La condanna di essere un genio: Questlove racconta Sly Stone | Rolling Stone Italia
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La condanna di essere un genio: Questlove racconta Sly Stone

Il musicista dei Roots e regista dei ‘Sly Lives!’ spiega i talenti del leader di Sly and The Family Stone e perché la sua storia riassume alcuni tratti importanti dell’esperienza afroamericana

La condanna di essere un genio: Questlove racconta Sly Stone

Sly Stone

Foto: Ron Pownall/Getty Images

La storia di Sly Stone mostra quant’è difficile mostrare le proprie emozioni, un problema ancora più grosso se sei un nero che vive negli Stati Uniti. Esprimere i propri sentimenti poteva essere pericoloso per quelli come noi. Rischiavi di essere deriso, emarginato, malmenato o persino ammazzato. Per proteggersi, molti afroamericani hanno adottato un atteggiamento di coolness e hanno finto di non provare nulla, ma era solo modo per mascherare le loro emozioni, rendendosi insensibili.

Ci sembra a volte di essere pesci rossi chiusi in una boccia: siamo costantemente osservati dagli altri e quindi non riusciamo ad essere autentici. Sly aveva un gran talento e doveva affrontare la pressione derivante dalle aspettative. Viveva il conflitto costante tra la sua creatività e l’ansia di trovarsi sotto i riflettori. La sua arte straordinaria comportava il peso enorme di queste sfide.

È stato un tale innovatore che lavorando al documentario Sly Lives! temevo che concentrarsi troppo sui suoi successi potesse far perdere di vista il messaggio sulla salute mentale che volevamo far passare. Il suo senso dell’umorismo è evidente nei finti spot pubblicitari che creava per il suo programma in radio e che hanno anticipavano sketch simili del Saturday Night Live. Nella sua visione di un mondo integrato dal punto di vista razziale e sessuale riecheggiava il sogno di Martin Luther King Jr., ma era anche potenzialmente controversa. Alla fine degli anni ’60 la comunità nera non era pronta per i suoi testi in cui esponeva emozioni profonde e lotte interiori e questo perché la priorità era sopravvivere, non mostrarsi vulnerabili. Le sue melodie avevano qualcosa di fanciullesco, ma spesso nascondevano messaggi più profondi. Come Everyday People, che aveva sì un tono giocoso, ma era un appello all’importanza di fare comunità.

Lo spirito innovativo di Sly ha anticipato  l’hip hop. Se fosse venuto fuori vent’anni dopo, avrebbe potuto rivaleggiare coi Public Enemy o coi De La Soul. Sperimentava con la voce e creava video concettuali molto prima che MTV li rendesse di moda. La sua estetica era in netto anticipo sui tempi. E suo fratello Freddie è stato fondamentale nello sviluppo di quel suono funk “bow chika wow wow” diventato simbolo degli anni ’70.

Sly ha indicato la via a musicisti-geni che fanno tutto da soli poi seguita con successo da gente come Stevie Wonder, Todd Rundgren, Prince e Shuggie Otis. La sua musica aveva una libertà giocosa che stava da qualche parte tra «wow, è una cosa seria!», «no aspetta… è una cosa seria?» e «uh… no, non può essere una cosa seria». Il senso di isolamento presente in Riot e Fresh crea un grande contrasto con l’inclusività e il cantiamo-tutti-assieme dei primi cinque album del gruppo.

In Hot Fun in the Summertime si percepisce la leggerezza ironica di un’estate che in fondo non vivremo mai. Ci sento anche Sly spingere la sorella Rose a lanciare frecciatine a Norman Whitfield e ai Temptations per avergli copiato lo stile. Hot Fun è l’originale Not Like Us, solo che non ce ne siamo mai accorti. I Temptations hanno poi risposto con Superstar (Remember Who You Are), ma è stato Sly ad avere l’ultima parola quando nel 1976 ha fatto il loro ghostwriter, dopo che Whitfield se n’era andato. Sly ha ridefinito cosa vuol dire essere prolifici in un modo che sembrava impossibile persino a quest’uomo che fa sei lavori differenti.

Da Rolling Stone US.

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