Con la porta appena aperta, il battente ruota come se stesse per crollare sotto il peso combinato del nostro amico Gilles Yéprémian e della figura barcollante che lo accompagna.

In quel periodo, Yvonne ed io abitiamo in un grande studio, sotto i tetti di un vecchio edificio, Place Tristan Bernard, in Avenue des Ternes. Due amici di passaggio a Parigi, una belga e un americano, stanno trascorrendo la notte da noi… All’improvviso, svegliata da questo baccano, la tizia belga, pensando al pezzo di hashish che ha nascosto nella borsa, si nasconde nell’altra stanza e reagisce in un modo che esemplifica perfettamente il clima parigino di quegli anni: “È la polizia!?”.

No, non è la polizia. Ma comincio a trovare la battuta di dubbio gusto. Lo straniero varca la soglia con passo incerto e alza il volto verso di noi. Indossa una giacca militare slavata e un paio di jeans che devono tenersi in piedi da soli. Ciocche arruffate di capelli nascondono, in parte, i tratti del viso gonfi, da cui si distinguono le tracce dei lineamenti angelici di un tempo.

Quel grasso barbone ubriaco sarebbe Jim Morrison? IMPOSSIBILE! Cosa resta del Re Lucertola in questa caricatura grottesca, patetica? Tutto ciò che so dei Doors scorre nella mia mente, e niente evoca il personaggio che mi trovo davanti. Poi lui sorride, e allora non c’è più alcun dubbio. Per un breve istante il torpore da alcol in cui è immerso il suo sguardo svanisce, e i suoi occhi accompagnano il fascino disarmante di quel sorriso dallo splendore insieme intenso e beffardo. È come se stesse osservando, dall’esterno, la sua condizione in quel preciso istante, e la ridicola assurdità di quel flash lo intrattenesse molto.

In seguito, ho imparato a conoscere meglio Jim, ma è stato solo anni dopo che il ricordo di quello sguardo mi è tornato alla mente e che il suo significato mi si è palesato. Una parte di sé si osservava continuamente, come se fosse l’oggetto del suo esperimento, rimanendo al suo posto anche quando era in uno stato di ebbrezza vicino al coma etilico, come nella notte del nostro incontro. Dondolando in maniera preoccupante, fa un leggero cenno con la mano, poi abbraccia me e Yvonne ed esordisce con: “Hi, you g-guys! How’y’doin’, uh?”.

Se la formula di saluto è appena comprensibile, con le sillabe che riescono a varcare la soglia delle sue labbra che si scontrano, la sua voce invece sorprende, soprattutto per la chiarezza di quel timbro, immediatamente riconoscibile dal tono così denso e contrastante, addirittura affascinante. Nonostante il contesto, ascoltarlo mi fa immediatamente venire in mente When The Music’s Over e il suo apice leggendario: We want the world… And we want it… Now!

Ora? Stanotte il mondo può dormire sereno, Jim Morrison si è persino dimenticato della sua stessa esistenza: è appena caduto, come un albero abbattuto, e giace ubriaco fradicio sul nostro letto. È pesante, il disgraziato. Yvonne ed io riusciremo a spostarlo abbastanza da recuperare un angolino in cui passare rannicchiati il resto della notte, mentre Jim russa ai nostri piedi!

Jim Morrison da Hervé Muller. Foto: Il Castello/Chinaski Edizioni

All’inizio di maggio del 1971 ancora in pochi sanno che si trova a Parigi, e poiché la ciccia e l’età hanno cambiato la sua fisionomia, non gli capita troppo spesso di essere riconosciuto. Questo anonimato è probabilmente un’altra fonte di soddisfazione per lui.

Allo stesso tempo, però, non fa assolutamente nulla per nascondere la notizia. Una sera, nel Quartiere Latino, aveva incontrato i membri di una band americana trasferitasi a Parigi, i Clinic, trascorrendo l’intera notte in un caffè con loro, bevendo e cantando. Il loro cantante, Phil Trainer, che aveva già vagamente conosciuto Jim alla UCLA, avrebbe in seguito menzionato il personaggio in una canzone, Beautiful Jim. 
Era stato proprio tramite un amico dei membri dei Clinic che avevo appreso che Morrison era, o era stato, in città. Ma da lì a trovarmelo davanti…

Gilles comincia a spiegare il perché e il percome di questa bizzarra visita notturna. Era nel corridoio che fungeva da ingresso al Rock’n’Roll Circus quando lo aveva trovato accasciato, completamente sbronzo, a insultare i passanti. Successivamente Jim ci avrebbe raccontato di essersi recato al Circus per bere qualcosa, e che drink dopo drink il suo comportamento era cambiato fino a che il buttafuori in servizio non era entrato in azione. Nessuno aveva riconosciuto Morrison, il che è abbastanza divertente se si pensa che all’epoca il Rock’n’Roll Circus voleva, come indica il nome, essere il tempio parigino dello show business, l’equivalente di Speakeasy a Londra o di Max’s Kansas City a New York. Oggi non esiste più, ma nella stessa sede ha aperto, ironia della sorte, il Whisky-a-Go-Go…

L’amico Gilles, quindi, si era adoperato per aiutare il cantante in difficoltà. Il problema era che, dopo averlo recuperato, non sapeva realmente cosa farne. Così lo aveva messo in un taxi e lo aveva portato a casa mia. “Ecco… Okay, bene, devo andare… Ciao ragazzi”. Scappato Gilles, Yvonne ed io ci guardiamo, poi diamo un’occhiata alla massa informe sdraiata sul letto.

Il mattino seguente, quando finalmente emerge dal sonno, Jim si guarda intorno. “Chi siete? Dove sono?” chiede (in inglese), con un’aria un po’ sorpresa. Glielo spieghiamo. Lui ride e afferma di non ricordare nulla. Ciò che più sorprende è che abbia un aspetto fresco come una rosa. Dato che quello che abbiamo da offrirgli per colazione non è di suo gradimento, invita tutti e quattro a pranzare fuori. L’Alexandre, su Avenue George V, non è esattamente quello che definirei un piccolo ristorante carino e poco caro, ma Jim sembra adorarlo. Poiché non è ancora mezzogiorno, dobbiamo aspettare un po’ per poter essere serviti. All’inizio il pranzo si svolge sotto i migliori auspici. Jim pare davvero rilassato, scherza e discute appassionatamente di letteratura e cinema. Con l’aiuto di un Bloody Mary e di diversi Chivas, la conversazione si anima.

Non si parla di musica, ma di cinema, di Godard, di Los Angeles, di Rimbaud, di Blake, fra gli altri. E siccome stiamo parlando di poesia, mi dà una copia di An American Prayer e mi chiede se pensi sia possibile tradurlo in francese. Sembra avere a cuore l’idea…

Insieme al pasto ordiniamo un Borgogna, ma Jim non lo tocca. Continua a bere un whisky dopo l’altro, e comincia seriamente a ubriacarsi. Del resto anche noi. A un tavolo vicino due rispettabili uomini d’affari lanciano delle occhiate divertite e altezzose al nostro gruppo trasandato e chiassoso. Jim li nota e li prende da parte. Ma dato che questi non capiscono l’inglese, il dialogo è abbastanza breve. “You’re full of shit”, dice loro alla fine. “Metà, metà”, risponde uno dei due con un grande sorriso.

Quando arriviamo alla fine del pasto, Jim sta quasi per crollare sotto il tavolo… Un cameriere estremamente elegante ci mostra, con gesti rispettosi, un’enorme bottiglia di cognac secolare. Jim gliela toglie dalle mani e inizia a bere dal collo. Il cameriere mantiene il suo sorriso imperturbabile.

D’un tratto, per me tutto diventa troppo. Jim ha fatto qualunque cosa e il personale del ristorante ha mantenuto la sua ossequiosa cortesia, semplicemente perché ricorda che questo ubriacone americano dai capelli lunghi paga con carta di credito e non ha problemi di soldi. La situazione ha un qualcosa di talmente falso che, dal disgusto, ho completamente smaltito la sbornia.

Al momento di andar via, Jim è nelle stesse condizioni della sera precedente. Si mostra aggressivo, poi completamente paranoico.
 Riportarlo da me non è un’impresa facile. Lui non è affatto collaborativo e finisce per collassare su una panchina di Avenue George V. Si siede, rifiutandosi di salire in macchina, urlando di non avvicinarci a lui, di non toccarlo. Diventa quasi violento. “Dove mi portate? Non voglio andarmene!” grida. L’istante successivo scoppia in lacrime sulla spalla di Yvonne: “Fammi uscire di qui… Proteggimi…” È un momento orribile, ci sentiamo come delle comparse in un mondo di paranoia a cui siamo in realtà totalmente estranei. Lui è disperatamente solo, improvvisamente penso di capire di cosa sono morti Brian Jones, Janis Joplin e Jimi Hendrix. Il rock e il suo culto uccidono, ma allora non sapevo ancora che lui sarebbe stata la prossima vittima.

Alla fine, scoppia di nuovo a piangere sulla spalla di Yvonne. Senza più alcun meccanismo di difesa, fragile e disperato, impaurito e confuso. Jim Morrison, l’idolo di milioni di giovani in tutto il mondo, è solo, tradito dall’immagine che ha contribuito a creare e di cui ormai ha perso il controllo.

Di ritorno a Place Tristan-Bernard si calma, solo per ricominciare subito sulle scale che portano al nostro studio. Ora rimane la parte più difficile: salire al quinto piano, senza ascensore. Fino al terzo l’impresa si rivela faticosa poiché non si regge molto bene sulle gambe, ma si svolge senza troppi intoppi. Non ha quasi mai smesso di parlare, ma diavolo se mi ricordo cosa ha raccontato! E poi, all’improvviso, ci spinge brutalmente, si siede sugli scalini, e comincia a gridare con tutta la potenza della sua voce, a un interlocutore immaginario, una marea di insulti tra i quali torna con insistenza: “You motherfucking niggers!”. Quando, nuovamente sobrio, glielo racconteremo, rettificherà a lungo che in questo caso nigger non aveva alcuna accezione razzista.

Noi cerchiamo di calmarlo, ma lui non ne vuole sapere e continua a gridare. La rispettabile calma che regna in un condominio borghese di sabato pomeriggio va a farsi benedire. Il portiere, a cui già non piacevamo granché (“ma pensa, non sono nemmeno sposati”), fa irruzione nella tromba delle scale come una furia irsuta. Fortunatamente Jim si è di nuovo calmato, e borbotta di amarci tutti, mentre lo aiutiamo a proseguire la salita verso il benefico rifugio rappresentato dal nostro appartamento. Lì collassa sul letto, esattamente come la sera precedente.

Poi cerco di calmare il portiere, ma è già troppo tardi. Metà dell’edificio è nel cortile e il mio proprietario arriverà da un momento all’altro. Qualcuno ha anche chiamato la polizia, a quanto sembra. In ogni caso, il mio tentativo di riconciliazione degenera in una lite con un vicino e un’ora dopo il proprietario, dopo essere venuto a dare un’occhiata al nostro covo degenerato, ci comunica di liberare l’appartamento il prima possibile.

Nel frattempo, Jim sta ancora dormendo. Si sveglia solo a tarda sera, apparentemente in gran forma, e manifesta il desiderio di rincasare il prima possibile dato che, dice, Pam deve aver iniziato a preoccuparsi.

Tratto da Jim Morrison – Ultimi giorni a Parigi di Hervé Muller (Il Castello/Chinaski Edizioni)

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