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Juliette Gréco, la musa dell’esistenzialismo che non aveva bisogno di essere una diva

Se n’è andata a 93 anni un’icona della cultura francese, un’artista totale che ha cantato canzoni meravigliose e segnato un’epoca, uno stile e l’idea stessa di femminilità

Foto: David Redfern/Redferns

Juliette Gréco (1927-2020) era la Francia. Come Brigitte Bardot e Édith Piaf. Ma lei è stata più completa, è stata donna di spettacolo e di cultura, ha incrociato nei rapporti, nelle relazioni, alcune delle più belle intelligenze francesi, che vuol dire del mondo. Nella mia personale gerarchia del cuore è posta molto in alto. Così come nella formazione di tante generazioni. Rispetto ai modelli citati sopra, Gréco offriva qualcosa di più. Era simbolo di femminilità, diversa dal “sesso” di una Bardot, che era unica al mondo, e come qualcuno scrisse, «anche terapeutica, nel curare i foruncoli degli adolescenti». Non aveva la voce potente, alta, dolente, a volte disperata di Piaf. Possedeva un tono basso e languido, di grande seduzione.

Tutto cominciò al Tabou, una boite sulla riva sinistra, dove Juliette e i suoi compagni si insediarono nel 1946, adottando quella divisa, jeans, maglioni accollati scuri, capelli sciolti, che avrebbe identificato il cosiddetto esistenzialismo. Ne era la profetessa. E da allora, pure nel trascorrere dei decenni con relative evoluzioni, quello fu sempre il suo tratto identitario. La sua fama si consolidò grazie a quella cifra così personale, da essere un unicum, di raccontare, recitare, cantare, apparire. E grazie a un repertorio scelto con cura maniacale, e grazie a certi maestri che… si lasciarono scegliere. E c’era la nobiltà della cultura francese, scrittori e poeti come Apollinaire, Queneau, Prévert, Françoise Sagan, compositori come Auric, Cosma e Misraki. E ancora, Jacques Prévert e Jean-Paul Sartre. Insomma, la Francia delle maggiori eccellenze. Alcune canzoni fanno parte della più bella memoria della gente: Sans vous aimer, Les feuilles mortes, Amour perdu, La chanson de Barbara fra le altre.

Nel luglio del 2015, per i 65 anni di carriera, venne al teatro Manzoni di Milano. C’ero a sentirla. Era sempre lei, eterna. Una scelta che non aveva fatto Bob Dylan, sempre a Milano, che cantava Mr. Tambourine Man e Blowin’ in the Wind con un registro che le rendeva quasi irriconoscibili.

Fu attrice ma mai diva del cinema, guardava quella disciplina da quasi… distratta. Eppure era stata chiamata da registi come Cocteau (Orfeo, 1950) e Renoir (Eliana e gli uomini, 1956). Darryl Zanuck, tycoon della Fox, si innamorò di lei. Quella major stava trasformando in film alcuni dei romanzi della grande letteratura. Le fece avere una parte ne Il sole sorgerà ancora, dal testo di Hemingway. Se devo indicare un unico ricordo di Gréco nei film, scelgo quello. Nel cast c’erano divi veri del cinema: Ava Gardner, Tyrone Power, Errol Flynn. Anni ’20, Gréco è Georgette, una cocotte che si accompagna a Jack (Power). Visitano una decina di locali parigini chiacchierando e bevendo Pernod. Finché lei gli chiede: «Dimmi, ti piaccio o no?». Jack, esitando imbarazzato, le risponde: «… Sono stato ferito in guerra». Allora Georgette diventa dolce e protettiva. «Scusami… scusami», ed esprime uno sguardo intenso, da poterci camminare sopra.

Adesso non è più qui e vorrei che qualcuno delle nuove generazioni, al quale il nome di J.G. dice poco o nulla, si domandasse perché tutti i quotidiani le abbiano dedicato pagine intere e i tutti i Tg servizi importanti. Lei diceva: «La morte? Ah, non mi interessa, so che devo morire da quando ero piccola, ho fatto l’abitudine a questa idea. La morte è una cosa normale. L’importante è non soffrire».

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