Ozzy Osbourne è morto. Una frase che era scritta nel copione del rock da decenni e che però nessuno si aspettava di dover leggere davvero. Perché Ozzy era il superstite per eccellenza, l’uomo che ha sfidato overdose, ricoveri, diagnosi mediche e buonsenso. Si è congedato lentamente, andandosene pezzo dopo pezzo, lasciandoci briciole di verità sparse nei suoi dischi, nei suoi libri, nelle sue interviste. L’ha raccontata per tutta la carriera: non la morte come fine, ma come tema, ossessione, riflessione costante. Forse per esorcizzarla.
«La gente mi chiede com’è che sono ancora vivo e io non so cosa rispondere», scriveva in Io sono Ozzy. «Se da ragazzino mi avessero messo contro una parete coi miei coetanei del quartiere e mi avessero domandato chi di noi ce l’avrebbe fatta ad arrivare ai sessant’anni, chi di noi si sarebbe ritrovato con cinque figli e quattro nipoti e due case in California e nel Buckinghamshire, col cazzo che avrei scommesso su di me. Invece eccomi qua. Ogni singolo giorno della mia vita è stato un evento. Ho assunto miscele letali di alcol e droghe per trent’anni. Sono sopravvissuto a un tamponamento aereo, ai tentativi di suicidio per overdose, alle MST. Sono stato accusato di tentato omicidio. E ho pure rischiato di morire andando a sbattere con un quad a due all’ora. Non tutto è stato piacevole. Ho fatto delle brutte cose in vita mia. Sono sempre stato attratto dal lato oscuro, io. Ma non sono il demonio. Sono solo John Osbourne: un ragazzino della classe operaia di Aston che ha lasciato il lavoro in fabbrica e ha cercato di spassarsela».
Chi conosce la sua carriera sa che per Ozzy la morte non era un tabù, ma una compagna di viaggio, un’ossessione lucida e spesso ironica. Non era paura, la sua. Era contemplazione, sfida e in alcuni casi anche desiderio. Qualcosa di simile a ciò che era per Jim Morrison. Il suo viaggio nel regno delle ombre è cominciato con una registrazione nel 1969, con quelle campane a morto, la pioggia e quel riff infernale che, più che rimandare a Mario Bava da cui i Black Sabbath avevano preso ispirazione per il nome, sembrava la colonna sonora perfetta per un film di George Romero. “What is this that stands before me?”, cantava Ozzy attonito, mentre una presenza demoniaca gli si staglia davanti. La morte, qui, è soprannaturale, oscura, ma mai astratta. È fisica, pesante. Provate a metterla su oggi stesso: quello è il suono del giudizio universale.
Nei primi album dei Black Sabbath, la morte (fisica, psichica o interiore) è ancora vissuta come una cosa molto seria, non qualcosa di cui farsi sberleffo. Pezzi come Electric Funeral, Hand of Doom, Children of the Grave parlavano di guerra nucleare, follia, devastazione sociale e spirituale. Ozzy non cercava di essere poetico o filosofico, ma urlava la verità, come la vedeva lui, anche quando non era lui a scriverne i testi. Era così allineato a quell’immaginario da renderlo reale e terribilmente spaventoso. Non si possono ascoltare i Black Sabbath e non sentirsi a disagio. Lo stesso mostro protagonista di Iron Man era una metafora della solitudine, la voce di qualcuno che si sentiva così estraneo alla vita da iniziare a dialogare con la morte, come se solo lei potesse ascoltarlo davvero.
Negli anni ’80, dopo aver iniziato a rischiare sul serio di morire, l’idea della fine assume nei dischi solisti una consapevolezza diversa, che però non è ancora paura. È in questo momento che Ozzy trasforma la sua stessa autodistruzione in arte. Alcolista ormai conclamato, nel suo debutto fuori dai Sabbath inserisce l’inquietante Suicide Solution, che gli creerà anche problemi legali con l’accusa assurda di istigazione al suicidio. Il pezzo, in realtà, è una fotografia cruda dell’alcolismo e del suicidio lento a cui lui stesso stava andando incontro, non certo un invito a farla finita.
Poi, di colpo, la morte fa davvero visita a casa Osbourne, ma si prende Randy Rhoads, il suo migliore amico e chitarrista a cui doveva la sua prima risalita dagli inferi. Tutti pensano sia la fine, anche lui, che nei mesi successivi farà di tutto per morire, senza farcela mai. La moglie Sharon lo butta sul palco di forza, gli mette una parrucca quando lui si rasa a zero e le chiede: «E ora come cazzo fai a mandarmi a suonare?».
«Il problema non è morire. Il problema è guardare la gente che ami morire prima di te. È lì che invecchi di colpo», ha detto a Classic Rock nel 2012, parlando di quel lutto e della scomparsa della madre. Eppure Ozzy non moriva, annunciava tour d’addio e poi tornava sempre, veniva studiato dalle università e finiva per avere una rubrica settimanale sul Sunday Times in cui dispensava consigli medici: «Se qualcuno anni fa mi avesse detto che avresi scritto un libro di consigli, gli avrei dato un pugno sul naso per avermi preso in giro. Voglio dire, a meno che non si tratti di consigli su come morire». Una rubrica in cui uno come lui che aveva perso un amico in uno schianto aereo, rispondeva così a un utente che gli confessava di avere il terrore di morire in quel modo: «Volare può essere mortale. Ad esempio, una volta stavo su un aereo per l’America e il tizio vicino a me ha cominciato a fare dei rumori curiosi mentre mangiava le noccioline. Un secondo dopo ero seduto vicino a un cadavere».
All’inizio del nuovo millennio Ozzy è al massimo della sua autocelebrazione da araba fenice. In Back On Earth e nel bellissimo video, col solito mix di ironia e cialtroneria si fa rappresemtare come un salvatore che ha sconfitto la morte e viene osannato dalla popolazione rurale in cui ricompare, un po’ Cristo, un po’ Nosferatu. Poi, piano piano giunge la nostalgia, il parlare della fine con meno spavalderia, meno forza. Anche se pure in passato, qui e là, si erano avvertiti gli echi di una sensibilità fuori dal comune. In Mama, I’m Coming Home, per certi versi il brano definitivo della sua carriera in solitaria, Ozzy non tornava a casa con il vecchio Crazy Train, ma lo faceva mestamente, accostando chiaramente il termine casa a quello di morte. Così come accadeva in Goodbye to Romance, forse la sua prima vera elegia, il suo addio alla gioventù, agli amici perduti, a un tempo che non sarebbe più tornato.
Se nei primi album Ozzy flirtava con la morte con atteggiamento da giullare maledetto, gli ultimi appaiono ancora di più un vero testamento spirituale in due atti. In Ordinary Man, scritto mentre la salute lo abbandonava e il Parkinson iniziava a mordere, Ozzy si spoglia del personaggio e si mostra forse davvero la prima volta come uomo fragile. Accetta la sua vulnerabilità senza perdere se stesso. “Don’t forget me as the colors fade”, canta nella title track, una ballad struggente, una preghiera in memoria, un addio malinconico che trasuda dignità. In quell’album, Ozzy ammette la sua fragilità, ma lo fa senza piagnistei e con grande lucidità: “Non sono un uomo ordinario”, ci dice, “ma sto per affrontare una fine molto umana”. Con Patient Number 9, sorta di concept su un paziente mentale recluso, torna anche a parlare dell’altro grande tema della sua poetica: il folle. Che ora si interroga sul senso della vita e sulla propria eredità.
Persino la celebrazione in vita di Back to the Beginning fa parte di questa ultima parte della sua vita, quella in cui da vivo ci preparava alla sua scomparsa. Per cercare forse di farci soffrire di meno. Alla fine del concerto di Birmingham disse che, dopo essere riuscito in quell’impresa, avrebbe potuto morire felice. Prima però si è preoccupato di lasciare qualcosa a noi che siamo rimasti. God bless you, Ozzy.












