La mia vita a Pitchfork, un sito da 9,2 in un mondo digitale da 3,7 | Rolling Stone Italia
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La mia vita a Pitchfork, un sito da 9,2 in un mondo digitale da 3,7

La redazione di P4K è stata in parte liquidata e in parte inglobata da GQ. Un giornalista appena licenziato dalla testata racconta cos’ha significato per lui e per il mondo della critica musicale americana

La mia vita a Pitchfork, un sito da 9,2 in un mondo digitale da 3,7

Foto: Christopher Dilts/Sipa USA/AP

Mercoledì 17 gennaio Condé Nast ha annunciato il licenziamento di una parte dei giornalisti di Pitchfork, col resto della redazione destinata a essere fusa a quella del maschile GQ. «Il team di Pitchfork sarà portato all’interno di GQ», ha scritto in una nota ai dipendenti Anna Wintour, Chief Content Officer dell’azienda che pubblica anche New Yorker, Vogue e Vanity Fair. Dopo 28 anni e innumerevoli recensioni di album – valutati con precisione finto-scientifica su una scala che va da 0,0 a 10,0 – il sito diventato maggiorenne con Internet ha subito la sua prima grande battuta d’arresto. Non è morto (anche se il futuro sotto GQ è incerto), ma a giudicare dai social media è come se lo fosse.

L’annuncio mi riguarda visto che sono una delle dozzine di persone licenziate assieme alla direttrice Puja Patel e all’executive editor Amy Phillips, che per oltre 18 anni ha guidato la sezione delle news di Pitchfork e non solo. In un panorama musicale e mediatico in cui i licenziamenti di massa sono la normalità – si pensi ai tagli drastici negli ultimi mesi a Bandcamp, Tidal e Spotify – l’epurazione in casa Pitchfork non è una sorpresa. Il mio ruolo di redattore senior, che spaziava dalle recensioni al giornalismo d’inchiesta, ma soprattutto agli incarichi a lungo termine che gli altri redattori non avevano il tempo di svolgere, era troppo bello per durare. Jill Mapes, una delle brillanti redattrici che sono state licenziate, ha detto che fare il suo lavoro era come «stare su una ruota panoramica all’ora di chiusura, aspettando che qualcuno ti tiri giù». Vale anche per me. Come ha fatto notare in un comunicato il sindacato di Pitchfork, Roger Lynch, amministratore delegato di Condé Nast, ha annunciato a novembre l’intenzione di tagliare il 5% circa della forza lavoro, ma prima di Natale i rappresentanti dell’azienda avevano detto in sede di contrattazione sindacale che a Pitchfork non ci sarebbero stati licenziamenti. Ops.

Fondato a metà anni ’90 dall’allora adolescente Ryan Schreiber nel seminterrato della casa dei genitori a Minneapolis, Pitchfork ha guadagnato una certa notorietà grazie alla copertura della scena indie, con recensioni in grado di far emergere o al contrario distruggere le band, recensioni scritte con uno stile sopra le righe che distingueva la testata – nel bene e nel male, e col senno di poi spesso nel male – da riviste cartacee affermate come Rolling Stone. Il sito prendeva nome dal tatuaggio di Tony Montana in Scarface. Nel 1999 Schreiber l’ha portato a Chicago. È diventata una pubblicazione relativamente professionale nel 2004, con l’arrivo di Chris Kaskie (The Onion) alla gestione delle operazioni commerciali e di Scott Plagenhoef in redazione (ora è responsabile globale della redazione di Apple Music)

Da allora, non è mai mancato qualcuno che dicesse che il vecchio Pitchfork era meglio del nuovo, eppure la traiettoria ascendente del sito sembrava inarrestabile. La cessione nel 2015 a Condé Nast ha dato la possibilità di usufruire delle risorse di un gigante dei media e Pitchfork, che anni prima si era trasferito nella sua diciamo così casa spirituale di Brooklyn, è finito al World Trade Center 1. Nel 2018 è arrivata Puja Patel, caso raro di donna di colore a capo di uno dei bastioni del giornalismo musicale dominato da uomini bianchi. Il mondo di Pitchfork si è espanso, così come i generi coperti e gli scoop fino all’anno scorso, quando il sito ha ricevuto la sua prima nomination ai National Magazine Awards. E adesso è stato ridimensionato.

Chi lo sa, forse oggi Pitchfork è importante perché la sua storia è parallela a quella di Internet, col suo passaggio da sito nerd amatoriale ad adulto e inclusivo, fino ad arrivare alla Babele dell’intelligenza artificiale. Ma è importante anche perché la musica è importante, perché scrivere di musica è importante, perché chiedere conto del loro operato ai potenti di ogni settore è importante.

So che può sembrare stupido, se non patetico, ma non esagero nel dire che Pitchfork ha fatto parte della mia vita adulta come nessun altra cosa oltre a mia moglie e ai miei due figli. Ho iniziato a leggerlo nei primi anni 2000 quand’ero studente di giornalismo alla Northwestern, che stava a poco distanza dalla vecchia sede del sito a Chicago, anche se all’epoca non lo sapevo. Una recensione dei Dismemberment Plan m’ha fatto intristire per la cancellazione di un loro concerto al campus causa pioggia, un articolo sui 50 peggiori assoli di chitarra mi ha fatto venire il dubbio che persino i Pink Floyd potevano fare schifo, le stroncature dei Jimmy Eat World hanno messo in discussione il piacere che provavo nel vederli dal vivo in un locale minuscolo e memorizzare ogni passaggio dei loro CD quand’ero adolescente in Arizona.

E quindi ogni mattina mi mettevo lì a spulciare Pitchfork. Il carattere di quelle prime recensioni mi ricordava le stroncature di Lester Bangs e l’idea che scrivere di musica potesse essere una forma d’arte di per sé. Immaginavo con una certa ingenuità che per autori e fondatori di Pitchfork come Brent DiCrescenzo, re della recensione concettuale, quello fosse un lavoro a tempo pieno.

All’inizio del 2004, Pitchfork ha pubblicato un annuncio per potenziali autori. Avevo scritto di musica a livello locale, a Chicago, e quindi mi candidai. Per un bel po’ non ebbi notizie. Avevo finito gli studi da un anno, il mio incarico di redattore a fianco di altri nerd musicali presso AOL CityGuide stava arrivando a scadenza e la mia futura moglie era entrata nel programma Teach for America, così lasciammo Chicago in direzione New York. Ho anche fatto domanda, comprensibilmente senza successo, alla rivista musicale Blender, ormai defunta. Nell’agosto 2004, lo stesso mese in cui ho accettato un lavoro giornalistico che aveva a che fare, tra le altre cose, con i fondi comuni di investimento, ho ricevuto un’e-mail da Ryan Schreiber. L’aveva spedita a un indirizzo di posta elettronica che avevo smesso di controllare frequentemente. Oggetto: “Buone notizie!”. Mi avevano preso. Ok, c’era una fregatura che, con il senno di poi, avrebbe dovuto far suonare un campanello d’allarme: dovevo inviare due recensioni a settimana, di solito di non più di 600 parole, a meno che non si trattasse delle recensioni cosiddette “featured” che potevano arrivare a 900. La paga sarebbe stata di 10 dollari a recensione, ma solo dopo i primi sei mesi d’attività. Ma ero dentro ed ero entusiasta d’esserlo. Scriveva Schreiber: «Ci piace il senso dell’umorismo e suppongo che sia qualcosa in cui vai forte» (io ci ho provato).

Quel che è successo dopo è pazzesco, almeno per me. Mi sentivo come il critico del romanzo di Wilfrid Sheed Jamison: al servizio della verità e del tempo prezioso dei lettori. Altri licenziati con me questa settimana descrivono il mio stile come simpatico, ma per un certo periodo sono stato il recensore statisticamente più cattivo di tutti. Ho stroncato un album deludente dei Jimmy Eat World, Futures, anche se ero l’unico fan della band tra i recensori, e ho cercato di aderire alla visione editoriale del sito, un mix di empatia e indipendenza. Di giorno scrivevo di fondi di investimento, in metropolitana ascoltavo musica con l’iPod e poi ne scrivevo eccitato dalla caffeina per tutto il mercoledì sera e la domenica pomeriggio. Una volta ho conosciuto un tizio di una società di fondi di investimento che era parente del celebre critico di Rolling Stone Anthony DeCurtis. Leggevo tutta la critica musicale che mi capitava sotto mano, immaginavo d’essere un vero scrittore newyorkese che si sarebbe fatto strada e che un giorno sarebbe stato uno di loro.

A un certo punto, i miei sogni hanno cominciato a realizzarsi. Nel 2005 David Carr, il defunto critico del New York Times, citò una mia recensione in un pezzo su Pitchfork titolato “Garage Rock Meets Garage Critics”. All’HiFi Bar sulla Avenue A, ho parlato a lungo con il futuro giornalista del Times Dave Itzkoff per un pezzo di Wired intitolato “The Pitchfork Effect” (non sono stato citato, ma va bene lo stesso). Arrivò anche l’inevitabile contraccolpo: in risposta a una recensione crudele, una band di Austin chiamata Sound Team fece un video intelligente che mi raffigurava mentre li gettavo da una scogliera. Lasciai l’azienda in cui lavoravo, accettai un lavoro a BusinessWeek prima che fosse acquisita da Bloomberg, per poi tonare al vecchio lavoro part-time e dedicarmi più seriamente alla scrittura. «Tutti abbiamo avuto dei sogni, un tempo», mi avvertiva il mio benintenzionato redattore di riferimento a BusinessWeek. Mi sono sposato. Sotto la guida di Mark Richardson, sono diventato l’autore principale del blog Forkcast di Pitchfork, da tempo chiuso e irrintracciabile se non su Archive.org. Ho iniziato a scrivere per riviste cartacee come Spin e a lavorare con grandi redattori come Charles Aaron e Caryn Ganz.

Quando un personaggio della serie Veronica Mars ha parlato di uno stage a Pitchfork, i redattori hanno scherzosamente formato col suo nome una delle mie recensioni. Quando nel luglio 2008 sono andato a un festival in Danimarca dove ho visto i Radiohead e Jay-Z, ho pensato che sarebbero state così tutte le estati della mia vita. Stare a New York era però costoso, io facevo il giornalista e la mia ragazza l’insegnante, lavoravamo troppo per poter approfittare del numero incredibile di concerti in città. L’Iowa era da poco diventato uno dei primi Stati a legalizzare i matrimoni gay e la vittoria di Barack Obama nei caucus democratici del 2008 aveva contribuito a spingerlo alla Casa Bianca. Pensammo che aveva senso cogliere questi segnali positivi e trasferirci nella città natale di mia moglie, Des Moines. Almeno saremmo stati vicini ai suoi, cosa utile se avessimo avuto dei figli. E guarda caso c’era un locale alla fine dell’isolato dove potevano andare a piedi e vedere artisti famosi (almeno per me) come Jonathan Richman.

Intanto Pitchfork si muoveva nella direzione opposta, trasferendosi a Brooklyn nel 2011 ed espandendosi oltre le sue origini indie spesso bianche e maschili. Ho continuato a scrivere per loro, ma anche per NPR e Billboard; ho lavorato al fianco di Puja Patel e dell’autore di lunga data Jayson Greene in un’impresa di breve durata chiamata Wondering Sound. Quando Condé Nast ha acquisito Pitchfork finalmente c’era budget sufficiente affinché Mark Richardson mi offrisse il posto a tempo pieno che avevo immaginato fin da quando ero un semplice lettore. E potevo farlo da Des Moines, in un periodo in cui il lavoro a distanza non era comune quanto oggi.

Gli ultimi anni si confondono nella memoria. L’altra sera sono rimasto sveglio fino a tardi a leggere quel che hanno scritto i miei colleghi sui social a proposito di Pitchfork e mi sta prendendo una certa commozione. Sia sotto la guida di Schreiber sia dopo la sua partenza nel 2019, Pitchfork mi ha permesso di affrontare argomenti controversi, riportando accuse di abusi orribili e comportamenti scorretti che l’industria musicale avrebbe preferito nascondere sotto il tappeto. Ne sono orgoglioso. E mi piace il fatto che ho continuato a scrivere di musica avventurosa e relativamente di nicchia come I Killed Your Dog di L’Rain o The Greater Wings di Julie Byrne. Ho scoperto di non essere un’esilarante scrittore hard boiled di New York, sono solo un reporter e un fan della musica che vive nel Midwest, ma sono onorato d’aver lavorato al fianco di gente geniale e faccio il tifo per i miei talentuosi ex colleghi che sono rimasti a Pitchfork. Abbiamo bisogno del loro lavoro ora come non mai, anche se per loro farlo sarà sempre più difficile.

Forse l’attuale situazione di Pitchfork la si poteva predire negli anni ’90, così come si poteva immaginare la caduta di Internet negli abissi della spazzatura e del nonsense dell’intelligenza artificiale. Chi è disposto a scrivere gratuitamente, ovvero fare un’attività su cui altre persone hanno costruito una carriera pagata, poi non può lamentarsi quando perde il lavoro. Le vibrazioni erano negative quando abbiamo parlato a Condé Nast del sindacato di redazione, necessario vista la bassa retribuzione di cui i lavoratori di Pitchfork si sono accontentati nel corso degli anni. In passato ci sono già stati licenziamenti. Si è passati alla produzione di video, si è smesso, si è ripreso, si è smesso di nuovo. Nel 2020 Condé Nast ha licenziato l’allora direttore esecutivo Matthew Schnipper, fresco di congedo parentale, e la redattrice Stacey Anderson, che – per coincidenza – era a capo del sindacato. Per il resto di quel terribile anno di Covid, ho scritto ogni pezzo di Pitchfork come se fosse l’ultimo. Che ironia: ho finalmente scritto il mio primo articolo per Rolling Stone, un altro sogno di una vita che si realizza, anche se è per colpa del capitalismo del XXI secolo.

Sento dire che Pitchfork potrebbe diventare un brand usato per festival ed eventi, con sempre meno contenuti editoriali. Mi auguro che non sia così. Non avevo soldi per tornare a Chicago quando c’è stato il primo festival curato da Pitchfork nel 2005, ma da allora ci sono stato quasi ogni anno, tranne quando mi sono sposato e quando sono nati i miei figli. Nei primi tempi, coi bambini che sguazzavano nella piscina adiacente agli spazi del festival a Union Park, guardare il pubblico venuto per artisti fuori dagli schemi tipo Ponytail o Cool Kids faceva pensare che il mondo digitale stesse davvero diventando reale. Non sono sicuro che un concerto abbia il medesimo peso quando non è calato in un contesto culturale più ampio. E ora ci sono una dozzina di persone in meno che possono aiutarci a dare un senso alla musica.

Da Rolling Stone US.

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