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‘La grande truffa del rap’ italiano è senza fine

Nel 2000, il duo Gente Guasta pubblica un album che farà la storia del genere e che ancora oggi suona incredibilmente bene. Viaggio nei mondi sotterranei dell’hip hop in Italia

Foto: press

A 15 anni, nel 2003, ho cominciato a rappare. Ma arrivando da una provincia italiana, procurarsi degli album di rap italiano era quasi impossibile. Non si trovavano nei negozi di dischi, non passavano in radio, il mercato era morto. Racimolato qualche soldo, una volta ogni paio di mesi si prendeva il treno per Torino e arrivati in città si cercava qualcosa tra megastore e piccoli negozietti. A volte però poteva anche girarti bene: nelle varie spedizioni trovai Scienza doppia H del Colle Der Fomento e 3 Mc’s al cubo delle Sacre Scuole (il gruppo da cui nasceranno i Club Dogo). Non potendoci fidare del mondo fisico, la ricerca e le scoperte avvenivano nei vagiti della rete nei cui forum i pochi fedeli del genere si condividevano dischi piratati già da tempo dispersi.

Nel 2003 la narrativa rap nei forum era ancora attaccata a uno stoico purismo verso le quattro discipline. Privato di ogni supporto del mainstream, il rap era così tornato nelle mani di piccoli avamposti armati (di tastiera) in cui i pochi partecipanti erano più attenti a sgamare il sucker di turno piuttosto che supportare i pochi tentativi di sopravvivenza di una scena che, in quei giorni, aveva i battiti al minimo. «Peccato che sei arrivato solo ora, qualche anno fa era incredibile», era una delle frasi più gettonate che i b-boy sopravvissuti alla débâcle di inizio millennio mi rivolgevano.

In un momento storico in cui anche il più ingenuo e sfigato rapper di provincia era visto con occhio storto, per sgamare il sucker di turno, iniziavano a circolare nei forum alcuni rituali considerati sacri. Il mio preferito era questo: se vuoi essere un rapper, devi sapere a memoria Lotta armata dei Gente Guasta, prodotta da Dj Skizo degli Alien Army. Chiedete ai vostri amici che dicono di aver vissuto quegli anni e che hanno rappato in quel periodo storico. Se alla frase “Più la mia fazione perlustra, più quest’industria mi disgusta” risponderanno recitando in modo militare il resto della strofa di Esa, siate sicuri di trovarvi di fronte a un fiero b-boy. Chiedetegli poi scusa per aver dubitato della sua dedizione alle quattro discipline.  

Comprai il CD usato de La grande truffa del rap nel 2003 da un amico di un amico di un amico. Con una serie di mezzi – bici, bus, treno – arrivai a una stazione ancora piuttosto desolata del Canavese, zona di mia provenienza, e a questo traditore del rap lasciai la folle somma di 30 carte. Ricordo che sul treno di ritorno misi La grande truffa del rap nel CD player portatile, gadget immancabile dell’epoca e nonostante l’entusiasmo dell’acquisto, ne rimasi deluso. Non lo capii. Perché in quel disco c’era tutta questa oscurità, tutto questo presomalismo? Ok la chiamata alle armi di Lotta armata, la demenza della title track con Uomini di Mare (con un Fabri Fibra al massimo della forma) e Nesly, ma cos’era questo suono da fine di un’era? Il rap mi aveva truffato? Non lo so, ma iniziavo a pensare che quell’ex rapper con quelle 30 carte sì.

Ora, a oltre 20 anni da quel giorno in stazione, e a un quarto di secolo dalla sua uscita, posso affermare tranquillamente che La grande truffa del rap è uno dei dischi meglio riusciti nella storia del rap italiano. Mi ci sono voluti un po’ di tempo per comprenderlo davvero e una serie di ascolti in età più adatta alla stratificazione delle rime di Esa e Polare e ai beat prodotti da Lato, Esa, Dj Skizo, Next One e Boulevard Bou, ma pochi dischi rap italiani oggi mi suonano così a fuoco come La grande truffa del rap. E dirlo oggi, che il rap è strato trangugiato dalla trap, sembra un’altra truffa.

La grande truffa del rap esce 25 anni fa, nel 2000, per Niente X Niente, l’etichetta de La Pina che di Esa era sia partner musicale, che nella vita (“porto in giro uno spettacolo composto da tre mcs, un dj e un fonico/ gente con la quale condivido tutto/ e con uno pure il letto”, rappava la più importante rapper donna italiana in Ce n’è ai tempi di Otierre, la creatura prima di Gente Guasta). Siamo un anno dopo l’addio al rap di Neffa e un anno prima di quelli di Fritz Da Cat e Fede, del suicidio sanremese dei Sottotono e della chiusura di Aelle, la rivista di riferimento dell’ambiente. Le posse sono già storia, la golden age è finita, le radio che fino a poco prima supportavano il genere stanno puntando su altro. Il rap non vende più. E se nel 1997 Dalla sede, il disco degli Otierre con La Pina, era stato pubblicato dalla PolyGram, ovvero da una major, due anni dopo per La grande truffa del rap si torna praticamente alla “auto-produzione, auto-duplicazione, auto-distribuzione”, come recita Polare in Missionari, visionari, milionari. “Conosco i rischi dello sporco business con cui fotto”, rappa Esa in L’originale trasmissione della rovina. Il sogno del rap era annegato, tutti erano stati truffati.

Rispetto ai precedenti lavori come Otierre, l’esordio del duo Gente Guasta è sporco e denso, spesso immerso in oscuri presagi. Non si cerca più lo spirito funkedelico di “una nazione sullo stesso groove” come accadeva appena qualche anno prima, e come sottolineato da Esa in un’intervista dell’epoca su Aelle: «La situazione italiana era di gran lunga lontana dall’utopia della nazione sotto lo stesso groove. Più le cose andavano avanti, più apparivano ancora più evidenti le gelosie e le contraddizioni di tutta questa situazione». La scena si era oramai disgregata nelle invidie e nelle lotte fratricide di un ambiente presto tagliato fuori da major e radio. Nonostante questo spirito, i Gente Guasta smascherano la truffa con un album che, oltre a indagare le crisi di un sistema – sia il music business, che il rap game – è una dichiarazione d’amore senza sovrastrutture all’hip hop. Oltre alla già citata Lotta armata che dedica l’intero ritornello alle quattro discipline (“Mcs con in pugno i microfoni, lotta armata / djs con le dita sui dischi, lotta armata / E non c’è writer che non tocca gli spray, lotta armata / Non c’è b-boy senza mani sul cazzo, lotta armata”), c’è anche lo splendido dipinto di Polare nelle profondità di Mondi sotterranei rivolto rispettivamente a writer, b-boy e dj: “Uomini ombra fieri dei propri nomi fino alla tomba / Lasciano i propri segni a notte fonda / Uomini molla spezzati e rimessi insieme con la colla mò / Sfidano la fisica e decollano / Uomini granchio le chele con le mani han fatto il cambio mò / Tecniche sui dischi e stai in un angolo”. In una scena composta da “troppi pochi attivisti, troppi arrivisti sulle riviste”, i Gente Guasta si trovano a “far da ponte tra barbari e sbarbi / babbi e bastardi”, posizionandosi così nel ruolo di missionari, visionari, non certo milionari.

Un altro punto fondamentale de La grande truffa del rap sono le collaborazioni internazionali presenti che raccontano quel tentativo di fine millennio di El Presidente e Polare di costruire una rete di scambio europea raccolta sotto la sigla Mixmen Connection (detta anche La Connessione): ci sono infatti Tony L degli Advanced Chemistry, Mc Torch, Torch e Zulu Soundsystem dalla Germania e Defi J, Pitcho e Rival Capone della CNN dal Belgio. Oltre a loro, Dominicano aka Phase 2 da New York (già al lavoro con Neffa), Koolism dall’Australia, oltre a una conoscenza piuttosto assidua della scena italiana dell’epoca, il sudafricano Sean. Negli anni La Connessione sarà molto attiva in uno scambio continuo di featuring tra Italia, Germania e Belgio, vedendo i vari artisti coinvolgersi assiduamente in collaborazioni tra mixtape, cassettine, album. Gli stessi Esa e Polare provvederanno a produrre VHS divulgativi sulla scena con interviste e racconti in prima persona acquistabili direttamente da loro via posta. Tutto homemade, tutto in nome di quel sogno funkadelico. “In Italia non c’è un cazzo, terra di conquista”.

«Il rap italiano andava forte fuori dall’Italia in quel periodo, ci siamo potuti togliere grandi soddisfazioni e creare una rete in cui imparare, crescere, conoscere», mi ha raccontato Esa durante un recente pranzo estivo in una Milano desertificata. I Gente Guasta diventano così degli “Zingari di professione”, come annunciato nell’intro di L’originale trasmissione della rovina, e ribadito con “vagabondo in giro per il mondo in carovana” in Tappa dopo tappa.

“Ma chi vuoi intortare con la grande truffa? / A chi può importare se sei vivo? / Fatti i cazzi tuoi e campa cent’anni” rappa Esa in Chi è il pagliaccio?, uno dei brani meglio riusciti in scaletta. E il punto è proprio questo: molti hanno provato a inculare il rap, sfruttandolo e adoperandolo a proprio piacimento, truffandone anche la scena e gli ascoltatori, ma – allo stesso tempo – niente come il rap ha creato, ad almeno un paio di generazioni, un senso di appartenenza e di rispetto per la musica e la sua cultura così alto. Esa e Polare in La grande truffa del rap ce lo ricordano dall’inizio alla fine, da veri “esperti in queste arti, cioè / quattro spigoli alla base che puntano al vertice” come da strofa nella title track di Polare in un brano che, nei racconti di El Prez, «non piaceva per niente a Fabri e Lato che volevamo fare qualcosa di più serio». Alla fine il brano non solo fu apertura e title track, ma con struttura differente anche del Dinamite mixtape delle Teste Mobili (la crew di Fibra) dello stesso anno. Robe da fieri b-boy.

Risentire oggi La grande truffa del rap non è solo un gesto nostalgico, è indagine etnografica del rap italiano (e europeo) di inizio millennio. È un ricordo di quando i featuring non erano pensati per moltiplicare numeri ma nascevano con il compito di creare una comunità, una scena. «Chi ha vissuto l’hip hop, chi è cresciuto con l’hip hop, ha la mentalità plasmata dall’hip hop. Ora magari quella persona il genere non lo ascolta più, non va a sentirsi le robe nuove, e magari neanche quelle vecchie, ma il suo modo di pensare alla vita sarà hip hop: sarà fatto con un’idea di comunità, di fierezza, di rispetto che forse nessun altro genere ha», continuiamo con Esa usciti di trattoria. E questa considerazione mi rimane in testa: in effetti, anche avendo abbandonato il genere qualche anno dopo, ho sempre provato a fare musica pensando di costruire collettività, comunità. Non a caso il termine crew, tipico dell’hip hop, oggi è usato per intendere qualsiasi gruppo di lavoro con obiettivi comuni.

Molti hanno faticato a far pace con il rap. Neffa ci ha messo più di 25 anni e con «15 anni di cancro alla felicità», come mi ha raccontato qualche mese fa. Altri di quei giorni hanno abbandonato per sempre mentre certi son tornati al momento per loro più opportuno (umanamente o economicamente che fosse). Altri ancora ci lottano ogni giorno, come possiamo sentire anche negli ultimi dischi di Fabri Fibra e Marracash. Perché il rap è qualcosa che, se ci sei passato in giovane età, torna sempre. E per sempre ci dovrai fare i conti. A me è capitato quando quasi per caso (ma caso non è mai) ho riascoltato La grande truffa del rap trovandoci uno dei migliori dischi di musica italiana degli ultimi 25 anni. Perché non si uscirà vivi dal rap, ma sicuramente se ne esce migliori.

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