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La musica classica non è cosa da hipster



Giovani, alla moda e col pianoforte in bella vista. Citano Vivaldi, ma non sanno di che parlano: i fenomeni della neoclassica sono solo un’illusione



La musica classica non è cosa da hipster

Max Richter

Foto Press

Dell’accademico non hanno nulla. Capelli spesso in creativo disordine, barba incolta da hipsterismo dominante, look casual quando non direttamente tendente al punk o al rock, aria docile e approccio informale, per nulla ingessato. Tendenzialmente attraenti, sembrano dei ragazzi, eppure hanno quasi sempre superato i trenta o i quaranta. Incidono per etichette come la storica Deutsche Grammophon, la Mute o la Sony Classical e vengono considerati dei fenomeni con le loro composizioni, classiche ed eleganti. Vendono migliaia di copie e hanno milioni di visualizzazioni sul Tubo. Li puoi ritrovare ai festival di musica indipendente ma anche in venue di prestigio, come il Teatro dal Verme, il Blue Note o alla Sidney Opera House.

Sto parlando di Olafur Arnalds, Max Richter, Joep Beving, David Garrett. Solo alcuni dei nomi di spicco della scena neo-classica. Detta anche, in ossimoro, modern-classical o, per chi vede la gente Joy Division, post-classica. Anche se i rimandi alla classica sono pochi, poco spontanei e da leggere tra le righe di pentagrammi infognati in tutt’altro. Tanto da fare sorgere il sospetto che non si tratti tanto di un ammodernamento di uno stile desueto ma di un’astuta strategia di marketing. Nella quale, dieci anni fa, il critico de l’Unità Roberto Brunelli vedeva già rivelato il curioso sintomo che si potrebbe definire “dei morti nel deserto”. Se la scena musicale è stagnante e orgogliosa della propria mediocritas, basta che appaia un tantino di qualcosa per trovare schiere di apostoli adoranti. Lui parlava del fenomeno Allevi e del suo spropositato successo ma il discorso non cambia poi di molto.

Uno spartito di Johann Sebastian Bach sulla foto promozionale, un violinista apolide in giacca napoleonica, un briciolo di musica colta sorvolata dallo spettro tetro di Stephen Schlaks e il pubblico esce di senno, la stampa plaude, i sociologi passano all’azione, gli intellettuali si dibattono: basta così un evanescente miraggio a darci senso di sazietà. In altre parole, è il vuoto che si nutre di se stesso. Così, che si tratti perlopiù di ambient o di new age dozzinale che nulla hanno a che fare con i lavori, per fare due esempi classici, di Brian Eno o di Ryūichi Sakamoto; che si tratti di avanguardia edulcorata, che tende a “modificare” lo strumento senza mai stravolgere l’effetto melodico e arraffa-masse come invece amano fare Ross Bolleter o Diamanda Galas; che si tratti di riletture inutili e sovreccitate da un virtuosismo quasi pornografico che fanno rimpiangere le improvvisazioni di Uri Caine su Mozart e di quel genio di Lubomyr Melnyk su Chopin; sembra non interessare a nessuno: se tutti i canali dell’occidente trasmettono a più non posso il messaggio che siamo al cospetto di una nuova ondata di “musica classica”, continuiamo ad abboccare. E non solo per la scelta di un’ immagine/immaginario convenzionale fatto di pianoforti a coda e spalle ricurve sui leggii stracolmi di note.

A dire il vero, forse e più per l’esatto contrario, fatto di jeans skinny e Vans, che oltre a darci l’idea di una normalità priva di spocchia e attenta al look, volendo essere un po’ maliziosi, strizza l’occhio agli alternativi di mezzo mondo che su come fare per risultare tali non ci dormono la notte e, volendo esserlo di più, alle donzelle di mezzo mondo attratte più dall’estetica dei nomi chiamati in causa che dal loro, presunto o reale, talento.

Insomma, se il violinista libanese Ara Malikian e il pianista francese Thomas Encho non sono geniali come Uto Ughi o Philip Glass, non faranno fatica a trovare chi li consoli. Non è tutto. Furbi, quasi tutti gli esponenti continuano il gioco nelle dichiarazioni. «È più pop che classica» dice Peter Bence, «Stiamo costruendo il ponte che trasferisca alla classica moderna il pubblico mainstream», gli fa eco Joep Beving, «È classica o rock? La musica è una sola», straparla David Garrett, «Anche Sting ed Elvis Costello hanno inciso con la Deutsche Grammophon» la butta in caciara, coperto dai suoi occhiali a specchio, Nemanja Radulovic.

Ma per rimettere in ordine le cose bisogna affidarsi a uno dei padri nobili del genere, un ironico newyorkese oramai ottantaduenne che risponde al nome di Steve Reich, papà del minimalismo che si affretta ad addrizzare il tiro ogni qual volta venga definito “genio” o “il più grande compositore vivente” («Figuriamoci, ne ho fatta di musica brutta», dice). Lui risponderà che “neo-classica” è un termine inventato dai giornalisti, come un tempo inventarono il “minimalismo”, ossia un genere inesistente che ha fatto proseliti, ma che ha generato mostri. E che “sperimentale” è una parola che va presa sempre con le pinze, se non si riferisce a uno come John Cage. Fatto sta che un tempo i personaggi nei quali si riconoscevano gli estimatori di musica classica, o anche soltanto colta, facevano scattare un processo di identificazione con un linguaggio istintivo e cifrato: tutto da decodificare.

Emblematica, in tal senso, Marilyn Crispell amata e affettuosamente definita dai suoi fan “la più classica delle jazziste” per il suo a contributo pianistico alle composizioni di numerosi compositori contemporanei in una chiave che non nasconde il suo amore incondizionato per il jazz e Keith Jarrett, che a sua volta era influenzato dalle improvvisazioni di Bach e George Russsell. E che dire di Kevin Drumm? Risentita oggi, la musica di Guillan-Barre, contenuta nel monumentale doppio Imperial Distortion (Hospital Production/2008), non è la versione minimale di quella mareggiata soffice (che qualcuno chiama ambient) che tanto piace a Max Richter?

E gli altri cosa fanno? Di solito ci rifilano dischi slabbrati, kitsch, lunghi, troppo lunghi, confusi, a tratti troppo pretenziosi, suonati in modo eccellente ma privi del colpo fatale, del brano che ti ferisce l’anima. Li trovi tra i “classici”, è vero, però di classici non ne trovi nemmeno uno. Citano Le Quattro Stagioni di Vivaldi come un teenager si riempie la bocca di Nevermind, ma entrambi difficilmente sanno di che parlano. Vendono pure valanghe di dischi, è vero anche questo, ma le canzoni sono scontate e finte. Create ad hoc da volpi, né moderne né revisioniste, che non fanno nulla di speciale, né carne né pesce, né pop né classica, ma vengono trattate come se fossero Stockhausen. Ma se la vacuità è un peccato, molti di loro finiranno certo all’Inferno. Ma non le loro canzoni, che resteranno nell’aria di questi anni di poca sostanza e di molta apparenza. Persino nella musica classica.

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