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Karma, «un gruppo di fricchettoni nella Milano ultrapolitica delle posse»

Nella nuova puntata di ‘Milano sogna’ David Moretti racconta la storia della band e i suoi anni ’90. «La gente diceva: esistiamo, abbiamo una voce, vogliamo produrre le nostre cose»

Foto: Barbara Oizmud

I Karma, la prima band che è stata prodotta dal Jungle Sound, sono al centro della nuova puntata di Milano sogna, il vodcast dedicato allo studio di registrazione e alla scena cittadina anni ’90, e non solo. In quel periodo il cantante del gruppo David Moretti era uno studente universitario che si trovava «in un turbinio incredibile tra le occupazioni delle università e il movimento della Pantera».

A Milano negli anni ’80, ricorda nella chiacchierata con Fabrizio Rioda del Jungle, «si suonava in spazi occupati come il Leoncavallo o all’Helter Skelter davanti qualche decina di persone, forse un centinaio. Nei ’90 se suonavi al venerdì o al sabato sera lo facevi davanti a 3000 persone, un cambiamento impressionante. Mi rendevo conto che qualcosa stava nascendo, non solo nella musica. In Accademia di Brera c’erano Maurizio Cattelan e Vanessa Beecroft, italiani che cambieranno l’arte contemporanea, e lo stesso accadeva nel teatro, c’era un fermento culturale, la voglia di dire: esistiamo, abbiamo una voce, vogliamo produrre le nostre cose, creare un ecosistema sostenibile. Erano tempi diversi, era forse più facile essere antagonisti. Dall’altra parte c’era un muro e noi volevamo abbatterlo».

Rioda si era deciso a produrre i Karma dopo averli visti suonare in un bar: «Era l’ultima sera che era aperto, il Baritono si chiamava. Sul palco c’erano cinque persone che anche se avessero avuto davanti uno o un milione di spettatori avrebbero comunque fatto una performance irrinunciabile. Vedere quel concerto mi ha cambiato la serata e probabilmente anche la vita e la storia del Jungle. Perché quella sera dove sono venuto dietro al palco a presentarmi e invitarvi qui da me si stava compiendo un salto enorme per questo spazio, che è diventato il posto dove tutti volevano venire».

Il Jungle, dice Moretti, «rappresenta un punto fermo su come produrre all’insegna del do it yourself contenuti culturali e nello specifico, musicali. Ricordo che per registrare i dischi andavamo a cercare informazioni che ci facessero capire come i grandi gruppi internazionali registravano le chitarre e altro. Al tempo non esisteva Internet per cui era tutto uno scambiarci fotocopie, ma allo stesso tempo c’era la voglia di farlo in modo estremamente professionale».

«Il Jungle l’ho vissuto come una casa. Arrivavo alle 11 e tornavo a casa alle 4 della mattina, e questo per cinque anni. Ci si chiedeva: chi c’è oggi? Ci sono gli After, ci sono i Karma… così ti trovavi ad aprire la porta e ascoltare. E magari ti capitava di essere tirato in mezzo a fare un coro o un riff di chitarra o una poesia. Tutto era possibile».

All’epoca i Karma erano «un gruppo di fricchettoni fuori contesto ispirati dagli anni ’70 nella Milano ultrapolitica delle posse, dell’impegno ed eravamo già completamente scollati. Arriviamo al Jungle per registrare il nostro EP in inglese, entriamo come Circle of Karma con un certo tipo di aspettativa e ne usciamo come Karma, un gruppo che canta in italiano, il primo a essere prodotto dal Jungle Sound e con un contratto da major».

Al Jungle la band ha registrato non solo Karma, ma anche il secondo album Astronotus del 1996. «La cosa più sorprendente è che una major come la Ricordi BMG voleva far uscire il secondo album di un gruppo che voleva prendere le distanze dall’esordio che aveva venduto bene, che ci seguisse nella follia di entrare in studio in modo direi romantico… Avevamo Ummagumma dei Pink Floyd come riferimento, avevano un insieme di strumenti atipici con un percussionista che spaziava da strumenti etnici a pellami a percussioni industriali con lamiere. Uno che in concerto portava una lavatrice che mandava in centrifuga con dentro i sassi».

Per Moretti «il Jungle è il luogo dei sogni, dove però i sogni non restano tali, ma si avverano. Un conto è comporre, avere le cose in testa e un’altra cosa è avere l’intenzione di comunicare queste cose e soprattutto farle. Non è follia irrazionale, si tratta di avere la razionalità nella follia nel pensare che potessero diventare dei prodotti commerciabili. C’è anche un elemento etico-valoriale nelle cose che il Jungle Sound ha fatto e per me rimane la cosa vera di questo luogo».

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